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FORESTALE: DOVE I DIRIGENTI SUPERANO GLI AGENTI

Ottobre 30th, 2014 Riccardo Fucile

A PRATO CI SONO 4 AGENTI E 9 FUNZIONARI A DIRIGERLI

La grande partita sul futuro della Forestale è cominciata.
Dopo che nei giorni scorsi il ministro Marianna Madia ha ribadito che per il governo è opportuno ridurre il numero delle polizie in Italia, il tema è diventato caldissimo.
Molti sindacati, tipo l’Ugl, si sono indignati. Altri no.
Il sindacato autonomo Sapaf, ad esempio, ha appena inviato una lettera alla presidente Anna Finocchiaro, chiedendo un incontro in commissione Affari Costituzionali del Senato.
«A noi – sostiene il segretario del Sapaf, Marco Moroni – interessa mantenere le capacità  investigative. Vogliamo integrarci con le altre polizie forestali esistenti e diventare una vera polizia ambientale e agroalimentare. Il resto non ci interessa, nè il colore della casacca nè le poltrone. Se queste capacità  venissero esaltate confluendo nella polizia di Stato, va bene ugualmente purchè non si disperdano le professionalità : penso alle indagini sui piromani, o gli ecoreati, o la tutela delle specie protette».
È più o meno lo stesso ragionamento della senatrice Leana Pignedoli, Pd, vicepresidente della commissione Agricoltura, dove oggi si voterà  un parere favorevole al ddl Madia, ma condizionato al mantenimento di una seria polizia ambientale.
«Occorre – dice la senatrice – un duro lavoro di “smontaggio” e riallocazione di risorse da utilizzi improduttivi. Ma i progetti di riordino non possono non prevedere un corpo dedicato all’agroambientale fortemente connesso al ministero dell’Agricoltura».
Pignedoli piuttosto è perplessa per le sovrapposizioni tra Corpo Forestale e nuclei carabinieri, come il Noe inserito dentro il ministero dell’Ambiente e Nac nel ministero Agricoltura. «C’è da riflettere».
Il lavoro di «smontaggio» che viene richiesto dalla commissione Agricoltura merita un passo indietro: il Corpo Forestale, forte di circa 8000 agenti, costo mezzo miliardo all’anno, disperde le sue forze su innumerevoli tavoli: sono circa 1000 quelli che si occupano di “biodiversità ”, ossia allevamenti (a Belluno gli equini di razza maremmana, a Castel di Sangro equini di razza persano-salernitano e bovini, a Follonica equini di razza maremmana, all’Aquila gli ovini, a Lucca la selvaggina, a Martina Franca gli equini di razza murgese, a Mongiana equini di razza araba e selvaggina, a Pescara il centro recupero rapaci, a Pieve equini di razza avelignese e bovini, a Potenza equini di razza anglo-arabo-sarda, a Siena equini da sella italiano e bovini) e 1500 quelli messi a disposizione dei parchi nazionali. Questi gestiscono castelli, tenute, ville.
C’è poi un reparto volo per lo spegnimento incendi con alcuni elicotteri e un aerotaxi. Sono in dotazione pure 2 motovedette e venti barche.
E poi pesa la burocrazia interna: comando generale, ispettorato di 700 agenti, venti comandi regionali, cento comandi provinciali con annesse sale operative.
Alla fine, nelle 1000 stazioni territoriali ci sono appena 2500 agenti.
La moltiplicazioni di funzioni ha portato anche alla moltiplicazione dei dirigenti.
«Una riduzione sarebbe quanto mai auspicabile, visto che alcuni annoverano più personale per amministrare di quello operativo amministrato!», scrive il Sapaf.
A Prato, per dire, ci sono 4 agenti sul territorio e 9 a dirigerli.
Piuttosto che lasciare, però, il capo del Corpo, Cesare Patrone, ha rilanciato: la sua proposta al Senato, pochi giorni fa, è di raddoppiare la Forestale, incorporando le polizie provinciali che sono rimaste allo sbando, i sei Corpi Forestali regionali (esistono in Sardegna, Sicilia, Val d’Aosta, Friuli, Trento e Bolzano), più l’Ispettorato antifrodi del ministero dell’Agricoltura.
Sono circa 6500 agenti che potrebbero confluire nella Forestale.
Il contropiano prevede «direzione delle operazioni di spegnimento degli incendi boschivi», «attività  ricognitiva del territorio», «aggiornamento della relativa mappatura ed individuazione delle aree ad elevato rischio idrogeologico», «direzione tecnica delle aree naturali protette nazionali».

