Ottobre 1st, 2014 Riccardo Fucile
L’ITALIA FIRMA UNA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA CAPESTRO: 50 MILIARDI DI TASSE IN TRE ANNI SE LA RICETTA DEL GOVERNO NON SORTISSE EFFETTI
“In termini cumulati la caduta del Pil in Italia è superiore rispetto a quella verificatasi durante la Grande depressione del ’29”. E’ la conclusione a cui è arrivato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, con l’aggiornamento del Documento di economia e finanza.
“L’area dell’euro è a un bivio”, aggiunge il ministro sottolineando che i Paesi in assenza di interventi “rischiano di avvitarsi in una spirale di stagnazione e deflazione”.
Quindi “occorre muovere con decisione su più fronti nella consapevolezza che in assenza di una ripresa robusta la tenuta del tessuto produttivo e sociale risulterebbe a rischio, la ricchezza delle famiglie minacciata, le prospettive dei giovani compromesse”.
Dal canto suo l’Italia mette un punto fermo sugli impegni presi garantendo fin da ora che se non ce la farà nel 2015, l’anno successivo i soldi mancanti saranno chiesti ai contribuenti e scatteranno in automatico gli aumenti dell’Iva e delle altre imposte indirette per un controvalore di 12,6 miliardi sul 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018.
L’impegno è scritto nero su bianco in coda alla nota di aggiornamento del Def approvata dal Consiglio dei Ministri di martedì sera, dove si certifica che a peggiorare le attese sui conti pubblici c’è innanzitutto un apporto meno ricco del previsto dalle cosiddette privatizzazioni per un peso inferiore alle stime calcolabile in 0,4 punti di Pil nel 2014, al quale si somma un fabbisogno che sarà superiore di 0,7 punti rispetto alle previsioni.
Sono queste, insieme alla minor crescita, due componenti che — secondo quanto riportato nel Documento di economia e finanza (Def) — porteranno il debito pubblico a fare un salto di 3,7 punti rispetto al 2013.
Se l’Italia non rispetterà impegni scatteranno rincari per 51 miliardi in 3 anni
Questo, in sintesi, il documento, che termina con dettagliatissime risposte ai rilievi Ue, fa slittare il pareggio di bilancio al 2017 e punta sui tagli di spesa.In coda a tutto, per rassicurare i “guardiani” di Bruxelles, la clausola di salvaguardia sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette.
Una stangata che si punta ad evitare ma che vale complessivamente oltre 50 miliardi nel triennio 2016-18 e sarà contenuta nella legge di Stabilità .
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Ottobre 1st, 2014 Riccardo Fucile
LE AGENZIE SPECIALIZZATE HANNO GIA’ FATTO I CONTI: SI TRATTA DI 50 EURO IN PIU’ AL MESE
La proposta ufficialmente non esiste ancora. Ma i conti non tornano già .
Secondo Matteo Renzi, l’ipotesi di destinare una parte del Tfr direttamente in busta paga potrebbe portare a chi guadagna 1300 euro netti “un altro centinaio di euro euro che uniti agli 80 euro del bonus — ha detto l’ex sindaco di Firenze a Ballarò – rappresentano una bella dote, circa 180 euro al mese”.
Ma a mettere in fila le simulazioni condotte fino ad ora sulla base dello scenario fino ad ora più accreditato, quello che venga prelevato subito il 50% della propria liquidazione, il beneficio finale potrebbe rivelarsi sensibilmente più basso di quanto annunciato dal premier.
Dei cento euro citati, conti alla mano, per la stessa fascia di reddito menzionata dal presidente del Consiglio, ne entrerebbero poco più della metà .
Abbastanza da far pensare che la proposta allo studio non riguardi solo il 50% ma l’intero importo del Trattamento di fine rapporto.
Stormo di gufi già in azione? Tutt’altro.
Accanto ai conti già fatti da Huffpost la scorsa settimana su cinque diverse categorie di lavoratori, anche l’ex sottosegretario al Welfare Alberto Brambilla, esperto di previdenza, citato dal Corriere della Sera è arrivato a conclusioni distanti da quelle del premier.
Per un lavoratore con uno stipendio da 1500 euro lordi, circa 1100 euro netti, appena sotto la soglia citata dal premier, il beneficio si attesterebbe intorno ai 55 euro.
Molto lontano dai 100 euro citati dal premier.
Come si arrivi alla cifra indicata da Renzi resta un mistero, anche perchè i dettagli della proposta sono ancora tutti da scrivere e lo stesso Pier Carlo Padoan, interpellato sulla questione, è stato più che prudente: “È un argomento in discussione”, si è limitato a rispondere ieri in conferenza stampa.
Avendo sommato il possibile beneficio con il bonus fiscale da 80 euro approvato ad aprile pare evidente che il premier, parlando dei cento euro, si riferisca a una cifra netta.
