Maggio 16th, 2015 Riccardo Fucile
CANDIDATA ALLA REGIONE CONTRO IL VOLERE DEL SUO PARTITO, LA MELONI LA SILURA… LEI REPLICA: “MI FANNO RIDERE, NON SONO ISCRITTA DA MARZO”
Adriana Poli Bortone è stata sospesa da Fratelli d’Italia ed è stata deferita ai probiviri nazionali. Lo ha comunicato Fabio Rampelli dell’ufficio di presidenza e capogruppo alla Camera di Fdi durante una conferenza stampa a Lecce.
E’ l’ennesimo capitolo degli scontri, le scissioni multiple e i litigi che nel centrodestra si vivono soprattutto in Puglia.
Solo ieri Silvio Berlusconi — che sostiene la Poli Bortone — aveva attaccato Raffaele Fitto — che appoggia Francesco Schittulli — definendolo “già fuori” dal partito.
Fratelli d’Italia in Puglia corre con Schittulli e quindi la scelta dell’ex sindaco di Lecce e ex ministro del primo governo Berlusconi di accettare la corsa con Forza Italia e Noi con Salvini ha fatto scattare le sanzioni del partito di Giorgia Meloni.
Ma la notizia è stata evidentemente tenuta sotto traccia, e a rivelarlo è proprio l’interessata.
“Io non sono iscritta a Fdi dal 31 marzo — sottolinea — forse dovrebbero rileggere lo Statuto: può essere impegnativo ma si potrebbe anche leggere”.
Ad aggiungere benzina sul fuoco è Rampelli, che replica così: “La sospensione è il primo passo previsto dallo Statuto, ma è chiaro che la senatrice è da considerarsi fuori dal partito. Constatiamo che una persona che viene da una storia importante della destra italiana invece di stare con la sua gente in una campagna elettorale difficile, sta con Francesca Pascale e Dudù“.
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Maggio 16th, 2015 Riccardo Fucile
“BISOGNA ARCHIVIARE IL SUO CENTRODESTRA, DA NOI PROPOSTE, CONTENUTI E VOGLIA DI RIDARE SPERANZA AL POPOLO DI CENTRODESTRA”
“Lo dico con amarezza, leggendo i giornali, guardando le tv, ascoltando e incontrando tanta gente che mi incoraggia ad andare avanti. Da una parte, nella mia e nostra campagna elettorale, ci sono ovunque piazze piene, clima positivo e propositivo, proposte di contenuto, una proiezione verso il futuro, la voglia di costruire e ricostruire, di ridare una speranza a un popolo di centrodestra che vede oggi tanti delusi”, dall’altra per il Cavaliere in Puglia ci sono state “48 ore di flop tardoberlusconiano, tra sedie vuote e offese”.
Lo ha detto l’europarlamentare di Forza Italia Raffaele Fitto, commentando la conclusione della visita di due giorni del leader di Forza Italia in Puglia.
“Silvio Berlusconi, nella crisi drammatica che ha devastato Forza Italia (si pensi al recente tracollo che l’ha fatta precipitare al 3-4% in Trentino) – afferma Fitto – non ha trovato di meglio che venire in Puglia, per poi disdire quasi tutti gli appuntamenti, far mascherare malamente i vuoti della sala di Lecce, insultare me e offendere chi si sta impegnando a dare un futuro al centrodestra”.
“Così – aggiunge – sono passate queste 48 ore di flop tardoberlusconiano, tra sedie vuote e offese. Il sipario cala tristemente su una lunga stagione, che ha avuto in passato meriti e pagine belle, e oggi si è purtroppo ridotta così”.
“Che tristezza…Berlusconi ha scelto di interpretare il centrodestra del passato – conclude Fitto – Non resta che archiviarlo e aprire una pagina futura”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 16th, 2015 Riccardo Fucile
IN LIGURIA NON SFONDA A DESTRA E PERDE VOTI A SINISTRA
C’è un motivo se Matteo Renzi e Silvio Berlusconi hanno tarato le rispettive agende elettorali sulla Liguria.
Col premier che si prepara a tornare almeno un paio di volte per dare un sostegno alla Paita. E il Cavaliere che ha deciso di dedicare a Giovanni Toti il suo rush finale.
E per questo la prossima settimana sarà a Napoli, ma poi volerà a Genova nei giorni a ridosso del voto.
E il motivo è che la Liguria è qualcosa di più di una elezione regionale: è la battaglia campale sul Partito della Nazione, dove si combatte una partita tutta nazionale.
Perchè è lì che si potrebbe verificare uno scenario da incubo per il premier: il Partito della Nazione che non sfonda a destra e perde pezzi rilevanti alla sua sinistra.
È più di una previsione “gufesca”. I segnali in tal senso sono già molto intensi.
E allora, occorre partire dall’inizio per capire ciò che sta succedendo in Liguria.
Da quando cioè si svolgono le primarie del Pd.
Sulla carta, allora, è una di quelle regioni dove il Pd vince facile. Nel corso delle primarie si verifica il primo sisma che porta alla denuncia di Sergio Cofferati sul “voto inquinato” e alla sua uscita dal partito.
Nelle urne delle primarie nasce il partito della Nazione in Liguria, con pezzi rilevanti di centrodestra che vanno a votare in blocco per la Paita.