Francesco Grignetti

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L’ANTIMAFIA INTERCETTA LA PORTAVOCE DI MARONI, ISABELLA VOTINO

Ottobre 30th, 2014 Riccardo Fucile

LA INFLUENTE ASSISTENTE DI   MARONI INTERCETTATA MENTRE CHIEDEVA NOTIZIE DELLE INCHIESTE SULLA LEGA… ERA IN CONTATTO, FORSE A SUA INSAPUTA, CON PERSONAGGI LEGATI AI CLAN

Per oltre un anno Isabella Votino, la portavoce del governatore lombardo Roberto Maroni, è stata intercettata dai magistrati della procura antimafia di Reggio Calabria. Lo rivela l’Espresso nel numero in edicola domani.
La donna è finita nell’inchiesta sul lato oscuro della Lega, l’intreccio tra professionisti calabresi e politici del partito che secondo i magistrati avrebbero riciclato sia i fondi del movimento padano che quelli della ndrangheta, in particolare della potente famiglia De Stefano che da vent’anni domina Reggio Calabria.
I contatti della Votino, che è stata portavoce di Maroni anche al ministero dell’Interno, con alcuni di questi indagati hanno fatto scattare l’iniziativa dei pm antimafia.
Dalle intercettazioni emergono inoltre contatti della Votino con investigatori milanesi per tentare di ottenere di ottenere informazioni su inchieste in corso che potrebbero interessare persone vicine alla Lega e a Maroni.
Ed emerge anche il suo peso nel tessere relazioni politiche con esponenti di primo piano del centrodestra.
Oltre alla Votino è finito intercettato un altro fidato uomo di Maroni, l’avvocato Domenico Aiello, legale del governatore lombardo.

(da “L’Espresso”)

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REGIONE LOMBARDIA, FINTE CONSULENZE PER 260.000 EURO: INDAGATI TRE EX ASSESSORI E DUE CONSIGLIERI ANCORA IN CARICA

Ottobre 30th, 2014 Riccardo Fucile

AVVISI DI GARANZIA PER BOSCAGLI, SCOTTI, ZAMBETTI (PDL), GAFFURI (PD) E FERRAZZI (LEGA)

Sono di oltre 260mila euro le spese che Regione Lombardia ha affrontato per consulenze e collaborazioni mai avvenute, secondo gli accertamenti dei finanzieri del Comando generale di Milano.
Operazioni “fantasma” tra il 2008 e il 2011, per cui la procura di Milano sta indagando tre ex assessori delle scorse giunte Formigoni e sette ex consiglieri regionali.
L’accusa è quella di falso e truffa ai danni dello Stato.
Secondo gli accertamenti i dieci indagati, alcuni dei quali già  coinvolti nell’inchiesta sui rimborsi regionali, avrebbero presentato false attestazioni di collaborazioni e consulenze mai eseguite o non rispondenti alle prestazioni previste dai contratti.
I tre ex assessori delle giunte Formigoni coinvolti sono Giulio Boscagli, cognato di Formigoni, Mario Scotti e Domenico Zambetti (ex assessore alla casa, già  arrestato nell’ottobre 2012, con l’accusa di voto di scambio con la ‘ndrangheta), mentre tra i sette ex consiglieri, sia esponenti dell’allora maggioranza di centrodestra — Paolo Valentini (Pdl), Giuseppe Angelo Gianmario (Pdl), Gianluca Rinaldin (Pdl), Massimo Gianluca Guarischi (già  a processo per un presunto giro di tangenti nella sanità  lombarda), Daniel Luca Ferrazzi (lista Maroni) — sia gli ex consiglieri del Pd Luca Gaffuri (coinvolto anche nell’inchiesta sui rimborsi “pazzi” del Pirellone) e Carlo Porcari.
Dei sette consiglieri indagati, Gaffuri e Ferrazzi sono ancora in carica.
La notifica dell’avviso di conclusione indagini è firmata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai pm Paolo Filippini e Antonio D’Alessio.
Secondo i pm, il meccanismo era uguale per tutti gli indagati, che tra il 2008 e il 2012 stipulavano contratti di collaborazione pagati da Regione Lombardia.
Peccato che le attività , continuano i pm, “non erano mai eseguite nei termini e nelle finalità  descritte” ma erano “finalizzate a soddisfare scopi diversi ed estranei” da quanto dichiarato. In altre parole, stando alle indagini, collaboratori occasionali e consulenti venivano assunti per svolgere determinate attività , e si occupavano invece di altre mansioni per conto dei consiglieri.
Un contratto a un collaboratore di Boscagli, per esempio, per “l’assistenza alle attività  del gruppo relativamente a materie attinenti l’area territoriale” è costato alla Regione 22mila euro.
Meno di un terzo di quel che ha fatto spendere Zambetti, che ha pagato un collaboratore 67mila euro per “supportare l’assessore con lo studio e l’analisi dei provvedimenti trattati nelle otto commissioni consiliari” e “curare rapporti con le amministrazioni centrali e gli enti locali”.
Gaffuri, consigliere ancora in carica, ha invece dato 35mila euro ad un collaboratore per uno “studio dell’effetto immigrazione sul mercato del lavoro nella provincia di Como”. Di quasi 20mila euro, invece, il compenso dato da Guarischi per “il supporto alle attività  del suo staff di assistenza”.
Nell’ambito della stessa inchiesta, a marzo la Procura di Milano ha notificato avvisi di conclusione delle indagini a nove assessori e 55 consiglieri della Regione Lombardia (sempre delle scorse giunte Formigoni) indagati per peculato e truffa aggravata nell’ambito dell’inchiesta sulle spese “pazze” poi rimborsate dal Pirellone. Secondo l’inchiesta, i soldi pubblici che sono stati spesi illecitamente ammontano a 3,4 milioni di euro.
Tra gli indagati per i rimborsi del Pirellone ci sono Renzo Bossi, il figlio del senatur, e Nicole Minetti, l’ex igienista dentale di Silvio Berlusconi. E poi Davide Boni, ex presidente del Consiglio Regionale, Massimo Ponzoni, Franco Nicoli Cristiani, Monica Rizzi, Romano Colozzi, Massimo Buscemi, Stefano Galli e Giulio Boscagli per la maggioranza.
Per l’opposizione invece ci sono Chiara Cremonesi, Luca Gaffuri, Carlo Spreafico ed Elisabetta Fatuzzo.