Musica per le buste paga degli italiani, pur con la dovuta precisazione che a differenza dei primi, i secondi sono già soldi dei lavoratori. Incassarli ora vuol dire non vederli più alla fine del rapporto di lavoro.
Lo scoglio principale ad oggi riguarda proprio il possibile drenaggio di liquidità dalle imprese che si vedrebbero private di preziose risorse. Problema che riguarda le aziende con un numero inferiore ai 49 dipendenti, che tengono “in pancia” le liquidazioni dei propri lavoratori e li usano per auto finanziarsi.
“Se diamo il Tfr in busta paga si crea un problema di liquidità per le piccole imprese, le grandi ce la fanno”, ha detto ieri Renzi.
Le grandi, probabilmente sì. Ma l’Inps forse no. Come ha ricordato oggi il Corriere della Sera il tesoretto di chi decide di mantenere il proprio Tfr in azienda ammonta oggi a circa 6 miliardi.
Somma che finisce direttamente in un Fondo di Tesoreria dell’Inps. Maggiore la percentuale che il governo farebbe confluire in busta paga, maggiore sarebbe il diametro del buco che si aprirebbe nei conti dell’Istituto Nazionale di Previdenza.
Buste paga più ricche, quindi, ma conti da ripianare altrove. Una piccola partita di giro che potrebbe innescare però un piccolo ma consistente effetto positivo anche per le casse pubbliche.
Portare la liquidazione direttamente in busta paga vuol dire anche tassare oggi (ad aliquote anche più alte) quello che si sarebbe tassato alla fine del rapporto di lavoro. Cifre consistenti, secondo uno studio de lavoce.info, che ha elaborato una stima sulla base di quattro diversi scenari di adesione alla proposta del governo.
L’ipotesi intermedia, con un’adesione del 50% dei lavoratori che hanno lasciato il Tfr in azienda e del 25% che lo hanno destinano alla previdenza complementare, lo Stato si porterebbe a casa 2,8 miliardi di euro di gettito fiscale in più.
In tempi di legge di stabilità e di caccia disperata alle coperture, risorse a cui Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan potrebbero far fatica a rinunciare.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 1st, 2014 Riccardo Fucile
IL DOCENTE DELLA BOCCONI: “I LABURISTI INGLESI E I SOCIALDEMOCRATICI TEDESCHI, I MODELLI RENZIANI, NON SI SONO PIU’ RIPRESI DALLA SCONFITTA ELETTORALE”
Il cambiamento è epocale. Immaginiamo l’articolo 18 come un perno: “Ci si appoggia per rivoltare la sinistra in qualcosa di diverso, senza una matrice socialista e lungo il solco tracciato da quelle che un tempo furono le sinistre socialdemocratiche europee”.
E che oggi, per Giuseppe Berta, storico dell’industria e docente alla Bocconi di Milano, sono agonizzanti: “Se Matteo Renzi vede in Tony Blair il suo mentore, allora è normale che cerchi di spezzare il legame con i sindacati: lo hanno fatto i laburisti inglesi e i socialdemocratici tedeschi. I primi non si sono ancora ripresi e vivono delle disgrazie altrui, i secondi fanno parte di una coalizione su cui non riescono a incidere, a parte il salario minimo, lo strumento che dovrebbe far salire gli stipendi dei mini job creati durante il mandato del socialdemocratico Gerhard Schrà¶der”.
Il premier sull’articolo 18 rischia di spaccare il suo partito.
Nessuno pensa che questo, in una fase recessiva, generi posti di lavoro.
A cosa serve allora?
Ci si rivolge all’Europa, ma soprattutto a un pubblico più ampio: quello che apprezza la politica antisindacale.
L’elettorato di destra?
Il ceto medio, che è poi quello che si deve sobbarcare il peso maggiore delle tutele sociali. Così si aumenta la base elettorale: è la sfida che si è posta di fronte ai partiti socialisti europei dopo la lunga fase degli anni 80 lontani dal governo.
Con quali risultati?
La fine della sinistra come la conoscevamo. E con essa il difensore del welfare state (le tutele dello stato sociale, ndr) e dell’economia mista: la compresenza di due poli – il pubblico e il privato – come motori dell’economia. Un declino iniziato negli anni 80 con le idee di Margareth Thatcher e proseguito con Blair e Schrà¶der.
Tutti contro i sindacati?
Blair non fece nulla per sanare gli squilibri creati dalla Lady di Ferro, Schrà¶der fece di peggio: affidò le riforme del mercato del lavoro a Peter Hartz, capo del personale della Volkswagen, poi condannato per corruzione dei rappresentanti sindacali.
Perchè il welfare state è rimesso in discussione?
Perchè costa, tanto. Perfino i partiti socialdemocratici scandinavi si sono indeboliti difendendolo. Nel ’76, prima della Thatcher, dopo 40 anni al governo la socialdemocrazia svedese perse le elezioni: era il segno dell’insofferenza verso una forma di tutele che comporta una pressione fiscale elevata, ma è anche l’unica via per ridurre le disuguaglianze.
