Maggio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LA “GENERAZIONE MILLENIAS”: I GIOVANI PRECARI DIVENTERANNO GLI ANZIANI POVERI DI DOMANI
La «bomba» è destinata ad esplodere attorno al 2050.
Ma questa volta non sarà tanto un problema di tenuta dei conti, visto che più o meno la spesa previdenziale resterà stabile attorno al 16% del Pil nonostante l’invecchiamento della popolazione.
Sarà una bomba sociale, che avrà come protagonista l’attuale «generazione mille euro», che quando andrà in pensione percepirà una pensione che sarà molto più bassa del salario già misero che percepisce oggi.
Nei casi più estremi, infatti, non arriveranno a 400 euro netti al mese
Millenials nei guai
Il Censis stima che il 65% dei giovani (25-34 anni) occupati dipendenti di oggi, ovvero due su tre, avrà una pensione sotto i mille euro, pur con avanzamenti di carriera medi assimilabili a quelli delle generazioni che li hanno preceduti, considerando l’abbassamento dei tassi di sostituzione.
E la previsione riguarda i più «fortunati», cioè i 3,4 milioni di giovani oggi ben inseriti nel mercato del lavoro, con contratti standard.
Poi ci sono altri 890 mila giovani autonomi o con contratti di collaborazione e quasi 2,3 milioni di Neet, ragazzi che non studiano nè lavorano, che avranno ancora meno.
«Se continua così, i giovani precari di oggi diventeranno gli anziani poveri di domani» segnala nelle scorse settimane il Censis. Dunque, se in prospettiva un problema di previdenza si pone, riguarda innanzitutto quella «solidarietà tra generazioni», evocata tra l’altro giusto ieri Matteo Renzi.
L’effetto contributivo
Il regime contributivo puro, che dalla riforma Fornero in poi si applica a tutti, secondo il Censis «cozza con la reale condizione dei millennials». E non a caso il 53% di loro pensa che la loro pensione arriverà al massimo al 50% del reddito da lavoro.
La loro pensione dipenderà dalla capacità che avranno di versare contributi presto e con continuità .
Ma il 61% di loro ha avuto finora una contribuzione pensionistica intermittente, perchè sono rimasti spesso senza lavoro o perchè hanno lavorato in nero.
Per avere pensioni migliori, con la previdenza integrativa che stenta a decollare, l’unica soluzione è lavorare fino ad età avanzata.
Ma non è detto che il mercato del lavoro degli anni a venire lo consenta: per ora i dati sull’occupazione ci dicono che il percorso è tutto in salita, visto che tra il 2004 ed il 2014 l’occupazione degli under 34 è scesa del 10,7% bruciando 1,8 milioni di posti.
Genitori e fratelli maggiori della «generazione mille euro», comunque, non se la caveranno tanto meglio.
Secondo calcoli recenti della Ragioneria dello Stato anche chi andrà in pensione dal 2020 in poi avrà una pensione decisamente ridotta rispetto a quanti hanno lasciato il lavoro nel decennio precedente. In molti casi il loro assegno non supererà il 60% dell’ultimo stipendio. percentuale che scende addirittura sotto al 50% per gli autonomi.
L’equità possibile
Come rimediare? L’idea che Tito Boeri ha lanciato su lavoce.info a gennaio, prima insomma di prendere la guida dell’Inps, è quella di introdurre un contributo di solidarietà a carico di quel milione e 800 mila pensionati che oggi percepisce un assegno che supera i 2000 euro netti tenendo conto dello scostamento fra pensione effettiva e contributi versati.
Il taglio dei trattamenti, attraverso una serie di aliquote progressive,, sarebbe compreso tra il 3 ed il 7% e frutterebbe circa 4,2 miliardi.
Che secondo un esperto di previdenza come Alberto Brambilla potrebbe venire destinati ad una maggiore defiscalizzazione della previdenza complementare dei lavoratori più giovani. In maniera tale, come auspica anche Boeri, si avvicinare un poco padri. e figli.
Paolo Baroni
(da “La Stampa”)
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Maggio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
I 600 MILIONI CHE LO STATO NON VUOLE
L’abolizione del Senato è da sempre uno dei cavalli di battaglia di Matteo Renzi.
La Camera alta costa agli italiani oltre mezzo miliardo l’anno (541 milioni l’anno scorso) e per il premier si tratta di uno di quei costi della politica da tagliare con l’accetta.
Eppure, malgrado la continua difficoltà di trovare risorse, è come se lo Stato italiano pagasse ogni anno un Senato aggiuntivo rispetto a quello esistente.
Come? Rinunciando a circa 600 milioni di gettito Irpef, che in un momento economicamente tanto difficile avrebbero un effetto balsamico sulla casse statali.
È una delle conseguenze della legge che nel 1985 ha istituito l’8 per mille , che all’articolo 47 prevede che “in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”.
Tradotto: anzichè essere incamerati dal bilancio dello Stato, vengono distribuiti anche i soldi di chi non barra la casella. Un po’ come accade alle elezioni, dove i seggi sono ripartiti a prescindere dalla percentuale di astensionismo. “I soli optanti decidono per tutti” come ha osservato la Corte dei conti, criticando il sistema.