Nelle cinque pagine con cui la commissione dei garanti ha spiegato l’annullamento del voto delle primarie liguri in 13 seggi si trovano parecchi casi di pezzi di destra che corrono con la candidato del Pd. Per dirne uno: nel seggio di Santo Stefano al Mare (Imperia) una scrutatrice lamenta “la presenza di un assessore di Pompeiana che chiedeva, recandosi più volte presso il seggio, l’elenco dei votanti per verificare”.
E, guarda caso, il sindaco di Pompeiana Rinaldo Boeri aveva firmato nel 2012 un documento a sostegno di Scajola.
Nel seggio di Moconesi (Tigullio), per dirne un’altro, è a verbale “un pressante controllo del voto e l’interferenza di persone estranee al seggio, appartenenti a liste contrapposte al centrosinistra”, che in un caso, “hanno espresso frasi volgari rimanendo a controllare e minacciando e intralciando la libera espressione del voto”. E ancora: a Lavagna (Tigullio), scrivono i garanti, “risultano gravi segnalazioni di due elettrici, e in particolare di una, che parla di euro versati a lei prima dell’ingresso nel seggio ai fini del voto”.
Altro caso, a Savona, Albisola Superiore – il sindaco è Franco Orsi, ex senatore Pdl – dove sono stati segnalati al voto “9 soggetti dichiaratamente di centrodestra di cui risultano a verbale i nomi così come risulta a verbale che un’elettrice votando ha dichiarato di essere per il centrodestra”.
Nel seggio di Deiva Marina (La Spezia) esponenti di centrodestra davano indicazioni esplicite di voto. E questi sono solo i casi più eclatanti.
Ma le primarie sono solo un episodio del movimento che porta rilevanti pezzi del centrodestra nell’orbita del Pd e della Paita, che appaiono come i vincitori annunciati. Anche nelle settimane successive si verifica una profonda mutazione genetica, dal Pd al Partito della Nazione.
Pierluigi Vinai, ad esempio, ex presidente della fondazione Carige, era l’uomo del potere di Scajola a Genova e dei rapporti col cardinal Bagnasco.
Ora ha costituito una fondazione, Open Liguria, e sta con la Paita, mentre a Roma ha ottimi rapporti con Graziano Delrio.
Ma non è l’unico.
L’aiuto più importante è arrivato da Enrico Musso, ex senatore del Pdl vicino a Scajola, che corre da governatore con una lista civica. Molto forte a Genova, sottrae importanti consensi a Toti.
Al Partito della Nazione arriva pure la benedizione. Il cardinale di Genova e presidente della Cei Angelo Bagnasco, dopo una visita in città di Luca Lotti, dichiara: “Provo grande dispiacere e dolore per il fatto che, chissà perchè, le indagini esplodono sempre in certe ore della storia, della città , della nazione”. È evidente il riferimento alla candidata Raffaella Paita.
E qui, nel momento di massima espansione del Partito della Nazione, quando ormai l’esito delle elezioni appare scontato, accade un doppio movimento, che si presta a una lettura “nazionale”.
La rottura a sinistra che porta alla candidatura di Luca Pastorino, su cui si giova la scommessa di Pippo Civati, candidatura che intercetta un diffuso malessere nell’elettorato di sinistra verso il Partito della Nazione.
E dall’altro lato Silvio Berlusconi che torna a fare Silvio Berlusconi, e non più la stampella di Renzi. Cioè: gioca a vincere.
E attorno a Giovanni Toti riesce a mettere su una coalizione che riporta a casa quel soccorso azzurro che alle primarie, svoltesi in pieno Nazareno nazionale, era andato a sostegno della Paita.
È, ad esempio, il caso di Andrea Costa, sindaco di Beverino (La Spezia), che alle primarie aveva aiutato la Paita ed ora è candidato nel listino di Toti. E di Alessio Saso, ex An, e capogruppo di Area Popolare che, dopo aver fatto votare la Paita alle primarie, è candidato di Ncd a sostegno di Toti.
Proprio l’accordo tra Toti e Area Popolare, su cui ha lavorato molto da Roma Lorenzo Cesa e la risurrezione di una coalizione di centrodestra, toglie truppe e voti al Partito della Nazione.
Il sugello dell’operazione di Berlusconi è la candidatura del nipote di Claudio Scajola, Marco, nelle liste di Forza Italia. E Scajola, a cui erano legati gli amministratori del Ponente che in una fase iniziale avevano contestato Toti, ha riacceso la sua non irrilevante macchina elettorale.
Domenica scorsa l’ex ministro ha chiamato alle armi lo stato maggiore dei suoi fedelissimi: amministratori, ex amministratori e figure storiche del centrodestra di Imperia per organizzare il sostegno al nipote.
Dunque, lo schema cambia. E se Berlusconi riesce ad alzare un muro a destra, inizia la frana a sinistra, dove Pastorino miete consensi, come effetto delle primarie inquinate e anche della campagna elettorale della Paita, molto poco in sintonia con il mood della sinistra e molto tarata sul “partito della Nazione”.
E’ una dinamica che va ben oltre la Liguria e su cui si misura la capacità dell’area a sinistra del Pd — di Civati e non solo — di poter rappresentare una alternativa a sinistra. La frana a sinistra in Liguria è consistente, tale da far scattare l’allarme rosso a Roma. Sono 200 i dirigenti del Pd ligure che firmano un documento per rivendicare “libertà di scelta” alle elezioni, a un mese dal voto.