La sinistra è in disarmo. La svolta a favore della globalizzazione, se all’inizio li ha riportati al governo, li ha poi svuotati della loro stessa natura. Ora ne pagano le conseguenze: i socialisti francesi sono al minimo storico. Zero idee e mancanza di coraggio: hanno perfino accolto l’euro senza porsi il problema delle conseguenze.
Colpa della globalizzazione?
Vi hanno aderito convinti, come se contenesse un moltiplicatore di ricchezza, ma la globalizzazione riduce l’autonomia degli Stati – consentendo alla grande industria di trasferire gli investimenti dove più conviene – e la sinistra ha sempre fatto perno sullo Stato-Nazione.
Renzi ha in mente questo piano?
Segue la stessa logica.
Ma una riforma del lavoro può essere utile.
Certo, ma c’è un paradosso incredibile: si riforma il mercato del lavoro senza sapere qual è il modello economico che vogliamo adottare, e con una gigantesca incertezza sugli ammortizzatori sociali. In Europa si vuole tutelare il lavoratore sul mercato e non all’interno del luogo di lavoro. Lo Statuto dei Lavoratori fa l’esatto opposto, perchè è nato in un contesto molto diverso. Nessuno dei due è giusto o sbagliato a prescindere, ma bisogna saper scegliere. Invece si attacca il sindacato.
Che però si è dimenticato di milioni di lavoratori precari.
Ha colpe gigantesche, ma i problemi sono altri: abbiamo perso un quarto dell’apparato produttivo.
Ora si parla di “modello tedesco”.
Lì si è fatto perno sulla potenza di fuoco di alcune grandi imprese, con buoni ammortizzatori sociali. Ma si rischia l’implosione. Se lei fa un giro a Berlino si accorge che i supermercati sono vuoti e la vita costa meno che a Torino: significa che la domanda interna è depressa.
Carlo Di Foggia
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Ottobre 1st, 2014 Riccardo Fucile
IL PREMIER NEGA DI ASSOMIGLIARE AL CINICO PROTAGONISTA, MA AVEVA PROPOSTO COME CORSI DI FORMAZIONE POLITICA LE SERIE TV AMERICANE
Tanto Matteo Renzi ha rievocato la serie tv House of cards che alla fine l’autore della trilogia politica Michael Dobbs gli ha scritto un messaggio. “Le mie storie non sono un manuale di istruzioni“, ha detto lo scrittore britannico che è stato anche consigliere di Margaret Thatcher.
A raccontarlo è stato lo stesso Dobbs durante il suo intervento all’International communication summit Europe: “Quando ho saputo”, ha detto, “che Renzi aveva comprato una copia del mio libro a Roma, ho ritenuto prudente mandargli una nota per ricordargli che il libro è solo intrattenimento e non un manuale di istruzioni”.
La serie tv “House of cards” è tratta dal romanzo dell’ex membro del partito conservatore britannico ed è basata sull’omonima serie televisiva degli anni ’90 della Bbc.
Al centro della scena: Washington e le fitte trame di potere tra giornalismo e politica.
Il protagonista è Frank Underwood, deputato democratico impegnato a vendicarsi contro il partito dopo che è stato escluso dalla carica di segretario di Stato.
Il presidente del Consiglio alla direzione Pd di fine maggio aveva lanciato una proposta: “Si potrebbero alternare gli strumenti tradizionali di formazione politica con le serie tv americane. So che qualcuno si mette le mani nei capelli, ma imparare anche un racconto è importante”.
Che a Renzi piaccia House of cards poi, lo raccontano in molti tra i suoi fedelissimi.
E così domenica 28 settembre, Fabio Fazio a “Che tempo che fa” gli ha mostrato uno spezzone della serie e gli ha chiesto cosa ne pensasse.
Il premier ha messo le mani avanti e ha sottolineano di non essere cinico come il protagonista. “Il potere è caricarsi su di sè la responsabilità degli altri”, ha detto il premier in studio.
“Quando c’è un disoccupato il potere deve fare in modo che trovi lavoro”.
Chi non nasconde le sue simpatie per la serie tv è il presidente statunitense Barack Obama che vorrebbe addirittura il protagonista Frank Underwood nella sua squadra: “Vorrei che anche qui le cose andassero avanti così velocemente; quel Frank è riuscito a fare un sacco di cose”.
Reed Hastings, amministratore delegato di Netflix, ha già ufficialmente invitato Obama a fare una comparsata nella seconda stagione.
Ma per ora il presidente degli Stati Uniti ha declinato.
Chissà se invitassero Renzi come correrebbe….