Il fatto è che, forse perchè non sono a conoscenza di questo meccanismo, i contribuenti che non indicano alcuna destinazione dell’8 per mille sono la maggioranza: fra il 55 e il 60 per cento del totale. Eppure tutti quanti, in questo modo, “regalano” senza volerlo la loro parte di Irpef.
La principale beneficiaria è ovviamente la Chiesa cattolica, che essendo la destinataria numero uno delle opzioni porta a casa più del doppio di quanto le spetterebbe sulla base delle scelte effettuate.
Lo scorso anno, ad esempio, con il 38 per cento di firme raccolte sul totale dei contribuenti, la Cei ha ottenuto l’82 per cento dei fondi.
Ovvero oltre un miliardo anzichè 485 milioni.
Ripartendo anche i soldi dei cosiddetti “non optanti”, negli ultimi 15 anni – ha calcolato l’Espresso – lo Stato ha sborsato circa 10 miliardi di euro. In media 600 milioni l’anno, al netto delle risorse aggiuntive che lo stesso Stato italiano ottiene, essendo fra i destinatari del finanziamento.
COSàŒ NON FAN TUTTI
In realtà , eccependo su questo automatismo che non rispetta la reale volontà dei contribuenti, alcune confessioni religiose si sono rifiutate di ricevere il denaro extra.
Le Assemblee di Dio e la Chiesa apostolica, ad esempio, rinunciano alla quota relativa alle scelte non espresse, che rimane per loro volontà di pertinenza statale.
Anche i valdesi fino al 2013 hanno osservato questa condotta, ritenendo giusto gestire soltanto i fondi che gli italiani, in modo esplicito, attribuivano loro.
Poi però, considerata la discutibile gestione dell’8 per mille statale, anche loro hanno deciso di accettare pure quelli “aggiuntivi”.
D’altronde da anni la quota a gestione pubblica viene usata come bancomat dai governi, dal finanziamento delle missioni internazionali alla riduzione del debito pubblico. Una truffa che ha raggiunto il culmine lo scorso anno , quando su 170 milioni solo 405 mila euro sono stati utilizzati per gli scopi previsti dalla legge: lo 0,24 per cento.
UNA GENEROSA ECCEZIONE
È proprio necessario che il meccanismo dell’8 per mille funzioni a questo modo? Non si direbbe, a giudicare dai casi analoghi che prevedono la possibilità di destinare parte del prelievo Irpef.
Il neonato 2 per mille, che ha sancito il flop dei contributi volontari alla politica , per il 2014 aveva a disposizione 7,75 milioni. Ma avendo raccolto appena 16.518 firme, ha assegnato solo 325 mila euro.
All’atto di stendere la legge, in pratica, nessuno si è sognato di ripartire i fondi calcolando anche i contribuenti che non avrebbero indicato un partito. E difatti i soldi non distribuiti sono stati riversati nel bilancio dello Stato. Che cosa sarebbe accaduto se il Partito democratico – che si è piazzato primo con 10 mila destinazioni espresse in suo favore – avesse incassato il 61 per cento della torta, ovvero quasi 5 milioni?
Lo stesso discorso vale per il 5 per mille, destinato alle onlus. Anche qui c’è un tetto che viene fissato anno per anno dal governo (500 milioni nel 2014) e pure in questo caso la ripartizione si calcola solo sulla base delle scelte espresse.
La ridistribuzione totale operata dall’8 per mille è insomma una generosa eccezione, pensata appositamente per la Chiesa cattolica quando si trattò di mettere mano al Concordato mussoliniano.
Fino ad allora la Santa sede veniva finanziata infatti dallo Stato tramite i cosiddetti supplementi di congrua, con cui veniva assicurato il sostentamento del clero.
Temendo di non raggiungere quella cifra, il ministero delle Finanze effettuò delle proiezioni ad hoc per stabilire il livello di prelievo necessario. E aggiunse anche la ripartizione basata sul totale dei contribuenti. Deus ex machina dell’ingegnoso sistema, un poco noto docente di Diritto tributario a Pavia, all’epoca consulente del governo Craxi e destinato a una luminosa carriera politica: Giulio Tremonti.
CACCIA AL TESORETTO
Dal 1990, anno dell’entrata in vigore, il gettito Irpef è salito esponenzialmente per effetto dell’aumento della pressione fiscale.
Non a caso già nel 1996 la parte governativa della commissione paritetica Italia-Cei osservava che “la quota dell’8 per mille si sta avvicinando a valori, superati i quali, potrebbe rendersi opportuna una proposta di revisione” e che “già oggi risultano superiori a quei livelli di contribuzione che alia Chiesa cattolica pervenivano sulla base dell’antico sistema”.
E dire che all’epoca il gettito era di 573 milioni di lire, circa 800 milioni di euro rivalutati ai giorni nostri. Attualmente sfiora 1,3 miliardi di euro, il 60 per cento in più.