Tradotto: che non voteranno la Paita.
La lettera, racconta più di un firmatario, è frutto di un malcontento profondo: brucia ancora l’immagine alle primarie di file di immigrati che non parlano una parola di italiano, elettori reclutati da aspiranti candidati, famiglie in odore di criminalità ai seggi; e brucia anche l’atteggiamento poco “umile” della Paita, nel frattempo raggiunta da un avviso di garanzia sulla vicenda dell’alluvione.
A proposito, proprio il suo comportamento durante l’alluvione ha suscitato più di qualche polemica dopo che Giovanni Toti, sulla sua pagina facebook, ha pubblicato le foto della Paita che, proprio il giorno dell’alluvione, era in campagna elettorale per le primarie.
Ci sono nomi pesanti tra i firmatari della lettera dei 200, come l’attuale vicepresidente della giunta regionale e assessore alla Sanità , Claudio Montaldo, l’ex segretario genovese Pds Ubaldo Benvenuti, i presidenti dei Municipi Valpolcevera e Medio Ponente, Jole Murruni e Giuseppe Spatola, e diversi altri nomi di spicco del partito ligure.
Dopo le firme, per la Paita sono arrivati pure i primi fischi, come al giro d’Italia di ciclismo.
Tutti segnali che indicano una dinamica nuova: il Partito della Nazione non sfonda a destra e perde a sinistra.
E nel Pd ora avanza la grande paura legata ai numeri. E al voto disgiunto: “In parecchi — sussurrano al Nazareno — voteranno Pastorino come candidato e Pd come lista”.
E qui già si intravede lo scenario da incubo per Renzi: l’impasse e la risurrezione del Nazareno.
Già , perchè in quella regione la legge elettorale prevede che, se nessuno raggiunge il 35 per cento, non scatta un premio di governabilità e i seggi si ripartiscono col proporzionale”.
Per governare potrebbe servire una coalizione Pd-Forza Italia.
E la Liguria, da test del Partito della Nazione, diventerebbe il test di un nuovo Nazareno.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 16th, 2015 Riccardo Fucile
DAI 30 GIORNI AI 6 MESI: CENTINAIA DI INGAGGI E REGOLE DIVERSE PER AGGIRARE OGNI CONTROLLO SINDACALE
Volontari, stage e contratti a tempo determinato, dai 30 giorni ai 6 mesi.
Ragazzi italiani selezionati da agenzie interinali e coetanei da ogni parte del mondo, arrivati a Milano con accordi siglati nei Paesi di provenienza.
Tra le eleganti vele bianche del decumano e le colorate installazioni di Expo 2015 vanno in scena tutte le formule possibili e immaginabili di gestione del lavoro, con variazioni di salario tra un padiglione e l’altro che arrivano fino al 30%.
Una situazione su cui si è impegnato a fare chiarezza il commissario generale di Expo Antonio Pasquino.
Entro fine mese presenterà un report in cui verranno indicati i Paesi che applicano i contratti più sfavorevoli e meno rispettosi del contratto italiano del settore fieristico, utilizzato per i dipendenti diretti di Expo
Paese che vai, organizzazione che trovi
La babele nella babele è quella dei lavoratori stranieri, con centinaia di ingaggi e regole diverse, che aggirano qualunque controllo sindacale.
Ognuno ha fatto come meglio credeva. Ci sono padiglioni che hanno preferito dotarsi di personale locale, altri si sono affidati alle agenzie interinali italiane. Paese che vai, organizzazione e trattamento dei lavoratori che trovi.
Nel giardino del Bahrain lavorano volontari del regno arabo tra i 20 e i 25 anni.
Qualcuno studia ancora, altri si sono appena laureati.
“Abbiamo ricevuto centinaia di curriculum per questa posizione — racconta il direttore del padiglione Khalifa Al Khalifa —. Alla fine abbiamo selezionato 24 giovani. Ogni mese si daranno il cambio in 4. Questa è una opportunità per viaggiare e imparare. Sono completamente spesati: dal volo aereo, ai pasti, fino all’alloggio. Abbiamo affittato degli appartamenti in centro a Milano, così possono vivere al meglio la città ”.
Amal, 23 anni, testa velata e unghie laccate di fucsia, conferma sorridente.
Si è appena laureata in management, a giugno tornerà in Bahrain e ha già un paio di colloqui di lavoro fissati.
Intanto si gode l’esperienza: quando finisce il turno ama girare per Milano, mentre nel giorno libero settimanale a cui ha diritto organizza gite a Venezia o in Svizzera.
Prevalenza di personale autoctono anche per l’Olanda.
Tra i ragazzi che si aggirano per il coloratissimo padiglione molti sono studenti universitari di Turismo o Comunicazione, arrivati con borse di studio da uno a tre mesi. Tutti sanno già con precisione la durata del loro lavoro.
Le graziose ragazze thailandesi sono le più fotografate dai visitatori. Indossano copricapi tipici e sono quasi tutte studentesse universitarie, come Sirini, 23 anni da Bangkok, studia inglese e storia dell’arte e si fermerà a Milano per tre mesi, “ma forse anche un po’ di più”.
Si definisce volontaria, poi precisa di percepire una retribuzione, ma non riesce a fare una conversione in euro del compenso ricevuto.
