Maggio 10th, 2015 Riccardo Fucile
OBIETTIVO: “TROVARE UN SISTEMA PER LASCIARE L’ITALIA”
“Abbiamo dato loro panini, acqua, coperte e vestiti. Stiamo cercando di trovare una sistemazione, ma qualcuno dovrà dormire qui, in stazione Centrale”.
Eritrei, somali, siriani e pakistani: sono più di 150 gli immigrati arrivati a Milano negli ultimi giorni, senza cibo, acqua, soldi e vestiti.
Uomini, donne e bambini senza documenti, che sfuggono alle telecamere per paura di essere riconosciuti.
Gli unici che accettano di parlare lo fanno a volto nascosto: se venissero identificati, infatti, il loro sogno di lasciare l’Italia e raggiungere il Nord Europa svanirebbe. “Siamo stati derubati, picchiati e stuprati dalle guardie che collaborano con i trafficanti — racconta Russom, un giovane eritreo di 25 anni — Vorrei andare in Inghilterra, ma non so se ce la farò mai”.
Intanto, i volontari dell’associazione Cambio Passo li hanno accolti in zona Porta Venezia, all’aperto.
Ma, quando il numero di persone è continuato a crescere, hanno deciso di portarli tutti alla stazione Centrale.
“L’assessore Pierfrancesco Majorino è venuto qui a controllare la situazione — dicono -, ci ha fatto i complimenti per il lavoro che facciamo, ma non ha pensato di offrire beni di prima necessità . La situazione è critica da almeno un mese, anche per questo siamo venuti alla stazione, per far vedere che ci sono centinaia di persone costrette a stare per strada”.
I migranti più fortunati sono stati sistemati nel centro d’accoglienza di via Mambretti, messo a disposizione proprio dal Comune, dove potranno dormire su delle brandine. Gli altri cento hanno passato la notte sui materassini e le coperte date loro dai volontari.
“Per il momento li teniamo qui, da domani vedremo”, dicono.
Da una parte gli africani, fuggiti dalla povertà e dalla violenza.
“Anche sui barconi — spiegano — gli africani sono considerati migranti di serie b e stanno negli scompartimenti sotto, dove è più facile morire schiacciati o finire in acqua”.
I loro racconti parlano di mesi di viaggio, dalle città e i villaggi del Paese africano, passando per il Sudan e il deserto, pressati sui camion, senza cibo e poca acqua, fino alla Libia, dove si sono imbarcati per l’Italia.
Migliaia di euro spesi, rischiando la propria vita e subendo la violenza dei trafficanti, per poter raggiungere il nord Europa.
“Il viaggio costa da 4mila fino a 10mila euro — continua Russom — Sono venuto a Milano perchè è da qui che partono i corrieri per il resto dell’Europa. Vorrei raggiungere l’Inghilterra, so che non è facile, ma per il momento sono felice di essere arrivato”.
In un angolo sono stati sistemati anche una quarantina di siriani.
“Generalmente, loro hanno meno problemi di soldi — dicono i volontari — Chi riesce a uscire dal Paese lo fa perchè vuole fuggire dalla guerra e dalla dittatura, ma hanno maggiore disponibilità economica. I siriani poveri o i profughi di Damasco non possono permettersi di scappare”.
Se tra gli eritrei si vedono giovani senza scarpe o a torso nudo, infatti, tra i siriani ci sono donne dalle facce curate e ragazzi che indossano vestiti nuovi.
Ziad si avvicina, vuol raccontare la sua storia. Non rispecchia lo stereotipo del siriano fuggito dalla guerra: ha la carnagione chiara, capelli biondi, vestiti occidentali e l’iPhone in mano. Sembra più il membro di una band inglese. In realtà , Ziad suonava davvero in un gruppo rock, a Homs, fino a quando il regime di Bashar al-Assad ha iniziato a “perseguitarlo”.
“Ricordo ancora il nostro primo concerto — racconta — Il giorno dopo sono stato convocato dalla polizia che ha iniziato a chiedermi perchè suonavamo, cosa avevamo intenzione di fare, chi erano le persone che venivano ai nostri concerti. Noi volevamo soltanto fare musica”.