In Francia, Irlanda e Regno Unito le religioni non ricevono contributi pubblici e devono ricorrere all’autofinanziamento.
Eppure non servirebbe arrivare a tanto. Basterebbe seguire il modello della cattolicissima Spagna: il contribuente decide a chi attribuire parte dell’imposta ma i soldi, se non esprime una preferenza, restano allo Stato.
Facendo lo stesso anche da noi, le casse pubbliche si ritroverebbero con un tesoretto da 600 milioni in più l’anno.
Anzichè abbassare il prelievo, come qualcuno vorrebbe fare, si potrebbe proporre una modifica delle intese bilaterali, a cominciare dalla quella con la Chiesa cattolica.
Un percorso lungo, certo, ma il momento è più che mai propizio: a giugno inizieranno gli incontri delle commissioni paritetiche fra Stato e singole confessioni religiose, chiamate ogni tre anni “alla valutazione del gettito della quota Irpef al fine di predisporre eventuali modifiche”.
Nessuno dei 17 governi che si sono succeduti nell’ultimo quarto di secolo ha voluto modificare lo status quo. Ma visto che la situazione dei conti pubblici è grave, il premier Matteo Renzi – a caccia di risorse per attuare la sentenza della Consulta che ha bocciato il blocco della rivalutazione delle pensioni – ha l’occasione per prendere in mano la situazione.
Anche se è facile immaginare che una proposta di revisione non troverebbe grande favore Oltretevere. Ma non è detto: in fondo papa Francesco ha impresso un nuovo corso.
Chissà , proprio lui che tante volte ha tuonato contro i privilegi della Chiesa di Roma, cosa ne pensa di una revisione dell’8 per mille.
Paolo Fantauzzi e Mauro Munafò
(da “L’Espresso”)
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Maggio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
STORIE DI ORDINARIO RAZZISMO
Mattino, treno regionale 3041 Lucca-Firenze.
Un passeggero, italiano, non ha il biglietto. Ha l’aria strafottente, e si rivolge a male parole alla capotreno che, giustamente, gli fa la multa.
Pomeriggio, regionale 23364 Firenze-Pisa.
Un altro passeggero, senegalese, strafottente anche lui, eÌ€ senza biglietto. Stavolta la capotreno ordina di scendere alla prima stazione. C’eÌ€ anche un poliziotto che lo caccia senza troppi complimenti.
Decido di intervenire. Chiedo alla capotreno percheÌ ha fatto scendere il passeggero: la legge dice che in questi casi bisogna fare la multa, inviandola a casa per posta se l’interessato non paga subito.
Lei mi dice che si è comportata secondo le regole, e io insisto: desidero il riferimento normativo esatto.
Mi chiede le mie generalità e io le mostro un documento, chiedo che prenda nota dei miei dati e che inserisca le mie contestazioni nel verbale.
Lei si siede, respira e mi dice che in effetti la cosa non è prevista dalla legge, ma dai regolamenti interni di Trenitalia.
Le mostro i regolamenti e le faccio notare che dicono il contrario.
Lei telefona ad un responsabile: «ciao, scusa, ho fatto scendere un tizio “di colore” (eÌ€ rilevante il dettaglio? I passeggeri non sono tutti uguali?) e adesso c’eÌ€ un altro passeggero che mi chiede in base a quale legge ho agito».
Dall’altro capo del telefono sento citare le Condizioni generali di Trasporto, art. 7. Riapro l’Ipad, cerco le Condizioni generali di Trasporto, vado all’art. 7 e glielo mostro: parla di multa, non di discesa forzata dal mezzo.
«Ma io sul treno ho un potere discrezionale», prova a difendersi. Regolamenti alla mano, le faccio notare che le cose non stanno cosiÌ€.
Alla fine si arrende: «Faccia una contestazione formale e vediamo cosa le rispondono».
E cosiÌ€ ho fatto: ho chiamato il call center della Regione Toscana e ho chiesto una risposta scritta dell’azienda.
Nel frattempo, un passeggero italiano ha avuto una multa, e uno «di colore» – per usare la terminologia superficiale dell’operatrice – eÌ€ stato cacciato in malo modo dal treno…
Sergio Bontempelli
(da “il Corriere della Sera”)
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Maggio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
IL BUCO CREATO NEL BILANCIO: “NO A CONDIZIONAMENTI NEL FORMARE LE NOSTRE DECISIONI”
“Acquisire questi dati a cosa doveva condurre? Forse all’accertamento del numero delle pensioni coinvolte? O sarebbero dovuti servire per formare il nostro convincimento? Ma tutto questo non corrisponde alla natura della Corte costituzionale, che opera come un giudice, e quindi non ha la possibilità di aspettare dati che, a tuttora, mi sembrano incerti, perchè non si sa qualche sia l’entità del cosiddetto buco determinato dalla sentenza”.
Così il presidente della Corte costituzionale Alessandro Criscuolo replica in un’intervista a Repubblica al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che ieri si era detto “perplesso” sul fatto che la Corte ritenga “di non dover fare valutazioni economiche sulle conseguenze dei suoi provvedimenti”.