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ORA GRILLO SE LA PRENDE CON I BEBÈ DEGLI IMMIGRATI: M5S VOTA EMENDAMENTO LEGA PER VIETARE IL BONUS AI FIGLI DI IMMIGRATI REGOLARI

Ottobre 30th, 2014 Riccardo Fucile

IL GRUPPO PARLAMENTARE POI SI GIUSTIFICA MA LA DIFESA NON CONVINCE

Lega e Movimento 5 Stelle votano contro l’estensione del bonus bebè ai figli di immigrati.
L’emendamento alla nota di aggiornamento al Def presentato da Roberto Calderoli (Lega) che chiedeva di riservare ai “cittadini italiani o di uno stato membro dell’Unione Europea” il bonus è stato poi bocciato dall’aula.
Ma il Partito democratico ha colto l’occasione per attaccare l’asse grillini-leghisti: “La Lega di Calderoli presenta un emendamento alla risoluzione sulla variazione del Def per assegnare il bonus bebè solo ai figli nati o adottati da coppie di genitori italiani o comunitari. Per i leghisti, dunque, i bebè extracomunitari vanno bene, purchè abbiano una mamma nata nell’unione europea. Ed M5S che fa? Vota con il Carroccio questa proposta squallida, becera, razzista.   domanda sorge spontanea: gli elettori di Grillo sanno come i senatori pentastellati utilizzano il mandato popolare?”.
Il bolso buonismo di Lega e Cinque Stelle, escludendo gli immigrati dal beneficio del cosiddetto bonus bebè, dimostra ancora una volta la loro irresponsabile prodigalità  – afferma Luigi Manconi – perchè concederlo a tutte le famiglie italiane, quel beneficio? Perchè non escludere almeno quelle di San Pier d’Arena e di Ceccano, quelle di Nebida e di Ittiri? Un pò di selezione è sempre necessaria per temprare lo spirito e per evitare la facile demagogia. Come diceva Milton Friedman ma anche Titina de Filippo: ‘nessun pasto è gratis'”.
A stretto giro la replica del Movimento 5 Stelle: “Il Pd non perde occasione per strumentalizzare ogni singolo voto del Movimento 5 Stelle e veicolare messaggi falsi. Abbiamo votato sì all’emendamento della Lega Nord, esclusivamente per fare in modo che il bonus bebè, che il governo ha previsto solo per i nati nel 2015, fosse esteso anche ai nati fino al 2017. Siamo assolutamente favorevoli all’erogazione del bonus a tutti i cittadini regolarmente residenti sul territorio italiano, senza distinzione di nazionalità “.
“Abbiamo votato nella consapevolezza che l’emendamento della Lega -continua la nota M5S- fa riferimento all’articolo 31 della Costituzione, che garantisce pari sostegno ai cittadini italiani, comunitari e extra comunitari in possesso di carta di soggiorno. Dunque, sapevamo già  che la discriminazione, inserita nel testo della Lega, sarebbe decaduta perchè incostituzionale, mentre sarebbe rimasta esclusivamente l’estensione del bonus a tutti i bimbi nati nel prossimo triennio”. Abbiamo votato nell’interesse di tutte le famiglie, affinchè il bonus fosse esteso a tutto il prossimo triennio invece che solo per un anno, come prevede il governo e come vorrebbe la maggioranza. La nostra battaglia è rendere strutturale per tutti il bonus bebè, come dimostreranno le nostre proposte emendative alla Legge di Stabilità “, conclude M5S.
In verità  la giustificazione non convince per una serie di motivi:
1) Se ritieni che la norma contenuta nell’emendamento sia incostituzionale semmai lo denunci e non la voti.
2) Un emendamento si può votare per parti separate: se il M5S fosse stato in buona fede poteva chiederlo, ma non l’ha fatto. Avrebbe così evitato di votare qualcosa che ora dice di non condividere.
3) Se lo scopo era estendere il bonus al 2017 perchè non hanno presentato un emendamento proprio, invece che accordarsi a quello leghista?
No, non ci siamo proprio.