Idee più chiare per chi è stato assoldato dal Messico. Una ragazza dice di guadagnare circa 1.100 euro per un part time da 30 ore settimanali e si fermerà a Milano fino a fine luglio.
Tra i fiori e le spezie dell’Iran, alcune hostess lamentano condizioni di lavoro poco chiare.
Sono state reclutate direttamente dall’organizzazione del padiglione e sono tutte di madre lingua persiana, ma parlano anche italiano e inglese. “Lavorare a Expo non è stata cosa facile —raccontano- le selezioni sono state dure. Per fare domanda bisognava avere qualche conoscenza.
Abbiamo dovuto avere l’ok pure dal consolato. A manifestazione iniziata ci hanno prospettato compensi deludenti, sono arrivati a proporci 50 euro al giorno per 12 ore di lavoro, quasi sempre in piedi. Non abbiamo accettato. Dovremmo aver raggiunto un altro accordo, ma non è ancora sicuro. Speriamo che entro fine mese si risolva tutto. Questa è una bellissima opportunità , non vogliamo abbandonarla”.
Più certezza del domani nel padiglione russo. “Alcuni di noi sono stati ingaggiati dalle Istituzioni, altri lavorano per un’agenzia di Pr che ha sede a Milano, Mosca, Londra e Dubai —spiega la responsabile della comunicazione Maria Yudina- Le nostre 32 hostess sono tutte russe, ma residenti in Italia. Sono state contrattualizzate da un’agenzia milanese per tutti i sei mesi dell’evento”.
Un po’ di confusione serpeggia invece nel padiglione cinese.
Qui il team di lavoro ampio e variegato come il Paese ospitante.
Gli italiani sono parecchi. Alcuni sono arrivati con stage universitari curriculari, altri tramite agenzia. Altri ancora, sia italiani che cinesi, si definiscono volontari. Il personale dei negozi di souvenir è arrivato tutto dalla Cina. Ragazzi e ragazze dispensano ampi sorrisi, parlano di “exciting experience”, ma divagano sui compensi.
Quasi impossibile trovare una durata di lavoro uguale a un’altra.
C’è chi si ferma fino alla fine dell’esposizione, chi un mese o poco più, chi tre. A sera una ragazza italiana saluta una collega cinese: “Ci vediamo domani allora”. “Oggi sono venuta per fare una traduzione. Non so se sarò qui nei prossimi giorni, non ho ancora capito”, risponde con un po’ di amarezza.
E gli italiani?
Il tema lavoro ha già acceso parecchio il dibattito su Expo 2015, ma scattare una fotografia dei metodi di recruiting e contrattualizzazione dei ragazzi italiani è più facile. Quasi tutti sono stati selezionati da agenzie interinali e gli stipendi vanno in media dagli 800 ai 1300 euro netti, a seconda delle ore lavorate.
I turni sono in prevalenza organizzati su sei giorni con recupero infrasettimanale. Qualcuno ha diritto anche a buoni pasto o riduzioni nei ristoranti convenzionati. I contratti applicati sono soprattutto quelli multiservizi e del commercio, con riconoscimento della 14esima mensilità .
“La polemica sul precariato è abbastanza sterile- commenta a Huffpost , Andrea Malacrida Direttore Commerciale di Adecco Italia, agenzia di lavoro temporaneo che per Expo ha già reclutato 550 persone – È normale che in un evento di sei mesi i contratti siano a tempo determinato. Così come è fisiologico che alcuni contratti siano inizialmente siglati per uno o due mesi. Stand e padiglioni devono capire quale sarà l’afflusso reale di visitatori e calibrare di conseguenza il proprio personale”.
Un capitolo a parte va dedicato alla controversia tra i sindacati e Manpower Solutions.
La partecipata di Manpower, agenzia interinale che ha vinto la gara per il personale dell’Esposizione di Milano, ha applicato a 800 lavoratori dei padiglioni non firmatari dell’accordo del luglio 2014 i contratti del commercio Cnai e non quelli dei confederati. “Questo tipo di contratto non può che essere definito “corsaro” —spiega Antonio Lareno della Cgil- In busta paga vengono riconosciuti circa 5 euro, non c’è la 14esima mensilità , i festivi hanno una maggiorazione del 6% e non del 30%”.
Dopo un braccio di ferro durato settimane, Manpower si è impegnata a trovare un accordo e ha fatto sapere, tramite nota, di aver “sempre operato nel rispetto della normativa vigente, con contratti di lavoro depositati presso il Cnel”.
L’intesa è arrivata durante l’Osservatorio Expo di venerdì 15 maggio. I contratti precedenti sono stati annullati e anche agli 800 lavoratori sarà applicato il contratto multiservizi.
“Speriamo vada tutto bene”
Al di là delle polemiche, i ragazzi che lavorano nei padiglioni di Expo sembrano entusiasti. Per tutti il valore aggiunto è la possibilità di fare un’esperienza particolare e conoscere nuove persone da ogni parte del mondo.
Qualcuno è contento del compenso: “Con quello che c’è in giro oggi —commenta Maria in forza al cluster Bio-Mediterraneo- questo è un trattamento più che buono”; altri preferirebbero “guadagnare un po’ di più”. I più avveduti aspettano la prima busta paga “per dirsi davvero soddisfatti e controllare che sia tutto ok, soprattutto gli straordinari”.
Anche per gli italiani, il padiglione a cui si è stati affidati fa la differenza, perchè il trattamento può cambiare completamente da Paese a Paese.