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Ottobre 1st, 2014 Riccardo Fucile
LE CONTRADDIZIONI DELLA RIFORMA SUL LAVORO
La mediazione via sms all’interno del Partito Democratico, con i messaggini fra Matteo Renzi e Sergio Chiamparino, rischia di rendere il Jobs Act del tutto inefficace nell’incoraggiare incrementi di produttività e più assunzioni con contratti a tempo indeterminato.
Speriamo che, mettendo da parte i cellulari, e affrontando il merito dei problemi, vi si ponga rimedio.
La direzione Pd lunedì ha approvato a larga maggioranza, non prima di deflagranti polemiche e minacce di scissione, un ordine del giorno che mantiene in vigore, fin dal primo giorno di vita di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la reintegrazione del lavoratore in caso “di licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie”.
Questo significa che i licenziamenti individuali continueranno a essere fin da subito molto costosi, trattando un neo-assunto come un lavoratore già presente da 20 anni nell’azienda.
In barba a quelle “tutele crescenti con l’azienda aziendale” cui fa esplicitamente riferimento l’emendamento governativo al disegno di legge delega recentemente approvato dalla Commissione Lavoro al Senato.
Vediamo di capire perchè.
Oggi un datore di lavoro che volesse licenziare un dipendente può addurre sia ragioni di natura disciplinare (legate al comportamento del lavoratore) che economica (legate alla performance dell’impresa).
Se il giudice ritiene che queste motivazioni siano infondate (si parla di “manifesta insussistenza” nel caso di licenziamenti economici), può imporre la reintegrazione del lavoratore.
Si vuole ora mantenere questa possibilità per i soli licenziamenti disciplinari.
Ma il confine fra licenziamenti economici e licenziamenti disciplinari è molto sottile.
I datori di lavoro avranno, nel caso in cui questa modifica entrasse in vigore, l’incentivo a perseguire solo la strada dei licenziamenti economici, anche nel caso di comportamenti opportunistici di un proprio dipendente, dato che, almeno sulla carta, i licenziamenti economici costano di meno dei licenziamenti disciplinari.
Mentre un lavoratore licenziato per ragioni economiche potrà sempre far valere davanti al giudice il fatto che l’azienda volesse in realtà punirlo per il proprio comportamento.
In questo caso, anche se il difetto del lavoratore fosse documentabile, ma l’impresa avesse altri modi di “punire” il lavoratore senza licenziarlo (ad esempio cambiando gli orari di lavoro), il giudice potrà imporre all’azienda il reintegro del dipendente.
Si tratta perciò di una modifica marginale, del tipo di quella imposta dalla Legge Fornero con il principio della “manifesta insussistenza”, che viene peraltro in questo caso introdotta solo per i nuovi assunti, mentre la legge Fornero cambiava le regole per tutti i lavoratori.
Per quanto il legislatore possa definire con precisione i licenziamenti disciplinari (“la qualificazione specifica della fattispecie” cui fa riferimento il testo approvato lunedì), con questa mediazione si crea una forte asimmetria fra licenziamenti illegittimi di diversa natura, aprendo lo spazio al contenzioso.
Nei paesi Ocse, la norma è quella di trattare tutti i licenziamenti illegittimi allo stesso modo, indipendentemente dalle ragioni inizialmente addotte dalle imprese.
Da noi, invece, si mettono paradossalmente in una posizione di vantaggio i lavoratori coinvolti in un procedimento disciplinare rispetto a quelli coinvolti in una crisi aziendale di cui non hanno colpa alcuna. Se il licenziamento viene considerato legittimo, non riceveranno nulla come pure i lavoratori che hanno perso il lavoro per motivi economici.
Se, invece, il licenziamento venisse considerato dal giudice senza giusta causa, il lavoratore licenziato per questioni disciplinari potrà essere reintegrato sul posto di lavoro, a differenza di chi ha avuto la sfortuna di trovarsi in un’azienda in crisi.
Gli incentivi sono perversi: per aumentare la produttività bisognerebbe proprio scoraggiare i comportamenti opportunistici.
A chi oggi deve creare lavoro in Italia importano due cose.
Primo, vuole essere rassice curato sul fatto che un eventuale errore nella selezione dei candidati, inevitabile quando si assume per le prestazioni più complesse richieste dalla stragrande maggioranza dei nuovi lavori, questo errore fosse rimediabile con costi certi e contenuti, tipo una compensazione monetaria fissata per legge.
Secondo, vuole essere sicuro che il dipendente si impegnerà a svolgere sempre meglio le proprie mansioni “imparando facendo”.
Il Jobs act uscito dalla direzione del Pd non cambia nulla su questi due piani.
Di più, non viene neanche a sanare la contraddizione introdotta dal decreto Poletti che, permettendo di fatto un periodo di prova di tre anni, scoraggia qualsiasi assunzione a tempo indeterminato e la stessa conversione dei contratti temporanei in contratti permanenti, come certificato dai dati sulle comunicazioni obbligatorie raccolti dal ministero di cui Poletti è titolare.