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27 MILIARDI DI TASSE NASCOSTI DA RENZI NELLA SUA MANOVRA

Ottobre 30th, 2014 Riccardo Fucile

DAL 2016 SALGONO IVA E BENZINA, GIÙ LE DETRAZIONI… CERTO SI PUà’ ANCHE TAGLIARE ANCORA, MA I COMUNI GIà€ AVVERTONO: “SIAMO AL DISSESTO”

Ventisette miliardi di tasse nascoste, rimandate a domani per non ammetterne l’esistenza oggi.
Questa è la scommessa di Matteo Renzi, quella che innerva la sua legge di Stabilità  elettorale, il motivo per cui tutti nel palazzo si sono convinti che il voto a primavera è inevitabile.
Funziona così: il nostro deficit deve andare a zero entro il 2017, è il famoso pareggio di bilancio inserito in Costituzione ai tempi di Mario Monti anche da quelli che oggi lo contestano e sottoscritto dai governi italiani nei Patti stipulati in Europa.
Come lo facciamo? Ma con la spending review, ovviamente.
Solo che al momento la revisione della spesa è una bufala e i tagli quasi interamente lineari di Renzi e Padoan sul 2015 lo dimostrano: ieri, per dire, i Comuni e le nuove province sono andati a chiarire a Palazzo Chigi che così muoiono i servizi ai cittadini (scuola, trasporto, strade, sociale, verde e quant’altro) e molte città  rischiano comunque il dissesto.
Ha spoegato Piero Fassino: “La Stabilità  ci taglia 1,2 miliardi, a cui si aggiungono i 2,2 miliardi del fondo per i crediti deteriorati e 300 milioni eredità  di precedenti manovre”. Fa 3,7 miliardi che vengono compensati, secondo il governo, dallo sblocco del Patto di Stabilità  interno per 3,2 miliardi: soldi che pochi comuni hanno, comunque, e non possono essere usati per la spesa corrente (cioè i servizi).
La risposta di Renzi è stata: “Discutiamo del come, ma l’entità  del taglio resta quella che è”.
Non è finita: a province e città  metropolitane si toglie un miliardo e mezzo; alle regioni complessivamente altri 6,2 miliardi.
Persino un renziano come il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino ha perso il lume della ragione.
Pure i fondi per gli investimenti nelle aree depresse finiscono nella spending review: tre e mezzo finiranno per pagare forme di detassazione alle imprese, 500 milioni sono parte della “tassa Kaitanen” per ridurre il deficit al 2,6% nel 2015.
Il problema è che i 10 miliardi scarsi di tagli del Renzi di quest’anno (accompagnati da parecchie partite di giro sulle tasse) non sono che l’antipasto: dentro la manovra, che ha un orizzonte temporale di tre anni, è infatti previsto un “consolidamento del bilancio” — cioè tagli di spesa o nuove tasse — per 27 miliardi di euro al 2017.
Un impegno vago, si dirà , che il nostro giovane e vigoroso premier provvederà  a ricontrattare con l’Europa. Nient’affatto.
Si tratta di un fatto già  assodato e inserito nella legge di Stabilità  con apposite norme di legge.
Prendiamo l’Iva, che è il caso più grave: nella manovra c’è scritto che l’imposta sul valore aggiunto salirà  il 1 gennaio 2016 di due punti percentuali per le prime due aliquote (dal 10 al 12%, dal 22 al 24%) e di un altro punto dal 1 gennaio 2017 (al 13 e al 25%). Poi, per chi fosse ancora vivo, a gennaio 2018 un altro mezzo punto sull’aliquota principale, che arriverà  alla stratosferica cifra del 25,5%.
Il valore della faccenda è quotato in 12,8 miliardi nel 2016 e 19,2 l’anno dopo.
Ad arrivare a venti, cifra tonda, ci pensano le accise: sempre nel 2018 aumenteranno benzina e gasolio per non meno di 700 milioni l’anno.
Anche con questo, comunque, le mine piazzate da Renzi e soci nel bilancio dello Stato sono finite : un’altra norma eredità  del governo Letta, prevede a partire sempre dal 2016 un bel taglio di detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali.
Tecnicamente non è un aumento di tasse, ma in pratica si pagheranno più tasse.
Il menu nel dettaglio lo si deciderà  in seguito, ma nulla è escluso: dalle spese mediche a quelle per i figli, dalle detrazioni per il lavoro a quelle sulle donazioni dalle agevolazioni per il no profit a quelle sull’Imu, tutto potrà  contribuire al risultato finale, che sono altri 4 miliardi di risparmi nel 2016 e 7 a regime dall’anno successivo.
Impegni, si dirà , non presi da Matteo Renzi e nemmeno da Pier Carlo Padoan, ma nemmeno spiegati agli italiani nella mitopoiesi del #cambiaverso con cui il giovane premier racconta l’Italia al suo pubblico, un tempo uso ai diritti di cittadinanza.
Il verso è sempre lo stesso, la discesa, c’è solo stato un eccezionale rallentamento della corsa nel 2015, al termine del quale però c’è il baratro.
Il governo, ad esempio, ha usato il salvadanaio dei risparmi da minore spread, ma contemporaneamente prevede — sempre nella legge di Stabilità  — di chiedere ai mercati finanziari 900 miliardi in tre anni: dovessero risalire i rendimenti (oggi a livelli davvero bassissimi) dei titoli di Stato, ogni maggiorazione andrebbe pagata comprimendo ancora di più il bilancio pubblico (al netto della enorme riserva di liquidità  messa giustamente da parte dal Tesoro).
Fare il Monti con partenza ritardata al dopo-elezioni può essere una scelta legittima, ma spiegarlo agli italiani — a proposito di ricostruire un clima di fiducia e rilanciare la domanda interna — è un dovere.

Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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FUMATA NERA PER LA FARNESINA: DOPO DUE MESI RENZI NON HA ANCORA TROVATO UNA BADANTE DA PIAZZARE AGLI ESTERI

Ottobre 30th, 2014 Riccardo Fucile

DOVEVA ESSERE IL GIORNO DELLA NOMINA DELLA SOSTITUTA DELLA MOGHERINI, MA LA ROSA DI NOMI NON DEVE AVER SODDISFATTO NAPOLITANO

La notizia la battevano tutte le agenzie: “Il premier incontra il capo dello Stato: dovrà  sciogliere la riserva sul sostituto di Federica Mogherini alla Farnesina”.
Nei giorni scorsi le candidature si erano ristrette alle dita di una mano e oggi, dopo due mesi dalla nomina della Mogherini ad Alto commissatio Ue, avrebbe dovuto esserci la “proclamazione”.
E invece le stesse agenzie di stampa sono costrette ad annunciare che “c’è stato un primo scambio di opinioni sulla nomina del prossimo Ministro degli Esteri”.
È quanto si apprende dall’ufficio Stampa del Quirinale in seguito all’incontro avvenuto tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio.
Uno scambio di opinione dopo due mesi di trattative?
Non sarebbe meglio dire che i casi sono due: o Renzi non ha ancora trovato una candidata adeguata nell’ambito delle sue badanti o che la rosa di nomi che potrebbe aver sottosposto a Napolitano non è stata ritenuta di adeguato livello ed esperienza.
Oddio, dopo la Mogherini, non c’è bisogno di una Ilary Clinton agli esteri, non c’era neanche il rischio di sfigurare di fronte al predecessore.
Intanto Mogherini si è dimessa da deputato, ringraziando tutti con un tweet: «È stato un onore essere parlamentare della Repubblica».
I tempi per la nomina del nuovo ministro degli Esteri sono strettissimi. E il rischio è quello di lasciare vacante un dicastero fondamentale in questo momento, una scelta delicata vista la situazione internazionale, segnata da vari conflitti,
Tra i molti nomi fatti in questi giorni restano ancora in pole position quello di Maria Sereni, vicepresidente della Camera con una lunga esperienza di politica estera fini dai tempi dei Ds, e quello nuovo, ma non troppo, di Marta Dassù, viceministra con Emma Bonino e durante il governo di Mario Monti, al momento membro del cda di Finmeccanica.
Sembra invece tramontata l’ipotesi della giovanissima deputata del Pd, Lia Quartapelle, 32 anni, mentre Simona Bonafè, fedelissima di Matteo Renzi, avrebbe rifiutato l’incarico.
Resta tuttavia aperta anche la strada di un uomo alla Farnesina, con Lapo Pistelli, viceministro degli Esteri nell’attuale governo e in quello precedente di Enrico Letta. Una segnale di continuità  all’interno del ministero, che però soffre dei rapporti, raccontano, poco idilliaci per non dire gelidi con lo stesso Renzi.
Altro papabile Sandro Gozi, sottosegretario alle Politiche comunitarie, e Giorgio Tonini, vicepresidente dei senatori Pd con una lunga esperienza in commissione Esteri.
Se dovesse optare per un ministro, potrebbe pareggiare «in rosa» affidando la delega alle Pari opportunità , oggi nelle sue mani, a una ministra.
Bontà  sua.

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“MANGANELLATE PER EQUIVOCO”: L’ULTIMA VERSIONE FARSA DEL GOVERNO

Ottobre 30th, 2014 Riccardo Fucile

“FORSE E’ STATO UN EQUIVOCO: PENSAVAMO VOLESSERO OCCUPARE LA STAZIONI TERMINI”…. E FORSE SAREBBERO BASTATO CHIEDERGLIELO

“Forse è stato un equivoco perchè piazza Indipendenza si presta all’equivoco, essendo troppo vicina alla stazione Termini e nello stesso tempo snodo per incamminarsi verso il ministero per lo Sviluppo economico. Forse il nervosismo di alcuni lavoratori delusi dallo scarno comunicato dell’amabasciata tedesca è stato interpretato come un tentativo di voler puntare all’occupazione della stazione Termini”.
È questa la versione del Viminale sulla carica dei poliziotti contro gli operai Ast di Terni che ha scatenato l’indignazione dei sindacati.
Le parole sono riportate dal quotidiano La Stampa e potrebbero anticipare la spiegazione che il ministro Angelino Alfano dovrà  fornire oggi alle 18.30 in Parlamento.
Già  nella serata di mercoledì, poche ore dopo le manganellate, Alfano aveva ammesso: “È stata una brutta giornata per tutti”.
La Questura nelle stesse pre aveva giustificato la “carica di alleggerimento” spiegando che gli operai volevano dirigersi verso Termini, probabilmente con l’intenzione di bloccare il traffico ferroviario.
Una ipotesi che gli operai e i delegati sindacali presenti alla manifestazione avevano subito rispedito al mittente: mai era balenata l’idea di occupare i binari, hanno ripetuto.
Così questa mattina anche il sottosegretario all’Interno, Filippo Bubbico (Pd), ripete che probabilmente gli agenti in piazza Indipendenza hanno preso fischi per fiaschi: “Probabilmente si sarà  generato qualche equivoco rispetto alla volontà  che i lavoratori avevano manifestato di voler raggiungere il ministero dello sviluppo economico”, ha detto a Radio24 smentendo che ci fosse un ordine preciso del Viminale: “La mia impressione è che non si sia trattato di una carica delle forze dell’ordine, come si è potuto osservare nella giornata di ieri, non c’era un ordine in tal senso”.