Riscontri molto positivi arrivano, ad esempio, dalle ragazze arruolate dal Principato di Monaco.
Un po’ di insofferenza per qualcuno alle dipendenze della rigorosa Germania. L’età media dei lavoratori dei padiglioni Expo è 25 anni, ma c’è anche chi ha passato la giovinezza da un pezzo. Come Mario (nome di fantasia ndr), 45 anni dalla provincia di Milano, papà di due bambini e cassaintegrato da una piccola azienda in cui ha lavorato per più di 10 anni.
“Lo hanno criticato in tanti, ma per me questo Expo è stato una manna. A suo modo è stata un’occasione per ricominciare. Speriamo vada davvero tutto bene”
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 16th, 2015 Riccardo Fucile
DOPO LA RIVELAZIONE SUGLI 8.465 POLIZIOTTI E CARABINIERI IMPIEGATI NEGLI ULTIMI DUE MESI PER PROTEGGERLO NELLE SUE PROVOCAZIONI, OGGI SALVINI FA MARCIA INDIETRO: HA PAURA DI RIMANERE SENZA SCORTA?
Ieri il ministero dell’Interno, chiamato in causa da Salvini sulla sua “mancata protezione” ha risposto con un comunicato asettico: “Dal 28 febbraio del 2015 a oggi, in relazione alle iniziative politiche dell’on. Matteo Salvini — che si sono svolte in 62 province — sono state impiegate 8.465 unità delle forze dell’ordine”.
A Salvini, aggiungono fonti di polizia, è assegnato un dispositivo di tutela di livello alto.
La scorta del leader leghista è consistente, circa 30 persone che ruotano su cinque turni.
Solo la sua sicurezza personale, quindi, costa allo Stato italiano una cifra vicina ai 120 mila euro al mese.
Il numero fornito dal ministero dell’Interno non racchiude nemmeno tutti gli agenti impiegati per il suo tour elettorale degli ultimi due mesi e mezzo.
Dagli 8.465 citati dal Viminale sono esclusi, per esempio, gli agenti dei reparti mobili: la cifra altrimenti sarebbe ancora più alta (basti pensare che solo per la manifestazione di Roma del 28 febbraio sono stati schierati complessivamente circa 4 mila agenti).
Dentro al conteggio, invece, ci sono le unità territoriali e quelle di rinforzo impiegate nelle varie fasi del servizio di sicurezza, che inizia ben prima dei comizi in piazza: quando Salvini arriva in una città , l’operazione di ordine pubblico comincia al casello autostradale e prosegue lungo un percorso “bonificato” (per il quale viene coinvolta, quindi, anche la polizia stradale).
Oggi Salvini, dopo la replica del Viminale, è tornato sui suoi passi e ha inviato un messaggio distensivo alla polizia: “Siamo sempre dalla parte delle forze dell’ordine. E vorremmo, noi per primi, che si occupassero di altro invece di esser costretti a seguire me nei comizi e negli incontri che legittimamente faccio”.
Ma se fosse così basterebbe che stesse a casa o che si facesse proteggere dalle sue guardie padane, ammesso che esistano.
Dopo i dati snocciolati da Afano, Salvini avrà avuto il timore che gli riducano la scorta?
L’unica volta che non ha allertato le forze dell’ordine a Bologna lo abbiamo visto scappare a gambe levate.
La sua esternazione a una cosa però è servita: conoscere quanto costa al contribuente italiano il clandestino padagno: 140.000 euro al mese, 280 milioni delle vecchie lire, tenendo impegnati 30 agenti ogni giorno.
Visto che parla sempre di tagli (per gli altri), Salvini dia l’esempio: cominci a tagliare la sua scorta.
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Maggio 16th, 2015 Riccardo Fucile
SETTEMILA LETTERE IN 48 ORE SOMMERGONO PALAZZO CHIGI
Matteo Renzi ha un nuovo problema con la riforma della scuola: trovare spazio negli uffici di Palazzo Chigi per le lettere ricevute dai docenti di tutta Italia.
Negli scorsi giorni il premier aveva deciso di scrivere agli insegnanti per provare a spiegare il contenuto del tanto contestato ddl “buona scuola”.
In appena 48 ore alla presidenza del Consiglio sono arrivate oltre settemila risposte. Quasi tutte negative.
Molte riguardano i criteri delle 100 mila assunzioni, che sono riusciti a non accontentare nessuno.
Ma c’è chi protesta per i poteri affidati ai “super presidi”, le detrazioni concesse agli istituti paritari, e la valutazione dei professori.
Agli insegnanti della riforma non piace praticamente nulla. E tanti hanno deciso proprio di rispedire al mittente la missiva ricevuta.
“Caro presidente, la ringrazio per averci scritto e per aver voluto semplificare i concetti”, scrive Anna Elisa Carrisi. “Ma stia sereno. Noi docenti non abbiamo bisogno di schemi alla lavagna per comprendere la sua riforma”.
“La sua lettera è perfettamente inutile: non siamo stupidi, siamo perfettamente in grado di valutare ciò che vediamo realizzarsi sotto i nostri occhi”, aggiunge Catia Di Camillo.
La lettera e la lezioncina alla lavagna sono servite a poco.
La delusione nella scuola italiana è molto alta: e per ribadirla tanti docenti hanno deciso di pubblicare su Internet, sui social network o siti specializzati (come Orizzonte Scuola) le risposte indirizzate al premier.