Per questo, Ziad racconta di aver passato 33 giorni in una sala per gli interrogatori, prima in mano alla polizia e poi ai servizi segreti: “Appena fai qualcosa che esce dai canoni imposti dal regime — continua il ragazzo — ti mettono nel mirino. È successo lo stesso con i ribelli del Free Syrian Army: appena è stato possibile sono stati accomunati ai jihadisti di al-Qaeda e Isis,diventando per tutti dei terroristi”.
Ziad racconta di aver attraversato il confine tra Siria e Turchia con il suo passaporto, di aver poi raggiunto la Grecia in nave e, da lì, di essersi imbarcato su un aereo Atene-Milano.
Tutti gli altri, però, hanno speso migliaia di euro per attraversare il deserto, raggiungere la Libia e imbarcarsi in una delle carrette del Mediterraneo.
“Non conoscevo le persone morte nell’ultimo grande naufragio — racconta Russom — Io sono stato fortunato perchè ho viaggiato in una barca con soli eritrei. Quando, invece, vengono mischiati eritrei e somali, la grande tensione e la sofferenza sfociano spesso in risse che provocano il ribaltamento delle barche”.
Chi riesce ad arrivare vivo a Lampedusa o sulle coste siciliane, dice Marzia D’Antino di Cambio Passo, “sogna di andare in Germania, Norvegia, Svezia o Regno Unito. Per fare questo, vengono qui a Milano, dove sanno di trovare i ‘trafficanti europei’, i passeur, che possono farli uscire dall’Italia”.
Gianni Rosini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 10th, 2015 Riccardo Fucile
FAVOREVOLI E CONTRARI IN EUROPA
Si respira ottimismo nelle grandi Cancellerie continentali sul progetto di Bruxelles di imporre ai governi europei un sistema di quote obbligatorie per la ripartizione dei migranti che sbarcano sulla nostra sponda del Mediterraneo.
Una vera rivoluzione all’insegna della solidarietà che sarà discussa mercoledì dalla Commissione europea.
In queste ore emergono nuovi dettagli sulla proposta di Bruxelles: non solo il testo conterrà da subito numeri vincolanti molto alti su quanti stranieri ogni Paese dell’Unione dovrà accogliere, ma per evitare che la norma venga annacquata dai governi contrari alla svolta la Commissione ha scelto di farla passare con una procedura d’emergenza che toglie il potere di veto a chi è contrario.
L’Agenda con le nuove politiche migratorie dell’Unione – rivelata ieri d Repubblica – è virtualmente divisa in due parti.
Tutto il pacchetto dovrà passare mercoledì in Commissione, poi la parte sulle quote, quella più urgente per i paesi ormai al collasso come Italia e Malta, seguirà un iter legislativo separato, più rapido.
Il resto delle proposte, come una nuova politica per l’immigrazione legale, la creazione di un “asilo europeo” e il rafforzamento delle frontiere Sud della Libia per bloccare i trafficanti, seguiranno l’iter normale, con tempi più lunghi e maggiori possibilità di contrasto da parte dei governi euroscettici.
Guardando a mercoledì, il primo passo, c’è ottimismo.
Per ora, raccontano dalle capitali gli ufficiali di collegamento con Bruxelles, nessuno dei 28 commissari europei si è schierato contro il pacchetto, solo qualche sottolineatura circoscritta.
E anche il rischio che un blocco di commissari si metta di traverso su chiamata dei paesi di provenienza sembra poco concreta.
Il perchè lo spiega un diplomatico di lungo corso: «Visto l’impegno diretto del presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, dei due vicepresidenti Timmermans e Mogherini e del responsabile per l’Immigrazione, Avramopoulos, è difficile che si crei una fronda in grado di diluire o bocciare il testo».
Se davvero l’Agenda passerà intonsa in Commissione, la parola passerà a governi edEuroparlamento.
E qui la parte quote si sgancerà dal resto del pacchetto grazie alla procedura d’urgenza. Entro un paio di settimane Bruxelles presenterà il testo legislativo vero e proprio.
Poi verrà “sentito” il Parlamento europeo, dove i numeri per l’ok alle quote saranno ampi: a favore il Pse, la stragrande maggioranza del Ppe (contrari l’Ump di Sarkozy e i conservatori polacchi) e i liberali.
Una maggioranza in grado di schiacciare l’estrema destra.