La critica del ministro alla Consulta è, appunto, di non aver “valutato il buco creato sulle pensioni”.
Criscuolo torna su quelle frasi e risponde al ministro.
Dopo aver respinto in maniera esplicita l’auspicio espresso da Padoan di una riflessione politica da parte della Corte sulla base delle esigenze di bilancio, il presidente della Consulta aggiunge: “Eravamo e siamo sereni, come sempre — spiega Criscuolo — abbiamo giudicato secondo coscienza e regole. Se il ministero dell’Economia aveva a cuore i dati sulle pensioni, poteva trasmetterli alla Corte”, che “non può aspettare di decidere necessariamente solo quando pervengano determinate informazioni. D’altra parte, di quale natura dovevano essere queste informazioni? Se si trattava di dati in possesso dell’autorità amministrativa sarebbe stato opportuno che fossero comunicati alla Corte prima del giudizio“.
Il presidente della Consulta precisa anche che non ha alcuna “ragione di coltivare una polemica con il ministro Padoan. Ma dare per scontato che la Corte dovesse acquisire i dati prima di decidere sulle pensioni mi sembra che non risponda all’attuale disciplina che regola il funzionamento della Consulta”.
Sul perchè abbia fatto pendere l’ago della bilancia dalla parte della bocciatura della legge Monti, Criscuolo spiega: “Mi è sembrato che ci fosse una violazione degli articoli 36 e 38 della Costituzione, nei quali si garantisce al lavoratore, fra l’altro, il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”.
Sul principio dell’equilibrio di bilancio, garantito dall’articolo 81, il presidente della Corte spiega che “questo principio effettivamente è stato costituzionalizzato, ma non spetta alla Corte garantirlo, bensì ad altri organi dello Stato”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
E’ NELL’ELENCO DEI CLIENTI DEL BARONE DEL RICICLAGGIO DOLFUS
Guido Veneziani molla la presa sull’Unità , ma non del tutto.
È la prima conseguenza delle indagini per bancarotta fraudolenta a carico dell’editore che, come rivelato da ilfattoquotidiano.it riguardano le vicende della stamperia piemontese Roto Alba, ormai sull’orlo del fallimento.
Ma la decisione del Pd e degli altri soci del quotidiano per cavarsi dall’imbarazzo rischia di trasformarsi nella più classica toppa che allarga il buco, visto il curriculum del nuovo azionista di maggioranza del giornale, Massimo Pessina, che già aveva tentato l’impresa un anno fa senza però riuscirci.
Il cambio in corsa si è consumato venerdì 22 maggio, nel corso della riunione del consiglio di amministrazione dell’editrice, alla quale viste le problematiche delicate da affrontare, ha partecipato anche il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, che insieme al segretario Matteo Renzi ha in mano la partita del rilancio del quotidiano fondato da Gramsci.
Qui Veneziani ha presentato le sue dimissioni da presidente del cda e ha accettato di diluire le sue quote, a vantaggio della Piesse srl, il cui 60% attualmente fa capo a Pessina, mentre il restante 40% è intestato a Guido Stefanelli, l’amministratore delegato della Pessina Costruzioni anche se secondo l’editrice la proporzione è stata recentemente invertita.
A loro, in ogni caso, andrà il 76% della società editrice contro il 38% detenuto in precedenza, mentre Veneziani scenderà dal 57 al 19 per cento.
Invariata la quota del Pd, il 5% custodito nella fondazione Eyu.
L’ormai ex cavaliere bianco del quotidiano, contattato da ilfattoquotidiano.it spiega il suo passo indietro con la volontà “di non mettere in imbarazzo il partito del presidente del consiglio”, sebbene sostenga che l’avviso di garanzia ricevuto “è illegittimo, perchè ipotizza la bancarotta fraudolenta per un’azienda che non è ancora fallita”. Aggiunge poi di avere trovato “solidali” Bonifazi e tutti i consiglieri: “Mi è stato chiesto fortemente di rimanere nella compagine sociale, visto che da sei mesi studio questo progetto editoriale. E io ho accettato di continuare a essere l’editore della prossima Unità ” che deve tornare in edicola entro il 30 giugno e che al momento è ancora senza direttore, ma ha già un vicedirettore, Vladimiro Frulletti, il giornalista che per il quotidiano seguiva Renzi che ha ricevuto l’incarico venerdì.
Ufficialmente, invece, nelle intenzioni del Pd il passaggio di testimone tra Veneziani e Pessina in testa all’azionariato, dovrà garantire “trasparenza e massima tutela e affidabilità del nuovo progetto editoriale”, come ha sottolineato Bonifazi in una nota esprimendo forte apprezzamento per il gesto dell’editore che “mira a sgombrare il campo da ogni speculazione”.
Peccato che il patron dell’omonima società di costruzioni che si è fatto avanti, abbia di suo da tempo una lunga lista di cose su cui fare trasparenza.