Così il dialogo sulla riforma della scuola si sta trasformando in una corrispondenza fitta e tutt’altro che amorosa.
Il dibattito più acceso è sulle assunzioni.
Dagli abilitati del Tirocinio formativo attivo (Tfa) a quelli dei Percorsi abilitanti speciali (Pas), sono centinaia di migliaia i precari che resteranno fuori dal piano di assunzioni. “Sono una ‘giovane’ insegnante di 33 anni — scrive Vincenza Morfeo — ma non so quanto sia esatto l’aggettivo, dettato dal momento storico e dalla precarietà a tempo indeterminato che ci imponete. Io ho superato tre prove selettive per prendere il titolo del Tfa, ora forse resterò disoccupata. Ma con questo non voglio dire che chi verrà assunto non lo merita. Non cadrò nel trabocchetto squallido di voi potenti, che cercate di scatenare una lotta fra poveri per spaccare la scuola”.
Marta Collina il premier l’ha anche conosciuto di persona: era una delle “contestatrici” ricevute da Renzi a Bologna.
E forse per questo è ancora più delusa degli altri: “Caro presidente, non le credo più. Mi aveva giurato che avreste tolto la facoltà del dirigente scolastico di poter assumere su classi di concorso per le quali non si possiede l’abilitazione. Invece è ancora lì”.
Ma sono un po’ tutti i punti della riforma ad essere contestati.
“Caro Renzi, se lo lasci dire da un’insegnante che nelle private ha insegnato per anni. Gli sgravi per le paritarie sono ingiusti, perchè tante famiglie non hanno più nulla da cui detrarre. È un aiuto per chi non ha bisogno di aiuto”.
I poteri discrezionali affidati ai presidi fanno paura: “Presidente, una buona scuola dev’essere innanzitutto giusta. Io voglio punteggi certi e uguali per tutti, voglio l’assegnazione di cattedre in maniera trasparente, non arbitraria”.
Per non parlare dello spauracchio della valutazione dei docenti: “Ci chiedete di essere giudicati? Ma valutatevi voi prima, riformate la politica, fatevi scegliere voi. E poi parliamo di come scegliere gli insegnanti”.
La corrispondenza si è trasformata nell’ennesima forma di protesta perchè in fondo i professori non credono alla buona fede del governo.
“Presidente, la smetta di intasarci la casella di posta. Dite di volerci ascoltare ma non è vero: abbiamo scritto per mesi, abbiamo partecipato alle consultazioni e ai dibattiti. Vi abbiamo detto forte e chiaro cosa non ci piaceva”, afferma Rosalinda Lo Presti.
“La verità è che a lei e ai suoi ministri ascoltare non interessa. Voi al massimo ‘sentite’, ma è un’altra cosa”.
Chissà se Renzi deciderà di rispondere.
Lorenzo Vendemiale
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 16th, 2015 Riccardo Fucile
INTANTO LA MAGGIORANZA VOTA SPEDITA LA BUONA SCUOLA (E VA SOTTO)
La parola d’ordine che circola in piazza del Pantheon, a Roma, dove Cgil, Cisl e Uil hanno convocato un sit-in, è netta: “Stavolta alle Regionali il Pd deve pagarla”.
Non si tratta di estremisti o di funzionari sindacali.
Sono insegnanti, magari i più presenti in tutte le iniziative di piazza, ma insegnanti.
Il sit-in è stato convocato dalle rappresentanze regionali dei sindacati che hanno indetto lo sciopero del 5 maggio ed è stato utilizzato come occasione per incontrare i parlamentari nelle stesse ore in cui sono impegnati a votare il ddl che riforma la scuola.
Ieri, le votazioni sono andate avanti spedite e sono stati approvati i primi articoli. In serata, dopo il sit-in, la votazione è proseguita anche se la maggioranza è andata in confusione su un emendamento tecnico, facendo andare sotto il governo.
Da parte sua, in mattinata, Matteo Renzi, ha ribadito la linea del dialogo che non modifica nulla ribadendo il “no” allo stralcio di un decreto per assumere subito i precari e rinviare la parte generale della riforma.
In piazza si fanno vedere le opposizioni: Sel, con il capogruppo Arturo Scotto, il M5S con il suo Alessandro Di Battista rincorso da fotografi e tv, Paolo Ferrero del Prc ma, soprattutto, la minoranza Pd.
Presente in massa con Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, Guglielmo Epifani, Barbara Pollastrini, Nico Stumpo e altri.
C’è “l’autonomo” Pippo Civati, anch’egli bersagliato dalle telecamere. E ci sono due inviate della maggioranza Anna Ascani e Simona Malpezzi.
Quest’ultima viene assediata da diversi docenti e contestata animatamente. Lei risponde, da sotto il palco, ma non prende la parola in piazza e dopo dieci minuti dall’inizio della manifestazione va via.
Eppure da quella piazza il Pd è stato ampiamente votato. Non si tratta di estremisti ma, come dice il segretario regionale della Cisl dal palco, di una categoria “letteralmente inferocita”.
Che abbiano creduto nel Pd lo si capisce dalla fatica che fa Alessandro Di Battista a difendersi dall’accusa di non aver appoggiato il tentativo di Pier Luigi Bersani nel 2013 oppure, paradossalmente, di essersi “fatto espellere dall’aula” e, quindi, di non aver potuto votare contro i provvedimenti del governo.