(da “Huffingtonpost“)

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RENZI E I PRETORIANI PD CHE MANGANELLANO PER SUO CONTO

Ottobre 30th, 2014 Riccardo Fucile

CIVATI: “LE SPARANO GROSSE PER FARSI APPREZZARE DAL CAPO”…IL POLITOLOGO AMADORI: “IL CERCHIO MAGICO DI RENZI CERCA PRETESTI PER ANDARE AL VOTO”

C’erano una volta Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri, Altero Matteoli, Elio Vito: i colonnelli del Pdl.
Erano un commando di polemisti scelti, zelanti e dalla contumelia facile, pronti a scagliarsi contro l’avversario di turno ad un solo cenno di Silvio Berlusconi.
Anche Matteo Renzi ha i suoi pretoriani: “Camusso è stata eletta con tessere false”, ha sparato l’europarlamentare Pd Pina Picierno nell’acme della polemica tra i partito e la Cgil.
Ma tra l’ex Cav e l’ex sindaco è la differenza di stile che salta all’occhio: se nell’era del suo dominio sulla politica italiana l’ex premier era il primo a sferrare raffiche di veleno contro l’avversario di turno (nel 99% dei casi i giudici “comunisti” e la sinistra all’opposizione, nel restante 1% contro Gianfranco Fini), oggi Renzi adotta la strategia opposta: tiene per sè la polemica politically correct fatta di dichiarazioni ortodosse e manda le retrovie (o meglio, il cerchio magico) a colpire duro sui fianchi con argomentazioni più o meno offensive l’avversario.
Che nell’epoca delle grandi coalizioni e non è quasi mai il centrodestra, ma chi si trova alla sinistra del Pd.
La lite Picierno-Camusso è solo l’ultima puntata. I ferri sono corti da tempo, ma la tensione tra Pd e Cgil è deflagrata nel fine settimana.
“Il mondo è cambiato, il posto fisso non c’è più”, scandiva il premier il 26 ottobre dal palco della Leopolda ribadendo la necessità  di superare l’articolo 18, concetto estraneo ai valori della sinistra tradizionale, in un linguaggio rispettoso delle regole dello scontro politico.
Giusto il giorno prima, però, uno dei suoi colonnelli aveva aperto il fuoco: mentre la Camusso portava in piazza a Roma lavoratori, studenti, pensionati e parte del Pd contro il governo, Davide Serra attaccava il diritto di sciopero proponendone la limitazione:   “Dovrebbe essere molto regolato, prima che tutti lo facciano random”.
Il finanziere amico del premier affondava poi sulla piazza: “Se vogliono aumentare i disoccupati, facciano lo sciopero generale”.
Veloce come un destro-sinistro di stampo pugilistico, è arrivata quindi la bordata della Picierno: “Sono rimasta molto turbata dalle parole di Camusso che dice che Renzi è al governo per i poteri forti. Potrei ricordare che la Camusso è eletta con tessere false o che la piazza è stata riempita con pullman pagati, ma non lo farò”, ha sibilato l’europarlamentare davanti alle telecamere di Agorà , su Rai Tre.
Come una Santanchè qualsiasi.
Le pensa il premier, ma le dicono i suoi fedelissimi?
A pensar male si fa peccato ma spesso si indovina, diceva qualcuno. Anche il tono e le argomentazioni sono comuni, sempre a cavallo tra la battuta di spirito, la provocazione e la dichiarazione di stampo populistico.
La categoria “Vecchi contro giovani” propria dell’oratoria renziana è una delle più utilizzate. L’ha risfoderata lunedì Maria Elena Boschi per rispondere alle critiche mosse alla manifestazione della Leopolda da Rosy Bindi (“Non c’è nulla di più imbarazzante della contro-manifestazione della Leopolda”, aveva detto l’ex presidente del Pd contrapponendo la kermesse renziana alla piazza della Cgil): “L’onorevole Bindi ha un seggio in Parlamento dal 1989 — ha proseguito — e non è giusto che provi tanto astio verso ragazzi di 25 anni che vengono alla Leopolda senza che nessuno gli paghi il treno o il pranzo”, diceva con il consueto sorriso il ministro per le Riforme durante Quinta Colonna su Rete 4, suggerendo maliziosamente che i vecchi vertici della sinistra (Cgil compresa) sia solita pagare per riempire le piazze e affollare i cortei.