Ultima in ordine cronologico la sua presenza nell’elenco dei clienti italiani di Filippo Dollfus, il barone del riciclaggio internazionale arrestato a Milano all’alba del 26 aprile scorso.
Il nome di Pessina, infatti, compare nella lista di coloro che si erano affidati al finanziere svizzero e ai suoi associati per “trasferire all’estero ed occultare denaro o utilità nella gran parte dei casi provenienti da delitti di appropriazione indebita, evasione fiscale, corruzione o riciclaggio”, come si legge nell’ordinanza depositata il 29 aprile scorso.
Sempre per restare in tema di evasione, il costruttore figura anche tra i clienti della Hsbc di Ginevra svelati dalla lista Falciani: secondo quanto riportato dall’Espresso il 18 febbraio scorso, è stato titolare di un conto chiuso nel 2003, quando il deposito ammontava a circa 9mila dollari.
Una scoperta che non stupisce, visto che prima ancora Pessina, citato anche nelle carte dell’inchiesta sugli appalti Expo insieme a Stefanelli e salito agli onori delle cronache per essere stato tra i finanziatori dell’ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati con 15mila euro, era comparso nell’elenco dei “furbetti di San Marino“. Ovvero la lista degli italiani che avevano portato i loro soldi nella Smi Bank del Titano venuta a galla nel 2010.
E, giusto per non farsi mancare niente, due anni prima il nome di Pessina e dei suoi familiari era spuntato anche tra quelli degli italiani titolari di conti a Vaduz, in Liechtenstein, con depositi complessivi per oltre 30 milioni di euro.
Luigi Franco e Gaia Scacciavillani
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LOTTA AGLI SPRECHI ALMENTARI… OGNI CITTADINO FRANCESE BUTTA 20-30 CHILI L’ANNO DI PRODOTTI ALIMENTARI… UNO SPRECO CHE COSTA AL PAESE 20 MILIARDI
La Francia dice basta agli sprechi alimentari. E lo fa con una legge, votata all’unanimità dall’Assemblea di Parigi, che vieta ai grandi supermercati – oltre i 400 metri quadrati – di buttare prodotti ancora buoni rimasti invenduti.
D’ora in avanti dovranno essere regalati alle associazioni benefiche, ridotti in concime o riutilizzati come mangime per animali.
Chi sgarra rischia multe fino a 75 mila euro e due anni di carcere.
«È scandaloso vedere cibi ancora commestibili cosparsi di candeggina per renderli inutilizzabili», ha spiegato il deputato socialista Guillaume Garot, ex ministro dell’Agricoltura e promotore della legge.
20-30 chili di cibo buttato l’anno per persona
Secondo alcuni calcoli, ogni cittadino francese butta nel bidone della spazzatura 20-30 chili di prodotti alimentari all’anno.
Un «crimine» che costa al Paese circa 20 miliardi di euro.
La nuova legge, che prevede tra l’altro anche una campagna di sensibilizzazione nelle scuole e nelle aziende, fa parte di una serie di misure che puntano a dimezzare gli sprechi entro il 2025.
Le critiche alla legge
Le aziende della grande distribuzione hanno criticato la nuova legge. «I grandi supermercati sono responsabili solo del 5% degli sprechi ma sono gli unici a dovere seguire questi nuovi obblighi», ha detto Jacques Creyssel, portavoce della Federazione del Commercio e della Distribuzione. «Molti di questi punti vendita inoltre – circa 4.500 – hanno già convenzioni con associazioni caritative».
In Italia gli sprechi valgono mezzo punto di Pil
«In Italia lo spreco alimentare domestico ovvero il cibo ancora buono che finisce nei rifiuti, vale oltre 8 miliardi, circa mezzo punto di Pil», ha spiegato Andrea Segrè, docente di Politica agraria internazionale all’Università di Bologna e fondatore di «Last Minute Market». «Dall’altra parte l’Istat conta ormai più di 10 milioni di italiani che vivono e si alimentano in condizioni di povertà ».
Federica Seneghini
(da “il Corriere della Sera”)
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Maggio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
TRA EREDI, DINASTIE ED ESTREMISMI: “CON SALVINI NON SI VINCERA’ MAI”
Il partitone unico del centrodestra, che non è mai nato, è già finito.
E il progetto, com’era prevedibile, naufraga sulla leadership, che Matteo Salvini immagina già sua e che Silvio Berlusconi non vuole in realtà cedere a dispetto dei voti che scemano e del tempo che passa.
«Non ci sono eredi e dinastie, ma i cittadini che dovranno scegliere programmi e candidati», avverte il capo del Carroccio all’indomani dell’uscita berlusconiana sul nuovo partito dei moderati.
«Ha detto di voler scegliere il suo erede, lui però non è la regina Elisabetta», lo sferza da Reggio Emilia senza alcuna remora ormai Salvini, il quale sogna di doppiare o quasi le percentuali di Forza Italia a queste regionali.
Il leader forzista sbarca dopo cinque anni a Napoli, prima delle due giornate campane al fianco di Stefano Caldoro.