“Non prendetevela con me, prendetevela con il vostro partito” risponde lui quasi seccato, ma il dialogo restituisce il paradosso di questa piazza.
Un’altra insegnante di avvicina a Fassina: “Questa legge è invotabile”. E lui: “Infatti, non la voto”. “E poi, che facciamo?”. Fassina la sua scelta l’ha già fatta e la ripete ai Tg: “Se non ci saranno modifiche a questa legge non la voterò e uscirò dal Pd”.
E allora la docente abbassa la voce e gli dice in faccia: “Va bene, usciamo, ma deve essere una cosa ben organizzata”.
Le varie opposizioni che si ritrovano attorno alla chiamata dei sindacati di organizzazione non ne dimostrano molta.
La piazza sembra una sorta di Hyde Park, a ogni angolo c’è un leader in gestazione — Civati, Fassina o Di Battista — che anima intorno un piccolo talk show.
Tra loro, però, non si parlano. A un certo punto passa anche Marco Pannella, la sede dei radicali è dietro l’angolo, si ferma a parlare con gli insegnanti e ad ascoltare i comizi.
Dal palco si alternano le voci degli insegnanti, dei sindacalisti e dei politici. La convergenza sul merito è totale: questa legge andrebbe ritirata e riscritta da capo, ascoltando davvero gli insegnanti.
Invece, in aula, si va spediti come un treno. Ieri sono stati approvati i primi tre articoli e di aperture alle minoranze non se ne sono viste. La parte più delicata deve ancora venire.
Fassina, ad esempio, ha presentato tre emendamenti-chiave sulla chiamata diretta dei docenti, sul piano pluriennale per le docenze e sul 5 per mille.
Questo potrebbe essere il punto che, almeno fino ad oggi, il governo potrebbe rivedere per andare incontro alle richieste di chi dice che finanziare le singole scuole significherebbe creare istituti di serie A e di serie B.
Ma anche per andare incontro alle proteste delle associazioni no-profit che si vedrebbero togliere una parte dei loro finanziamenti.
Dal fronte sindacale viene assicurata continuità nella mobilitazione.
Già lunedì 18 maggio si terranno assemblee nelle scuole e cortei nelle varie città al pomeriggio. Il 19, poi, ci sarà un appuntamento, che si annuncia “rumoroso” davanti a Montecitorio.
Il sindacato sembra non spaventarsi nemmeno davanti alle minacce di precettazione che sono giunte in relazione all’eventuale blocco degli scrutini.
“Noi sciopereremo anche nel periodo degli scrutini”, dice Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil. Come proseguirà la mobilitazione, in ogni caso, sarà definito dopo il voto delle Regionali.
Lì si vedrà se l’effetto della protesta degli insegnanti sarà stato rilevante e se Matteo Renzi avrà o meno l’intenzione di ascoltarlo.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 16th, 2015 Riccardo Fucile
L’AVV. BESOSTRI: “RICORSI IN TUTTE LE 26 SEDI DI CORTI D’APPELLO”
“Anche la nuova legge elettorale è incostituzionale, dobbiamo portarla davanti alla Corte costituzionale al più presto promuovendo ricorsi in tutta Italia”, dichiara l’avvocato Felice Besostri, uno dei legali che dopo sette anni di battaglie riuscirono a far cancellare dalla Consulta il famigerato “Porcellum”.
Besostri ha ricevuto l’incarico di impostare la strategia giudiziaria contro l’ “Italicum” dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, network di associazioni, comitati e giuristi che ha deciso di intraprendere in parallelo anche la via del referendum abrogativo.
“In tutte le 26 sedi di Corte d’appello italiane” — spiega Besostri — “come cittadini-elettori presenteremo ricorsi alla magistratura, confidando di trovare almeno un giudice che rinvii il fascicolo alla Corte costituzionale“.
L’iter potrebbe essere più rapido di quello contro il “Porcellum”.
“Dipende dai giudici, l’altra volta dovemmo arrivare fino in Cassazione, ecco perchè i tempi furono lunghi; questa volta ci prefiggiamo di arrivare a un rinvio alla Consulta entro la fine di giugno del 2016, prima cioè dell’entrata in vigore effettiva della legge”.
Nel frattempo il parlamento padre dell’ “Italicum” e figlio del “Porcellum” dovrà nominare i due membri tuttora mancanti all’organico della Consulta, più un terzo in scadenza a luglio
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 16th, 2015 Riccardo Fucile
RENZI E MOGHERINI SI FANNO RIDERE IN FACCIA DA RUSSI E AMERICANI
Nessuno ha il coraggio di dire “guerra”: ma è questo che stiamo per fare in Libia. L’ennesima guerra.
Difficile camuffarla da “missione umanitaria”, o da “esportazione della democrazia”, o da “soccorso dei civili” — le supercazzole escogitate per le guerre degli ultimi vent’anni, tutte con esiti catastrofici.
Quindi se ne sta cercando un’altra sufficientemente ambigua, per nascondere l’orrore e fregare la gente dei paesi coinvolti.
O meglio, dell’unico paese che ha già fatto sapere con certezza che parteciperà : l’Italia. Quanto agli altri, si parla di Gran Bretagna, Francia, Spagna, Malta (mai più senza), ma è tutto da vedere.