È sconcertante, infine, che materie così importanti, che riguardano milioni di lavoratori, vengano negoziate via sms.
Credevamo che con la nuova politica, l’arte del confronto, della mediazione e della ricerca del consenso, fosse un’altra cosa.
Tito Boeri
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 1st, 2014 Riccardo Fucile
NON SI POTRA’ PIU’ PORTARE IL MODELLO CARTACEO IN BANCA O ALLA POSTA, MA SI DOVRANNO USARE I SERVIZI ONLINE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE O L’HOME BANKING
Dal primo ottobre il modello F24 cartaceo, per intenderci quello che si paga alla Posta o agli sportelli bancari, non può più essere utilizzato dagli italiani che effettuano pagamenti superiori a 1.000 euro, per quelli a saldo zero o con crediti in compensazione con saldo finale maggiore di zero.
Cambiano, infatti, le modalità di versamento di imposte e contributi o dell’uso degli stessi crediti da parte di tutti i contribuenti privati. I titolari di partita Iva, invece, sono già obbligati.
L’uso dei canali telematici rappresenta decisamente un’importante novità .
La mini riforma della riscossione, pensata di fatto per far ottenere all’Erario una riduzione dei costi, si rileverà però l’ennesimo labirinto fiscale in cui la politica sta conducendo gli italiani per poi abbandonarli nella disperata ricerca dell’uscita.
Per molti, infatti, sarà difficilissimo trovare il filo d’Arianna, dal momento che la rivoluzione cade in coincidenza con il caos del pagamento della Tasi, ovvero la tassa sulla casa delle polemiche e delle complicazioni in scadenza giovedì 16 ottobre.
Così, dopo aver fatto lo slalom tra 16mila delibere e 10mila regolamenti comunali per il calcolo, i milioni di proprietari e affittuari si troveranno anche ad affrontare una nuova modalità di versamento nel caso in cui l’acconto da pagare superi i mille euro. Importo facile da raggiungere, visto che la Tasi chiama al pagamento tutti gli immobili, anche quelli che non avevano mai pagato nè Ici, nè Imu grazie alle vecchie detrazioni fisse.
Inoltre la faccende si complica per una platea di contribuenti alle prese con i bollettini composta perlopiù da persone inesperte (e anziane) nell’uso del computer.
Strumento, invece, fondamentale per l’invio telematico del modello F24, proprio perchè bisogna utilizzare Internet per connettersi ai servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate (Entratel o Fisconline) o per accedere al proprio home banking.
Meglio ricordare che per accedere ai canali ufficiale del Fisco ci si deve iscrivere e richiedere all’Agenzia un codice pin.
Rivoluzione che ha già spinto le Entrate a diffondere una circolare (n. 27/E) in cui spiega come presentare online la delega di pagamento e illustra i casi in cui è ancora possibile utilizzare il modello F24 cartaceo
Che cosa cambia dal primo ottobr
Con un importo superiore a 1.000 euro è obbligatoria la modalità di pagamento telematica (Entratel, home banking, etc.) per il versamento di imposte, contributi, premi ed entrate spettanti alle casse previdenziali. Mentre i modelli F24 a saldo zero potranno essere presentati esclusivamente attraverso i servizi online dell’Amministrazione finanziaria (F24web, F24online o tramite un intermediario abilitato come il professionista o il Caf).
È il diffusissimo caso in cui il modello ha un saldo a zero e non presente niente da pagare, perchè sono stati compensati crediti e debiti in esso dichiarati.
Ad esempio, sfruttando un credito Irpef di 500 euro, si potrebbe compensare interamente l’importo di 280 euro della Tasi.
Ma dal primo ottobre non sarà più possibile: non solo non si potrà più consegnare l’F24 alla Posta o in banca, ma in questo caso non ci si può neanche far aiutare dal figlio dal vicino di casa per avvalersi dell’home banking, dovendo invece utilizzare esclusivamente i canali delle Entrate.
Quando è ancora possibile utilizzare l’F24 cartace
I contribuenti (a eccezione dei titolari di partita Iva) potranno continuare a utilizzare il modello cartaceo anche dopo il primo ottobre per il versamento di somme pari o inferiori a mille euro, a patto che non ci siano crediti in compensazione (in questo caso, come scritto, si possono utilizzare solo i servizi Entratel o Fisconline).
La stessa possibilità è offerta nel caso di modelli precompilati dell’ente impositore (ad esempio Comuni o ordini professionali), anche se i versamenti sono superiori a 1.000 euro (a condizione che non siano indicati crediti in compensazione).
Semaforo verde per l’F24 di carta fino al 31 dicembre anche per i versamenti rateali in corso di tributi, contributi e altre entrate, anche in caso di somme superiori a 1000 euro, di crediti in compensazione o di saldo del modello pari a zero.