“E’ un gioco al rialzo a chi risulta politicamente più scorretto — commenta Pippo Civati — anche Renzi alla Leopolda ha tirato fuori battute al limite della volgarità . Apostrofare la manifestazione della Cgil dicendo che ‘i lavoratori protestano in piazza mentre alla Leopolda si produce lavoro’ è offensivo per chi lavora davvero”.
E le dinamiche riproposte sono sempre le stesse: “Quelli sui panini e i pullman pagati sono commenti che sento fare dalla destra da quando da ragazzo andavo alle prime manifestazioni di piazza. Il primo a farli era Berlusconi, che dal ’94 in poi ha sempre mosso all’opposizone le stesse critiche che oggi Renzi muove a chi non la pensa come lui: ‘le resistenze arrivano dalla sinistra che non vuole cambiare le cose’ o ‘non ci faremo fermare da questi conservatori’”.
Come spiega l’esponente della minoranza Pd la recrudescenza dei toni di questi giorni? “Accade che Renzi dice: ‘Picchiate duro, che io non vi dico nulla’, così tutti le sparano grosse per farsi apprezzare dal capo”.
I renziani hanno una faretra capiente e intingono spesso la punta delle frecce nella sempreverde polemica contro l’attaccamento alla poltrona.
E i bersagli sono facili: i campioni della vecchia nomenclatura percepiti dal popolo della sinistra come il principale ostacolo al rinnovamento della sinistra stessa e membri di una classe dirigente causa dei problemi del Paese.
L’ultima a scoccare strali contro il “vecchio” è stata un’altra renziana di ferro, Debora Serracchiani. “Renzi si sforza, ma i risultati sono insoddisfacenti”, aveva sentenziato con il consueto tono cattedratico Massimo D’Alema commentando alla Festa dell’Unità  di Bologna l’operato del governo.
Era il 2 settembre, il premier restava in silenzio e la risposta al veleno arrivava due giorni per bocca del vicesegretario Pd: “Quando uno ha fatto politica al livello in cui l’ha fatta D’Alema forse si aspetta che il momento della pensione non arrivi mai — insinuava Serracchiani in un’intervista al Corriere della Sera il 4 settembre — “i tempi delle sue accuse” lascerebbero pensare che D’Alema si sia risentito per la mancata candidatura ad Alto Rappresentante, “ma io voglio credere che no, che non sia così”. L’attacco di D’Alema aveva lasciato il segno e il 5 settembre il governatore del Friuli rincarava la dose, invitando i membri della vecchia guardia a mettersi a disposizione del partito “senza che per questo debbano avere una poltrona su cui sedersi”.
Quasi un complimento, al confronto con l’attacco frontale sferrato dalla Picierno. “Questo scontro tra governo e sindacati — spiega Alessandro Amadori, direttore di Coesis Research— rientra nel processo di smantellamento dei corpi intermedi su cui Matteo Renzi basa la propria azione politica. La forma scelta nel caso della Picierno è greve e rientra nella consuetudine tutta italiana di gettare fango sull’avversario. Una battaglia nuova, quindi, condotta in questo caso con una strategia vecchia, con modalità  da Prima Repubblica“.
All’orizzonte l’obiettivo è chiaro: “Non ci vedo un ordine di scuderia — continua l’analista politico — ma lo scopo è chiaro: Renzi sa che ora ha l’opportunità  per andare al voto, con Grillo che si è indebolito e il centrodestra incapace di articolare un’offerta politica convincente: il premier ha capito che si trova davanti ad una window opportunity e che se si andasse alle urne oggi il Pd potrebbe prendere più del 41%, potrebbe puntare anche al 45%. L’entourage di Renzi avverte che questa possibilità  è nell’aria e si muove: prendere a bersaglio la Cgil è il pretesto per far saltare il banco e andare a votare“.