Infine la palla passerà al Consiglio, ossia ai governi. E qui la mossa di Bruxelles di imboccare la procedura d’emergenza prevista dal Trattato di Lisbona spiazza le capitali euroscettiche perchè la decisione, al contrario di quanto avviene di solito, non dovrà passare all’unanimità : si andrà a maggioranza e quindi nessun leader avrà il diritto di veto abbassando molto i rischi di un “no”.
I maggiori sostenitori delle quote sono Renzi e Hollande, come conferma il sottosegretario Sandro Gozi: «Non è più possibile che a pagare il costo dell’emergenza migratoria siano i soliti noti, serve una distribuzione dell’onere a livello europeo».
Anche Angela Merkel ha fatto informalmente sapere di sposare il meccanismo.
D’altra parte la Germania è il Paese che accoglie il maggior numero di migranti.
Ancora indecisa la Svezia, seconda nazione per numero di asilanti, all’inizio diffidente ma secondo il tam tam diplomatico in procinto di convincersi che il sistema funzionerà .
A favore anche gli altri paesi rivieraschi come Spagna, Malta, Grecia e Cipro.
Così come d’accordo tra gli altri saranno anche Belgio e Lussemburgo, piccole nazioni ad alto tasso migratorio.
Sul fronte del no i baltici e l’Europa dell’Est, a partire dalla Polonia e dall’Ungheria dell’estremista Orban, area geografica a immigrazione zero che non vuole farsi carico dei problemi altrui.
Un blocco che però non ribalterebbe la maggioranza e che si potrebbe sfaldare quando la Merkel si schiererà pubblicamente a favore della proposta.
Freddi i finlandesi e qualche altro Paese del Nord. Il grande no invece arriverà da Londra: David Cameron, fresco di conferma a Downing Street, è contrarissimo alle quote.
Ma senza diritto di veto avrà le armi spuntate e comunque potrebbe essere ammorbidito con un opting out, una complicata clausola che gli permetterebbe di sfilarsi dal sistema. Con queste premesse molti leader sognano di far entrare in funzione le quote prima di agosto, magari di sancirne l’avvio già al summit europeo del 25 e 26 giugno.
Come per le quote, un percorso più veloce sarà riservato alla missione Ue in acque libiche per intercettare e affondare i barconi dei trafficanti prima che carichino i migranti.
Ieri il ministro degli Esteri Gentiloni ha affermato che la Russia «è disponibile a collaborare» sulla bozza di risoluzione all’Onu. Palazzo di Vetro permettendo, anche in questo caso il sogno degli europei è di varare la missione al vertice di giugno.
Alberto D’Argenio
(da “La Repubblica”)
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Maggio 10th, 2015 Riccardo Fucile
LE MANOVRE DELLA BOSCHI E DI LOTTI ALL’OMBRA DEL CAPO… DIVERSI COME IL GIORNO E LA NOTTE, CIASCUNO CON LE PROPRIE TRUPPE
Alla cena di festeggiamento per l’approvazione definitiva della legge elettorale Italicum, all’Enoteca Lazio in via Frattina, a cento metri da Palazzo Chigi, lunedì 4 maggio, Maria Elena Boschi non si è fatta vedere, era in tv da Lilli Gruber di rosso vestita, come nell’aula di Montecitorio.
A brindare al successo del governo, di Matteo Renzi e della ministra c’erano i giovani deputati renziani, renzianissimi, anzi, boschiani.
La scena si è ripetuta la sera dopo, il 5 maggio, a casa della deputata Lorenza Bonaccorsi: altra festa, altri brindisi. Viva l’Italicum.
Segno del potere assoluto di Renzi, destinato a durare per anni. Condiviso con due persone al mondo: la madrina della riforma, Maria Elena. E il sottosegretario Luca Lotti, l’altro ammesso nell’Appartamento, come viene chiamato in codice il perimetro blindato di Palazzo Chigi in cui vive e lavora il premier, in cui si organizzano accelerazioni, colpi di mano, manovre di accerchiamento, il divide et impera nel Pd che ha distrutto quel che restava dell’antica Ditta post-comunista.
Fatto l’Italicum, andranno fatti gli Italici.
Il futuro partito renziano per ora è una galassia, un magma di rapporti non strutturati, di sintonie e di ambizioni generazionali.
È una corte con al vertice il Principe di Rignano sull’Arno e ai lati monna Boschi da Laterina e messer Lotti da Montelupo fiorentino, lei alla sinistra, lui alla destra, destinati a diventare rivali, perchè se oggi tutti sono diventati renziani, toccherà distinguersi in futuro tra boschiani e lottiani.
