IL “POSTO FISSO RESTA LA REGOLA, LA PRECARIETA’ NON PORTA LAVORO
E RENDERE TUTTI PRECARI NON FA GUADAGNARE UN SOLO POSTO DI LAVORO
Il posto fisso non c’è più”, dice Matteo Renzi.
I numeri però non gli danno ragione. Il posto fisso è ancora la norma del mercato del lavoro italiano.
Lo dicono i dati, oltre che il senso comune.
Del resto, il brindisi per la firma di un contratto di lavoro a tempo indeterminato è uno dei riti più importanti che costellano la vita delle aziende e quella delle famiglie italiane.
Quando arriva la notizia del contratto a tempo indeterminato, ciascun dipendente sente che la propria vita può imboccare una via nuova. Più tranquilla, più stabile. Anche le imprese, in fondo, preferiscono avere lavoratori stabili.
Lo dice l’esperienza e, anche in questo caso, lo dicono i dati.
Quelli tratti dall’ultimo rapporto sul mercato del lavoro redatto dal Cnel solo poche settimane fa, sono emblematici.
L’86% degli occupati è inquadrato con un contratto “permanente” mentre quelli “a termine” sono poco più del 13%.
Era così nel 2013, nel 2012 ed era così anche nel 2008, prima cioè che iniziasse la “grande crisi”.
Su 16 milioni, 878 mila dipendenti complessivi, 14 milioni e 650 mila sono permanenti di cui 12 milioni a tempo pieno e 2,5 milioni a tempo parziale.
Sono questi ultimi a essere cresciuti di più negli anni, per effetto di crisi e ristrutturazioni e, come sottolinea il Cnel, “per lavori accettati in mancanza di occasioni di impiego a tempo pieno”.
I contratti a termine, invece, nel 2013, ammontavano a 2,23 milioni di cui 1,6 a tempo pieno e 638 mila a tempo parziale.
Qui c’è l’evoluzione più indicativa delle dinamiche del mercato del lavoro.
Con la crisi, dal 2008 in poi, i contratti a termine sono diminuiti del 4%.
Ma la riduzione di quelli a tempo pieno è stata del 10% mentre quelli a tempo parziale sono aumentati del 18%.
Il significato è chiaro: la riduzione complessiva dell’occupazione — che dal 2008 è stata di circa un milione di persone sull’intera popolazione lavorativa — ha interessato in primo luogo i contratti più deboli.
Quelli a termine sono i primi a saltare anche perchè è sufficiente non rinnovarli.
La tendenza si desume da un altro dato, meno rilevante ma altrettanto significativo: il numero dei collaboratori conteggiati tra i lavoratori indipendenti, 382 mila unità nel 2013, è sceso di quasi il 18% rispetto al 2008.
Anche in questo caso, la tipologia in cui si annidano le “false” partite Iva, è quella che ha pagato il prezzo maggiore della crisi.
Questa fotografia, sottolinea il Cnel, è smentita solo parzialmente dai dati tendenziali desunti dalle “attivazioni di nuovi contratti di lavoro”.
Se si guarda, infatti, l’andamento delle nuove assunzioni si scopre l’aumento progressivo di contratti a termine rispetto a quelli permanenti.
Dal 63,7% nel 2012 sono passate al 68% nel 2013.
Le attivazioni a tempo indeterminato, invece, si sono ridotte dal 17,4 al 16,4% del 2013.
Va considerato però — e lo studio del Cnel lo fa — che le nuove attivazioni non sempre corrispondono ad altrettanti posti di lavoro.
Il motivo è semplice: i contratti a termine durano sempre più spesso meno di un anno anzi, oltre il 40% è ormai limitato a un mese soltanto.
Il loro numero crescente, quindi, significa semplicemente la ripetizione prolungata dello stesso contratto fatto alla stessa persona.
Con la riforma Poletti, poi, che ha esteso i rinnovi contrattuali fino a 5 volte nell’arco di 36 mesi senza dover giustificare la “causale”, questa pratica è sempre più utilizzata. In ogni caso, i numeri sono impietosi: la quota di lavoratori a tempo determinato, negli ultimi sei anni non ha superato il 13% dei lavoratori dipendenti mentre quelli a tempo indeterminato si mantengono sopra l’86%.
A diminuire, in realtà , sono tutti i posti di lavoro, permanenti, a termine, a tempo pieno o parziali. E anche gli “indipendenti”.
Il loro numero, lo scorso anno, era di 5,5 milioni. Ma nel 2008 erano 407 mila in più. Il saldo tra “entrate” e “uscite” nel mondo del lavoro si è fatto di nuovo negativo dopo i saldi positivi del biennio 2009-2011.
La crisi distrugge posti di lavoro.
Prima i precari ma dopo, inesorabilmente, anche quelli più stabili. Rendendo tutti precari non si guadagnerebbe un solo posto di lavoro in più.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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