Ok valido anche per i soggetti che hanno diritto ad agevolazioni fiscali, nella forma di crediti di imposta, utilizzabili in compensazione esclusivamente presso gli agenti della riscossione.
Infine, i protestati o i cattivi pagatori che non hanno un conto corrente, nel caso di un pagamento superiore a mille euro (oppure se ci sono compensazioni ma il saldo è positivo), potranno affidarsi o a un intermediario abilitato a Entratel, disponibile all’addebito sul proprio conto, o a un intermediario della riscossione che consente di pagare, ad esempio, con una carta prepagata o in ultima istanza, se questi canali non sono disponibili, potranno utilizzare l’F24 cartaceo.
Patrizia De Rubertis
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Ottobre 1st, 2014 Riccardo Fucile
PROPENSIONE AL RISPARMIO… DE RITA: “LE ELARGIZIONI DI RENZI AVREBBERO BISOGNO DI UN SENSO”
“Il problema degli 80 euro di Renzi è che non hanno un senso”. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, al termine di una conversazione su cosa sta accadendo al risparmio degli italiani, commenta così quello che è avvenuto con gli stimoli all’economia ideati dal presidente del Consiglio.
“Visto il contesto in cui ci troviamo quella somma è stata troppo poco ma soprattutto non ha avuto una chiara finalità , qualcosa che motivasse davvero la spesa. Nessuno impegna i pochi soldi a disposizione se non ha un buon motivo per farlo”.
Il giudizio non vuole essere impietoso. Anzi, assomiglia più a un consiglio.
I numeri di cui parla il Censis sono tratti dal Diario della transizione da cui emerge una fotografia sul risparmio degli italiani che ben descrive l’attuale situazione di stallo.
“Negli anni della crisi — si legge — gli italiani hanno preferito tenere i soldi cash o fermi sui conti correnti, a disposizione per ogni evenienza”.
Il punto che Renzi ha sottovalutato è esattamente questo.
Il valore di contanti e depositi bancari è aumentato di 234 miliardi di euro negli ultimi sette anni.
“Le consistenze sono passate dai 975 miliardi di euro del 2007 a una massa finanziaria di 1.209 miliardi nel marzo 2014, con un incremento del 9,2% in termini reali”.
Si tratta del 30% delle attività finanziarie delle famiglie mentre erano solo il 25% nell’anno prima della crisi.
A descrivere il quadro di una incertezza crescente c’è anche il dato sugli investimenti in assicurazioni e fondi pensione aumentati nel periodo preso in esame di 125 miliardi di euro (+7,2%).
Allo stesso tempo si sono azzerati i consumi (-7,6% dal 2007 a oggi), dimezzati gli investimenti immobiliari (dalle 807 mila compravendite di abitazioni del 2007 alle 403mila del 2013), con una frenata complessiva dettata dalla crisi.
L’impatto della crisi è, secondo De Rita, fondamentale.
“Gli italiani non vedono nel risparmio un valore tradizionale, il loro comportamento è legato al periodo storico”.
E l’attuale periodo storico è legato a quella che il sociologo chiama “sobrietà ” . “Torna in auge il ‘genio contadino’, lo stesso che si è messo all’opera subito dopo la guerra. Non si tratta di paura, come crede Renzi, ma di prudenza, cautela, attesa di una prospettiva”.
I dati pubblicati dalla Banca d’Italia confermano questo giudizio.
Su oltre 9 mila miliardi di ricchezza delle famiglie, la parte del leone, oltre 5 mila miliardi, è fatta dalla ricchezza “reale”, per lo più le abitazioni (4.800 miliardi) i cui prezzi però sono scesi.
In aumento, invece, la ricchezza finanziaria che nel 2013 è cresciuta del 2,1% arrivando alla cifra di 3.896 mila miliardi di euro.
Questa “ricchezza” è concentrata nelle attività più liquide: il 27% (dato di fine del 2013 ma la percentuale, come visto, è in salita) in depositi bancari e il 7% in altre voci ancora più liquide come biglietti e monete, conti correnti postali, crediti commerciali. In totale fanno 1.320 miliardi di euro a disposizione degli italiani, tenuti a portata di mano o di bancomat.
Meno liquidi, ma percepiti come molto sicuri, le assicurazioni e i fondi pensione, compresa la la liquidità del Tfr, quella stessa che Renzi vorrebbe mettere direttamente in busta paga: si tratta di oltre 700 miliardi, il 18,2% del totale.
Le obbligazioni, cioè i titoli pubblici, ma non solo, ammontano a 624 miliardi e rappresentano il 18,6% mentre è più alta, anche grazie all’aumento del valore dei titoli in Borsa, la quota di azioni che ammonta a 916 miliardi, il 22,1% del totale.
Più ridotta, anche se in forte crescita, la quota dei fondi comuni: 308 miliardi, il 7%. A questa ricchezza complessiva occorre però detrarre la passività composta dai debiti. Soprattutto quelli bancari che ammontano a 602 miliardi, il 65% del totale di 921 miliardi.