Boschi e Lotti sono diversi come il giorno dalla notte.
Solare, radiosa lei, donna di cuori e di copertine, la front woman mediatica del renzismo, ben più di un semplice ministro, il volto esterno del governo, l’unica ad avere voce in capitolo sulle scelte del premier.
Misterioso lui, presenza inevitabile ma invisibile, una sola intervista in quattordici mesi, con “Repubblica”, per parlare del 25 aprile, intento a coltivare la sua immagine alla Frank Underwood, potere e riservatezza.
Quando ha da far sapere qualcosa affida le sue confidenze al “Foglio”, che ha pubblicato una sua rubrica quotidiana sui mondiali di calcio del 2014 e nel gennaio 2015 la lista del Nazareno, ovvero l’elenco dei grandi elettori del Pd divisi per gradi di fedeltà alla vigilia del voto sul Quirinale.
Gentile e tanto onesta pare la Boschi, nelle apparizioni tv e nelle cene private in cui figura come ospite d’onore, maleducato ma di talento Lotti più ancora del suo leader, nella ormai famosa definizione di Ferruccio de Bortoli.
La Boschi ama presentarsi come una secchiona, fasci di carte sottobraccio, laurea con 110 e lode, Lotti è diplomato allo scientifico e si vanta: «L’ultimo libro l’ho letto quando avevo 12 anni, alle medie».
Eppure ha la delega alle celebrazioni, dalla Liberazione alla Grande Guerra, e i professoroni di storia si scomodano per riunirsi con lui.
Ai banchi del governo lei siede accanto alla poltrona (vuota) del premier, intenta a digitare con il pollice la tastiera del nuovissimo iPhone, comprato in fretta e furia il 31 gennaio perchè il precedente era andato in tilt, quel giorno si eleggeva il presidente della Repubblica e fu una mezza tragedia per la ministra restare qualche minuto senza telefono, per lei è un’appendice esistenziale, un flusso di coscienza.
Lui, il Lotti, compare all’improvviso alle spalle dei ministri, come un vampiro, un dracula biondo, che abbraccia, avvolge, rinfaccia.
Seduttiva Maria Elena, ruvido Luca: i due volti del Capo.
Complementari, dunque, ma anche in sottile competizione, mai venuta finora allo scoperto. Quando Graziano Delrio si è trasferito da Palazzo Chigi al ministero delle Infrastrutture, la Boschi ha spinto per nominare al suo posto una donna ex Cgil, la vice-presidente del Senato Valeria Fedeli, invece l’ha spuntata Lotti con Claudio De Vincenti, ex bersaniano ma a prova di fedeltà governativa e senza l’ambizione del predecessore di cui i lottiani dicono: «Delrio esiste per Matteo come persona, come capocorrente del renzismo è nulla».
Ma nuovo segretario generale è stato nominato il capo di gabinetto della Boschi Paolo Aquilanti, Lotti aveva candidato il capo del Dipartimento per la politica economica Ferruccio Sepe, conosciuto al tavolo del Cipe, e più ancora puntava sul vice-segretario generale Raffaele Tiscar, toscano e ciellino.
Niente da fare, ha vinto la Boschi. Uno a uno, equilibrio perfetto.
Storia ripetuta in settimana sul voto di fiducia sull’Italicum: la Boschi era perplessa, era convinta che la maggioranza aveva i numeri per resistere al rischio dei franchi tiratori, Lotti invece ha sostenuto la linea dura di Renzi, procedere a passo di carica con i voti di fiducia.
Presa la decisione, però, la ministra si è trasformata nella più efficace paladina mediatica del colpo di mano renziano.
C’è chi, estremizzando, sostiene che, nel casino organizzato delle tribù del premier, il renzismo si traduca in questo: c’è la Boschi, c’è il Lotti, ci sono i loro uomini, le loro zone di influenza.
Il regno della Boschi è al terzo piano degli uffici del ministero delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento in largo Chigi, che affaccia su via del Corso e sulla sede del capo del governo.