Le bordate sono da campagna elettorale, ma come va dicendo Berlusconi ai suoi che chiedono spaesati lumi in queste ore, «dobbiamo ormai smarcarci da Salvini ».
E nel giro di un pomeriggio lui lo fa anche in pubblico: «In tutti i Paesi europei, non è con una destra provocatoria che si riesce a catturare il consenso per governare il Paese».
Il partito che verrà sarà un affare tutto interno a Forza Italia, al Ncd e a chi vorrà starci.
Lo conferma anche il coordinatore degli alfaniani Gaetano Quagliariello: «Nel centrodestra del futuro che siamo impegnati a costruire non c’è spazio per Salvini».
Si parte all’indomani delle regionali. Già , ma come? Il successore non c’è, non si vede all’orizzonte.
Il nuovo brand avrà un richiamo esplicito ai “Popolari”, antidoto al leghismo estremista.
«Ho deciso di dividere il partito in tre grandi aree – ha spiegato Berlusconi a pochi – Il Nord, il Centro e il Sud, ognuno con un suo coordinatore, io sovrintenderò il tutto».
Sarà la fase transitoria in attesa del vero leader. E le ipotesi già si sprecano su chi guiderebbe le tre branche.
Attenzione puntata sugli eurodeputati (eletti in più regioni) al Nord, da Giovanni Toti alla giovane ma già d’esperienza Lara Comi. Antonio Tajani, pur in corsa per la presidenza del Parlamento Ue l’anno prossimo, potrebbe coordinare il centro, in alternativa la già plenipotenziaria senatrice Mariarosaria Rossi. Mara Carfagna in pole al Sud.
Sull’erede a cui aveva fatto cenno il giorno prima, da Napoli Berlusconi non si sbilancia, con molta evidenza perchè ancora non c’è, come confermano i suoi.
Conferma, prima in conferenza stampa in hotel poi dal palco alla Mostra d’Oltremare, che a guidare i moderati sarà una figura non selezionata attraverso le primarie perchè quello è un sistema «manipolabilissimo che ha portato i sindaci peggiori in Italia» selezionati a sinistra. Già , ma allora come avverrà la selezione?
«In democrazia il leader viene scelto dal popolo, solo nelle monarchie il re sceglie il successore», tiene a precisare per spazzare via le voci tornate insistenti sul filo dinastico che porterebbe a Marina se non a Barbara.
Dunque, «ci sono già protagonisti del centrodestra che saranno in grado di proporsi come leader e saranno gli elettori a decidere».
Andrà da Fazio domani sera «grazie al cerchio tragico», dice con autoironia guardando Francesca Pascale, la Rossi sotto il palco.
«Renzi e Salvini vanno in televisione 6 ore a settimana noi abbiamo diminuito i consensi perchè per un anno a Berlusconi è stato impedito di partecipare a comizi e interventi tv per una legge applicata in maniera retroattiva », dice riferendosi alla legge Severino.
Peccato che quella norma non preveda affatto quel divieto.
«Io leader?», si schermisce la Pascale al suo fianco, «assolutamente no, l’unico leader è Berlusconi».
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Maggio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
SPARITI I FASTI DECADENTI DEL PASSATO, A NAPOLI DOMINA LA PASCALE
Non ci sono più le donne di una volta, i labbroni sparsi in sala, petti in fuori e gambe tornite e supertacchi in vista.
Quel che resta di Silvio Berlusconi è il suo addetto alle luci, Roberto Gasparotti, l’uomo della calza di Arcore, storica messinscena televisiva, allontanato a dicembre e rientrato ieri in servizio.
“No primarie, ma il popolo sceglierà il mio successore”
Dopo cinque anni di assenza Silvio Berlusconi plana a Napoli, città che lo ha festeggiato sia come leader che come predatore, il luogo della politica, dell’amore e della musica.
Le gemelle De Vivo, Noemi e il cantastorie Apicella, ricordate?
Costituivano l’itinerario parallelo e gaudente di un uomo potente e ingordo. Ma l’albergo che lo ospita, il solito sontuoso Vesuvio, oggi replica con mestizia la gloria che fu.
Berlusconi parla con rilassatezza, diremmo svogliatezza, in favore di Stefano Caldoro. Un bravo presentatore, niente più.
Alla sua destra Alessandra Mussolini, ancora candidata ma anch’ella sul finale di stagione a reinterpretare una parte consumata addirittura 22 anni prima.
Fu nel 1993, durante la campagna per il sindaco di Napoli contro Antonio Bassolino, che diede prova di essere una sincera vajassa, popolana arguta e irriverente.
Oggi sembra una figurante. E Silvio un prim’attore riottoso a lasciare il camerino.
“Il mio successore sarà scelto dal popolo che vota, non dalle primarie. E certo verrà dal mondo dell’impresa alla guida di una coalizione che spero emargini piccoli leader di piccoli partiti che sul bene della Nazione fanno sopravanzare tornaconti personali”.