All’interno di questo quadro c’è un alto grado di diseguaglianza.
Come sottolinea il rapporto della Banca d’Italia, nel 2012 — ultimo anno in cui i dati sono disponibili — la ricchezza detenuta dal 10% delle famiglie più ricche ha raggiunto il 46,6% del totale. Era “solo” il 45,7% nel 2010.
I dati non devono trarre in inganno perchè la complessiva propensione al risparmio in Italia è in discesa libera da circa venti anni.
Nel periodo 1992-’96 (dati Istat) la percentuale del risparmio sul reddito disponibile ammontava al 20,7% mentre nel 2012 si è ridotto all’8,2.
Questo in un contesto di contrazione drastica del potere di acquisto delle famiglie che nei cinque anni di crisi, dal 2008 al 2012, è scesa del 9,8%.
“Con gli anni 90 — dice ancora De Rita — è iniziata una fase di ‘galleggiamento’ e di attesa anche per effetto del differente sistema di conteggio monetario dovuto all’euro. Gli italiani si sono pian piano abituati a prezzi che di fatto erano il doppio di prima. A metà degli anni 2000, poi, è cominciata la crisi”.
Tutto diverso da quanto avveniva tra la fine degli anni 60 e la metà degli anni 80 quando la propensione al risparmio, pur alta, si è tradotta in una grande disponibilità a investire.
“Il numero delle imprese industriali, ricorda De Rita, è passato da 480 mila del 1971 a 980 mila nel 1981”. Segno di una “voglia di crescere e di investire”.
Oggi nessuno ha voglia di investire e lo dimostrano gli oltre mille miliardi lasciati su depositi bancari con tassi di interesse quasi nulli.
“Per investirli occorre dare incentivi, costruire finalità efficaci come la spinta alle ristrutturazioni domestiche”.
In fondo, conclude De Rita, il senso complessivo di un Paese è dato dalla somma di tante finalità individuali”. Renzi ha offerto 80 euro e altrettanti si appresta a offrirne con il Tfr in busta paga.
Ma non ha ancora trovato un senso a questa storia.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 1st, 2014 Riccardo Fucile
L’ULTIMA USCITA DEMAGOGICA RIGUARDA UN COSTO DI APPENA 25 MILIONI L’ANNO, QUANDO LE SOCIETA’ DI CALCIO VERSANO UN MILIARDO ALLO STATO
Quanto scriviamo è scevro da valutazioni politiche, ma ispirato ai fatti e al buon senso.
Oggi Renzi ha sostenuto che il servizio garantito dalla forze dell’ordine allo stadio deve essere pagato dalla società di calcio che ospitano l’evento (costo annuale 25 milioni)
Ricordiamo (e non è un dettaglio) che le suddette società versano un miliardo l’anno di tasse e già si sono prese a carico il servizio di sicurezza interno allo stadio a mezzo degli steward.
Ma qui vogliamo ragionare sul principio: perchè mai una società dovrebbe avere una responsabilità diretta di quanto avviene fuori dallo stadio, nel caso di scontri tra bande di teppisti?
Non è certo la società che chiama le forze di polizia, ma è il ministero degli Interni che valuta a rischio certi spettacoli: pertanto o li vieta o deve garantire un servizio di controllo.
Se passa questo concetto privatistico per cui gli agenti vanno pagati da coloro a cui garantiscono sicurezza, Renzi cominci a dare l’esempio e paghi di tasca propria i suoi venti agenti di scorta : perchè dovrebbero pagarli i cittadini?
Lo stesso facciano ministri e sottosegretari.
Quando c’è un G8 in Italia o un vertice internazionale, Renzi faccia pervenire la fattura delle migliaia di agenti impiegati alle ambasciate estere: perchè dovrebbero pagare i cittadini?
Una rapina in banca? Volete l’intervento degli agenti? Paghi l’istituto di credito.
Di questo passo, perchè non troviamo anche degli sponsor per volanti e gazzelle? Un bell’adesivo sulla fiancata e finalmente le Questure potrebbero garantire il pieno di benzina.
Magari anche un bel marchio pubblicitario sulla divisa e finalmente gli agenti avrebbero un paio di pantaloni di ricambio.
Tutto quello che lo Stato non è in grado di assicurare, nonostante le tasse più alte d’Europa, scarichiamolo sui privati, così Renzi è contento.
E può continuare ad andare al Comunale in tribuna d’onore a scrocco.
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Ottobre 1st, 2014 Riccardo Fucile
NEL PADOVANO SI CONTINUA A ISTIGARE ALL’ODIO RAZZIALE: E’ ORA CHE QUALCUNO FINISCA NELLE CARCERI ITALIANE O A PSICHIATRIA
Hanno scritto “No ai profughi. Paroni casa nostra”. Un messaggio chiaro, inequivocabile. Un monito per i loro concittadini che si ostinano a volerli accogliere. Bastia di Rovolon, piccolo comune in provincia di Padova, è un paese spaccato.