Così come un altro trascurabile dettaglio: contro chi la facciamo, questa guerra? Contro la Libia del governo islamico di Tripoli, che nessuno riconosce?
Contro la Libia del governo in esilio di Tobruk? Contro qualche tribù sfusa?
O contro l’Isis, che in Libia non schiera truppe regolari sul campo, ma solo miliziani libici autoarruolati in franchising e nascosti ciascuno in casa propria?
Si vedrà , le nostre volpi del deserto — Renzi, Mogherini, Pinotti e persino Alfano, trust di cervelli mica da ridere — ci faranno sapere. Forse.
Intanto la Mogherini è andata all’Onu, molto celebrata dai giornali italiani manco fosse il generale Rommel, e ha chiesto un mandato per destroy: affondare i barconi degli scafisti che traghettano i profughi da un capo all’altro del Mediterraneo.
Russi e americani, eccezionalmente compatti di fronte a tanta insipienza, le hanno riso in faccia.
Destroy se lo levi dalla testa: la Libia è uno Stato sovrano, anche se momentaneamente dotata di una mezza dozzina di governi, e difficilmente consentirebbe atti di guerra senza reagire.
Allora la Mogherini ha spiegato che vuole “destroy the business model”, il modello operativo dei trafficanti.
Altre risate rabelaisiane: se non è zuppa è pan bagnato.
Ora si cerca un compromesso sul verbo dispose: genericamente “eliminare” non si sa bene cosa, dove e come.
I russi ricordano che nel 2011 la Nato ebbe il mandato di aiutare i civili libici e poi lo usò per rovesciare Gheddafi, con il bel risultato che sappiamo.
C’è poi un’altra questioncella: Tobruk non vuole che l’Onu chieda il permesso a Tripoli, altrimenti riconoscerebbe un governo illegittimo; ma senza l’ok di Tripoli non si può fare nulla, a meno di entrare in guerra con la Libia, cioè di autorizzare una missione di terra, con migliaia di uomini e costi miliardari, molto superiori a quelli dell’accoglienza dei profughi.
L’ipotesi è radicalmente esclusa da Russia, Usa e paesi del Golfo Persico.
L’ultima trovata è mandare nei porti gli incursori dell’Esercito e della Marina per sforacchiare i barconi degli scafisti, che le nostre volpi del deserto continuano a chiamare “nuovi schiavisti”, incuranti del fatto che gli schiavisti costringevano gli africani a lasciare i loro paesi per imbarcarsi a forza verso l’Europa o le Americhe, mentre gli scafisti trasportano africani e asiatici che vogliono a tutti i costi emigrare in Europa.
Dunque, per quanto spregevole, il loro mestiere risponde a una precisa domanda di mercato che, finchè esisteranno guerre e carestie che mettono in fuga le popolazioni, qualcuno dovrà soddisfare.
Per ogni barcone bucato o distrutto, ne verranno costruiti altri dieci, magari ancor meno sicuri e dunque vieppiù pericolosi.
C’è poi un problemuccio pratico che nessuno dei nostri strateghi ha ancora considerato.
Fermo restando che, prima di distruggere un barcone, bisogna sincerarsi che sia vuoto per evitare di fare stragi ancor più devastanti di quelle che si dice di voler prevenire, come si fa ad accertare con satelliti e droni di ricognizione che un barcone che dall’alto sembra vuoto non è pieno di migranti nascosti nella stiva?
E come si fa a distinguere un barcone di migranti da uno di pescatori, visto che spesso gli scafisti sono pescatori che arrotondano il magro stipendio e usano, per pescare e per trasportare, gli stessi natanti?
Resta poi da spiegare come si possa impedire a un profugo in fuga da un paese in guerra, dunque con diritto d’asilo, di imbarcarsi per un Paese che lo conceda secondo tutte le leggi internazionali.
Ma questi, com’è noto, sono i sofismi dei soliti gufi che vogliono impedire al Caro Premier di tirare diritto per il Bene della Nazione, anzi dell’Umanità .
Basterà qualche minuscolo accorgimento per sistemare tutto.
In luogo degli sgradevoli destroy e dispose, l’Italia potrebbe suggerire all’Onu di usare il verbo riddle: letteralmente “bucherellare”, ma anche “indovinello” e “parlare per enigmi”.
Il modello è quello del trattato italo-etiopico siglato nel 1889 a Uccialli dal nostro ambasciatore col negus Menelik, che diceva cose opposte nelle versioni in lingua italiana e in lingua amarica: nella prima l’Etiopia diventava un protettorato italiano e la politica estera del Negus la decideva il nostro governo; nella seconda, Menelik poteva fare di testa sua quando pareva a lui.
Una furbata che consentiva a entrambi i governi di presentarsi come vincitori agli occhi dei rispettivi popoli.
Poi — sfumato l’effetto annuncio — fra Roma e Addis Abeba riesplose la guerra.
Ma i nostri strateghi sembrano ispirarsi anche al film La guerra lampo dei fratelli Marx, con Groucho protagonista nei panni del capo del governo di Freedonia, Rufus T. Firefly, un dittatorello pazzo, arrogante e anarchico che, dopo aver imposto una serie di leggi demenziali, fa scoppiare un conflitto con la vicina Sylvania.
Celebre e attualissima la battuta: “Può essere che Chicolini parli come un idiota e abbia una faccia da idiota. Ma non lasciatevi ingannare: è veramente un idiota”.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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