L’unica cosa che dice chiara: Salvini non gli piace e non sarà suo alleato. E la Lega lepenista sperabilmente fuori dalla coalizione di centrodestra.
La compagna: “Marina leader? Silvio non vuole”
Invece è la napoletana Francesca Pascale, giovane e oramai conosciuta lady, che pare più brillante, più in forma, con le idee più chiare.
“Uno come Berlusconi non si trova più. Aveva carisma e aveva i soldi. Forza Italia ha goduto del suo prestigio e anche del suo portafoglio. Chiedere a me del successore è buffo. Vorrei che Silvio non lasciasse mai. Marina? So che il papà non è d’accordo”.
Nella fenomenologia berlusconiana la donna faceva l’ancella plaudente, o la portaordini disciplinata come la sempiterna Mariarosaria Rossi, badante, tesoriere, assistente e scovaserpenti.
Ma con Francesca la sovversione acquista il piacere di una rivoluzione permanente. Con gentilezza un tizio le ricorda che il presidente sta aspettando.
Lei prende tempo, coperta di un vestito bianco a nido d’api, a suo agio con i cronisti. “Questo partito avrebbe bisogno di una bella riverniciata”. Di nuovo, toc toc, il presidente è lì che freme: “Vedi questo tatuaggio (il suo nome intrecciato a quello di Silvio)? L’ho fatto anche se lui è contrario”.
“L’unico giornale che leggo è il Fatto, dopo colazione…”
Ancora l’assistente che guarda l’orologio. Ancora lei che se n’impippa: “Mi ha regalato l’Harley anche se è contrario che guidi le moto”.
Poi: “Questo partito dovrebbe essere molto più battagliero sui diritti civili. Guarda l’accendino che ho? Ha i colori della comunità gay”.
Provocatoria: “L’unico giornale che leggo è il Fatto. Ma dopo colazione, per difendere il mio stomaco”. Pascale sembra Berlusconi. È lei ad avere le idee chiare. “Ci siamo alleggeriti di tutti i trasformisti. Li abbiamo consegnati a quelli là . A De Luca”.
Lui è ancora attorniato dall’ineffabile Giggino ‘a Purpetta, un produttore di voti ad alta intensità che oggi fa avanzare suo figlio Armando, con l’incredibile slogan “ora tocca a noi” verso il seggio di consigliere regionale.
Il giovane Armando Cesaro, tranquilli, sarà tra i più votati in Campania e in lizza, se dovesse andare in porto la riforma costituzionale, a divenire senatore. Il papà è deputato.
Tutto si tiene. Berlusconi è inchiodato al suo passato come al doppiopetto Caraceni. Una forza oscura lo spinge sempre al mondo che fu: “Di Nicola Cosentino posso dire politicamente tutto il bene possibile. Sulle altre cose non ho elementi per commentare”.
Cosentino, ora a Poggioreale, era il punto di forza, il centro di gravità , lo snodo risolutore e coordinatore delle mille correnti e famiglie di cui si componeva Forza Italia.
Che adesso è smunta, anche se Stefano Caldoro, faccia pulita e toni moderati, non ha avuto remore a coinvolgere — al pari del suo principale competitore — volti oggettivamente disperanti.
Il cambio di stagione: ora qui non c’è più nessuno
Ma il voto non puzza al punto che a mezz’ora di auto da qui Matteo Renzi va — con pari controvoglia — a inscenare un siparietto a favore di Vincenzo De Luca, un candidato tecnicamente e formalmente impresentabile.
La verità è che al Sud il limite del pudore può essere oltrepassato senza mai pagare dazio.
La piccola rappresentanza di fedelissimi che raggiunge l’hotel Vesuvio per acclamare (con tiepidezza) il ritorno in città dell’ex potentissimo Caimano sembra una trincea sguarnita rispetto a quella che affolla la giornata salernitana dell’imbarazzato premier a fianco di De Luca.
Cinque anni fa erano tutti qui, oggi sono di là .
Il cambio di stagione, appunto.
Antonello Caporale
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LE NOTE DOLENTI SONO PREVALENTI
È cambiata così tante volte, la legge Anticorruzione, nei suoi 797 giorni di tira-e-molla parlamentare da quando Piero Grasso la presentò a inizio legislatura a quando l’altroieri la Camera l’ha licenziata definitivamente, che a commentarla a botta calda si rischiava la labirintite.
Perciò ci siamo presi un giorno e ora siamo quasi pronti.
Buona o cattiva legge? Buona e cattiva insieme.
Buona anzitutto per il fatto stesso che sia stata approvata una legge con quel nome, “Anticorruzione”, che in un Parlamento molto Pro, con oltre 100 fra condannati, imputati e inquisiti, senza contare i loro avvocati, è peggio dell’aglio per i vampiri, del drappo rosso per i tori e dell’acquasanta per i demòni.
Buona, poi, perchè allontana per un po’ i condannati dai rapporti con la Pubblica amministrazione.