Marco Pasciuti

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PICIERNO, L’IMBARAZZANTE EURORENZIANA CHE NON PAGA LE QUOTE AL PARTITO

Ottobre 30th, 2014 Riccardo Fucile

“IL MATTINO” DI NAPOLI RICORDA CHE E’ MOROSA DELLA QUOTA DOVUTA PER LA CANDIDATURA… E HA FATTO ENTRARE NEL PD UN EX SOCIALISTA ESPULSO DAL PSI PER NON AVER PAGATO PURE LUI

Il con ­dut ­tore – diretta Rai ­tre, ultimi secondi della tra ­smis ­sione Agorà  – le stava facendo la gra ­zia di pro ­vare a fer ­marla. Ma niente.
Pina Picierno euro ­de ­pu ­tata del Pd e ultras ren ­ziana, ha voluto dirlo, «potrei dire ma non vor ­rei dire», insomma l’ha detto: «Camusso ha vinto il con ­gresso della Cgil con tes ­sere, diciamo, false e la piazza (inten ­deva natu ­ral ­mente quella del sin ­da ­cato, sabato scorso) è stata riem ­pita con pull ­man pagati».
Titoli di coda, e ini ­zio di una gior ­nata com ­pli ­cata per il Pd.
Camusso non ha pra ­ti ­ca ­mente repli ­cato.
Era finita sotto attacco per aver detto in un’intervista a Repub ­blica — titolo: «Renzi è a palazzo Chigi per volere dei poteri forti» – che «il governo copia le pro ­po ­ste delle grandi imprese».
Quando ha sen ­tito le parole di Picierno aveva già  saputo dei man ­ga ­nelli della poli ­zia sugli ope ­rai. «Si parli di que ­sto e non delle scioc ­chezze», ha detto.
A repli ­care ci ha pen ­sato l’ufficio stampa della Cgil, facendo il verso alle pre ­te ­ri ­zione dell’eurorenziana: «Potremmo dire che non ha argo ­menti di merito e poco rispetto per le cen ­ti ­naia di migliaia di per ­sone che hanno dato vita alla straor ­di ­na ­ria mani ­fe ­sta ­zione. Potremmo, ad esem ­pio, par ­lare delle pri ­ma ­rie in Cam ­pa ­nia. Potremmo dire tutto que ­sto e altro ancora ma, come si usa adesso, non lo faremo».
Al ver ­tice del Pd il pro ­blema di rime ­diare allo sci ­vo ­lone dell’ex gio ­vane demi ­tiana. Un po’ il bis dell’uscita anti scio ­pero del finan ­ziere David Serra, ele ­mo ­si ­niere della Leo ­polda, non dei pullman Cgil.
Il vice segre ­ta ­rio Gue ­rini inter ­viene lesto: «Picierno non voleva offen ­dere, può
capi ­tare nel corso di dibat ­titi accesi di dire parole ecces ­sive».
E a Picierno capita di ecce ­dere in tv, mal ­grado si pre ­sen ­tasse un tempo come «autrice di testi tele ­vi ­sivi». È famosa per aver detto una volta che con 80 euro si può fare la spesa per due set ­ti ­mane. Poi spiegò, cor ­resse. Anche ieri ha dovuto farlo.
Nel frat ­tempo Gue ­rini assi ­cu ­rava: «Noi abbiamo grande rispetto per un impor ­tante realtà  sin ­da ­cale come la Cgil e per le per ­sone che mani ­fe ­stano in piazza le loro opi ­nioni. Chie ­diamo uguale rispetto per il per ­corso demo ­cra ­tico degli orga ­ni ­smi del nostro par ­tito».
E il pre ­si ­dente del par ­tito Mat ­teo Orfini si destreg ­giava nel più clas ­sico dei «ma anche»: «Susanna Camusso ha detto cose sba ­gliate, ma anche Pina Picierno ha dato una rispo ­sta sba ­gliata e rozza, la piazza va ascol ­tata e rispet ­tata».
Discorso dal quale in serata non si disco ­stava troppo Pier Luigi Ber ­sani, pure cri ­tico con il governo che «ha acceso una mic ­cia al giorno» e «con ­si ­dera il sin ­da ­cato un ferro vec ­chio».
Ma, aggiunge l’ex segre ­ta ­rio, anche lui in tv: «Non sono d’accordo con Camusso sui poteri forti, Renzi è lì per ­chè lo ha voluto il par ­la ­mento».
Assai più duro Pippo Civati, secondo il quale «era più facile quando le cose che ha detto Pi ­cierno le diceva la destra».
E anche Gianni Cuperlo resta sul lapi ­da ­rio: «Il sin ­da ­cato si rispetta».
Giu ­ditta Pini, depu ­tata dell’area dei gio ­vani tur ­chi di Orfini, sostiene che «Camusso ha detto una cavo ­lata che si poteva tranquilla ­mente evi ­tare» ma aggiunge che «per sua for ­tuna le è arri ­vata in soc ­corso Picierno che l’ha fatta sem ­brare una fine poli ­to ­loga». Alla fine Ber ­sani si rivela quasi il più prudente: «Qual ­cosa si sta incri ­nando, ma alla scis ­sione nean ­che a pen ­sarci. A noi tocca tirarlo fuori dai guai, Renzi. Mat ­teo con me può stare tranquillo».
Ma nel frat ­tempo ecco Picierno ten ­tare di sal ­vare il sal ­va ­bile. «Non era mia inten ­zione lan ­ciare accuse», dice.
E assi ­cura di «rispet ­tare il sin ­da ­cato e il popolo della piazza», aggiun ­gendo però che «altret ­tanto rispetto chiedo nei con ­fronti di chi pensa che la sini ­stra sia cam ­bia ­mento e riforme».
Tra que ­sti si col ­loca lei, è chiaro. Lei subito bat ­tez ­zata su twit ­ter come «la San ­tan ­chè del Pd» e che il Mat ­tino rac ­con ­tava ieri depu ­tata niente affatto modello, ma morosa: dovrebbe al par ­tito cam ­pano quasi l’intera somma che si era impe ­gnata a ver ­sare al momento della can ­di ­da ­tura, e per que ­sto avrebbe chie ­sto una rateiz ­za ­zione.
La Cam ­pa ­nia, del resto, non è esat ­ta ­mente la regione dalla quale si pos ­sano dare grandi lezioni di tes ­se ­ra ­mento tra ­spa ­rente, per chi ricorda che delle iscri ­zioni sospette al Pd si era inte ­res ­sata per ­sino l’antimafia.
Sem ­pre a pro ­po ­sito di soldi, è stata pro ­prio Picierno a por ­tare recen ­te ­mente in dote al Pd cam ­pano l’ex con ­si ­gliere regionale socia ­li ­sta Gen ­naro Oli ­viero, espulso dal Psi per non aver sal ­dato le quote.
Rivolta tra i com ­pa ­gni di Caserta.

Domenico Cirillo

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