Poco più di 4 mila abitanti divisi tra chi non vuole 10 mamme che scappano dalla guerra con i loro bambini e chi invece è disposto persino ad accoglierle nella propria casa.
Da una parte c’è il sindaco Maria Elena Sinigaglia (Lega Nord) e i 200 cittadini che negli ultimi giorni sono scesi in strada per manifestare tutta la loro opposizione. Dall’altra il parroco, Don Claudio, e un comitato di abitanti, nato spontaneamente, che ha deciso di non arrendersi.
Li hanno già definiti ‘l’altra faccia di Rovolon’. Commercianti, medici, insegnanti, cattolici e laici, un centinaio di persone che hanno lanciato un appello per mettere a disposizione le proprie case.
Giovanna Cappelletto, 57 anni, insegnante, una delle promotrici, ha raccontato a Il Mattino di Padova che “Giusto ieri, mi è capitato di affacciarsi alla porta di casa nel primo pomeriggio e vedere un foglio, sotto la pianta posata sul tavolo in giardino. ‘Ci siamo anche noi’, c’era scritto, e sotto dieci nuove firme di persone che vogliono aderire all’appello”.
Le dieci mamme dovrebbero essere ospitate nella ‘Casa di accoglienza San Domenico Savio’.
Spazio che da anni l’associazione “Per un sorriso” mette a disposizione per ospitare bambini di Chernobyl e bambini non vedenti.
“Noi pensiamo che dieci donne e altrettanti bambini, che scappano da una guerra, abbiano il diritto di essere ospitati e curati. Questo non comporta alcun danno per il paese” ha spiegato Giovanna Cappelletto.
Non la pensa così il sindaco che dopo aver rassicurato i cittadini sul fatto che il comune non metterà nemmeno un euro per aiutare queste donne, ha puntualizzato: ”Il parere contrario da me espresso in qualità di sindaco non vincola in alcun modo l’associazione, che ha titolo per decidere in maniera autonoma”.
Una questione di soldi? Non solo. “Quello che muove i nostri concittadini è prima di tutto la paura: la paura dell’invasione” hanno chiarito i rappresentanti dell’associazione ‘Per un sorriso’.
Inutili i loro tentativi di spiegare che non c’è nulla da temere. “In questo caso tale paura è infondata: nella Casa di Rovolon non possiamo accogliere centinaia di donne e bambini, si tratta di dieci: all’interno del nostro paese l’accoglienza di dieci donne e bambini non può destabilizzare nulla, nè provocare problemi a cittadini o ristoratori. Quale fastidio può dare qualche bambino che gioca nel bel giardino della Casa, accanto alla chiesa? Soffiare sull’intolleranza per ottenere consenso non va bene. In questo caso basta riportare tutto alla sua reale dimensione e così aiutare le persone a ragionare: qui non si tratta di politiche migratorie: bisogna solo ospitare per qualche mese dieci donne e bambini piccoli, che stanno fuggendo dalla guerra”.
Parole al vento. Il 30 settembre, dopo giorni di polemiche, i cittadini ‘del no’ hanno deciso di ribadire la loro contrarietà .
Così si sono riuniti davanti alla casa dal parroco, colpevole di aver sgridato, durante l’omelia domenicale, i fedeli contrari all’accoglienza.
Lì hanno sfilato in corteo (autorizzato?), sordi a qualsiasi appello al buonsenso lanciato dai loro concittadini.
Inutili anche le rassicurazioni dei mediatori culturali venuti per l’occasione. Anzi. Secondo il gruppo contestatore “La faccenda dei profughi va risolta tra noi di Rovolon e nessun altro”.
“Paroni casa nostra” contro “Rovolon che accoglie”, uno scontro che affonda le radici nella storia recente del nord est.
Una storia fatta di bandiere verdi, di proclami indipendentisti ma soprattutto di ignoranza e paura.
Sarebbe opportuno ricordare alle autorità locali che Rovolon fa parte della Repubblica italiana e, come altrove, si applicano le leggi e le norme italiane.
I cortei devono essere autorizzati o vanno sciolti anche con l’uso della forza, come per qualsiasi altra adunata sediziosa e i partecipanti identificati e denunciati all’autorità giudiziaria.
Se esiste l’aggravante della istigazione all’odio razziale va contestato.
Se un sindaco si pone a capo di tale violazione delle leggi va commissariato immediatamete.
Qualsiasi politico che faccia proprie tale illecito va denunciato per concorso nel reato.
Se si applicasse la legge, state tranquilli che nessuno si permetterebbe di rompere i coglioni a dei poveri bambini che, dopo aver avuto la sfortuna di conoscere la fame nel loro Paese, hanno avuto ora pure quella di incrociare la feccia padagna.
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