Buona, infine, perchè aumenta le pene sia massime sia minime — ora di poco, ora di molto — per la corruzione, il peculato e l’associazione mafiosa (non però per la concussione, la corruzione internazionale e l’autoriciclaggio); dunque sposta in avanti — ora di poco, ora di molto — la scadenza della prescrizione, notoriamente calcolata sul massimo della pena.
Basta tutto ciò per cantare vittoria, come fanno i tg e i giornaloni, o addirittura per dire che “stiamo cambiando l’Italia” e che “la prescrizione non sarà più possibile” come fa Renzi?
No, non basta. Ci vuole ben altro per cambiare l’Italia (per esempio, escludere gli impresentabili dalle proprie liste anzichè imbarcarli a vagonate come fanno FI, Ncd e Pd), e anche per rendere impossibile la prescrizione.
Purtroppo, al di là della propaganda, le note dolenti sono prevalenti.
1) La corruzione più grave, quella per atto contrario ai doveri d’ufficio (cioè il delitto del pubblico ufficiale che viola la legge e abusa del proprio potere in cambio di soldi o favori), oggi punita fino a 8 anni, lo sarà fino a 10.
Prescrizione impossibile? Macchè: allungata di soli 2 anni, troppo pochi per garantire la conclusione del processo, specie nei tribunali più intasati.
Idem per le fattispecie di corruzione meno gravi, cioè quelle di chi si fa pagare per un atto dovuto o comunque non illegale.
2) Il governo ha scriteriatamente stralciato la riforma generale della prescrizione, che arriverà solo dopo le elezioni: e lì l’Ncd, in cambio del suo ok all’Anticorruzione, ha già ottenuto che se ne riducano vieppiù i modici effetti positivi.
Cioè: con una mano (Anticorruzione) il governo allunga la prescrizione, e con l’altra (Riforma della prescrizione) si appresta ad accorciarla di nuovo. Roba da schizofrenici, o da delinquenti.
Resta da capire per quale motivo l’Italia sia l’unico paese al mondo dove la prescrizione continua a galoppare anche dopo il rinvio a giudizio, e persino dopo la condanna di primo e financo di secondo grado. O forse lo si capisce benissimo.
3) Il ddl Grasso modello-base metteva fine al pastrocchio della legge Severino, che salva quasi tutti i concussori col trucchetto del nuovo reato di induzione indebita, punibile solo quando si dimostra un vantaggio non solo per l’induttore, ma anche per l’indotto (vedi Berlusconi che chiama il funzionario della Questura per far rilasciare Ruby e viene assolto perchè i vantaggi li ha avuti solo lui e non il funzionario). Ma il testo finale questo passaggio se l’è bellamente mangiato.
4) Il falso in bilancio torna, è vero, a essere un reato sempre perseguibile d’ufficio, senza bisogno della denuncia del socio.
Ma quasi soltanto sulla carta. Le pene, dopo le pressioni delle lobby di Confindustria e delle banche, ascoltatissime a Palazzo Chigi, sono ancora troppo basse. Specie per le società non quotate (da 1 a 5 anni, che scendono a 6 mesi — 3 anni per quelle sotto i 15 dipendenti), che poi sono la stragrande maggioranza.
Non solo: il falso è reato quando riguarda “fatti materiali” taroccati od omessi nei libri contabili, mentre inspiegabilmente non lo è sulle “valutazioni” mendaci. Risultato: niente custodia cautelare per evitare inquinamenti probatori, fughe o ripetizioni del reato; niente intercettazioni telefoniche e ambientali; e prescrizione pressochè assicurata per tutti. Insomma una legge-spot che rende difficilissimo scoprire i bilanci falsi, improbabile preservare intatte le prove e quasi impossibile punire i colpevoli in tempo utile.
Ma, anche nel caso eccezionale che si arrivi a una condanna, fra attenuanti e sconti vari, il condannato non farà un giorno di galera.
Nemmeno per le società quotate: basti pensare che la pena massima, almeno sulla carta, è 8 anni, e la minima è 3: siccome di fatto le pene finali medie si attesteranno sui 4-5 anni, e le ultime leggi svuotacarceri prevedono la cella per le pene superiori ai 5, tutti i condannati resteranno a piede libero.
5) Giusto prevedere attenuanti (con sconti fino a 2 terzi della pena) per i corruttori pentiti che denunciano spontaneamente i corrotti ancora ignoti ai giudici, ma — salvo crisi mistiche — non è questa la strada migliore per rendere più difficile la vita ai ladri in guanti gialli. La via maestra è quella seguita negli Stati Uniti: il “test di integrità ”, cioè la presenza di agenti provocatori che inducono in tentazione politici e amministratori offrendo loro tangenti, per saggiarne la correttezza o la corruttibilità . Chi ci casca, finisce dentro. La prospettiva ha giustamente terrorizzato i parlamentari della maggioranza, che infatti hanno respinto con orrore l’apposito emendamento dei 5Stelle.
Evidentemente si conoscono bene, o almeno conoscono bene i propri alleati e vicini di banco.
E hanno voluto evitare che il Parlamento si svuotasse da un giorno all’altro per traslocare a Regina Coeli.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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