Ogni martedì mattina si riunisce lo staff: il capo dell’ufficio legislativo Cristiano Ceresani, consigliere parlamentare, ex braccio destro del ministro Gaetano Quagliariello, il consigliere giuridico Massimo Rubechi, livornese, l’uomo che nell’ombra materialmente produce i testi delle riforme, i capi dipartimento, il portavoce Luca Di Bonaventura, il collaboratore Davide Ragone. Molto ascoltati i costituzionalisti Augusto Barbera e Stefano Ceccanti.
Il territorio privilegiato della ministra sono le aule parlamentari. La rete dei funzionari e dei consiglieri, i quarantenni che costituiscono il serbatoio dei nuovi commis renziani da inserire nei ministeri al posto dei consiglieri di Stato, la rete costruita negli anni dai Catricalà . Paolo Aquilanti, il nuovo vertice burocratico di Palazzo Chigi, è uno di loro: classe 1960, funzionario del Senato, l’inventore dell’emendamento canguro che ha permesso il voto del Senato sull’Italicum.
Alla Camera la Boschi può contare sul drappello di giovani deputati, renziani della prima ora, trentenni alla conquista di Roma: l’aretino Marco Donati, destinato a occuparsi del tesseramento del partito, Edoardo Fanucci di Montecatini, il forlivese Marco Di Maio, l’uomo dei numeri che monitora per conto della ministra gli umori dei parlamentari del Pd.
In occasione del voto finale a scrutinio segreto sull’Italicum aveva pronosticato 335 voti favorevoli, sono stati 334.
Boschiani sono il sottosegretario Ivan Scalfarotto e il neo-Pd ex Rifondazione e Sel Gennaro Migliore. Con Maria Elena si tengono in contatto via WhatsApp.
E le chat di gruppo si moltiplicano: c’è quella del governo, quella della segreteria del partito, le due dei deputati (Renziani e Parlamentari 2.0).
I renziani si riuniscono la sera nei locali intorno a Montecitorio: da Laganà in via dell’Orso, all’Osteria del Sostegno, a ParmAroma in piazza Rondanini. Cene informali in cui si lanciano le parole d’ordine da far arrivare al corpaccione dei gruppi parlamentari: la candidatura di Sergio Mattarella al Quirinale, la fiducia sull’Italicum.
Il tam tam parte a tavola e poi arriva sui cellulari.
Lotti è più felpato. A cena si fa vedere anche lui, ma si occupa del partito e del governo. Raccoglie i transfughi delle altre correnti e degli altri partiti.
Il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli, l’uomo della riforma della Rai, era un fedelissimo di Dario Franceschini, oggi si proclama lottiano.
Lo stesso percorso del triestino Ettore Rosato, da Franceschini a devoto di Lotti, sarà ricompensato con il ruolo di capogruppo alla Camera.
È Lotti che sull’Italicum ha sfilato a Pier Luigi Bersani mezza corrente, il ministro Maurizio Martina, l’uomo dell’Expo, il milanese che fu pupillo di Filippo Penati Matteo Mauri, dopo aver convertito il presidente dell’Emilia Stefano Bonaccini e il sindaco di Bari Antonio Decaro.
È Lotti che curerà nelle prossime settimane al Senato il drappello di senatori amici di Denis Verdini pronti a soccorrere Renzi in caso di difficoltà . Il sottosegretario accumula posizioni e continua a collocare amici nei ministeri.
La new entry a Palazzo Chigi è Lorenzo Petretto, figlio dell’ex assessore al Bilancio della giunta Renzi, l’ennesimo fiorentino doc.
Lotti è il renziano che guarda a destra, scaltro nella campagna acquisti, la Boschi è attenta alla rive gauche.
«Lui è spietato, sembra D’Alema, lei è morbida, ricorda Veltroni», osserva un cultore delle stardust memories di Botteghe Oscure, indicando le piste di possibili divisioni.
Future, però. Perchè nel presente condividono le amicizie (i deputati toscani David Ermini, Dario Parrini, Francesco Bonifazi), le freddezze (non amano il gruppo romano ex rutelliano, compreso il ministro Paolo Gentiloni) e le antipatie (il sottosegretario Antonio Rughetti). Custodiscono la materia più rara in natura, la fiducia del premier Renzi.
Boschi e Lotti sono il governo nel governo, contano più di quasi tutti i ministri, sono il partito nel partito, superiori al numero due Lorenzo Guerini.
E sono il volto della fragilità più evidente di questi quattordici mesi di governo Renzi: l’impossibilità di costruire una classe dirigente che vada oltre la Corte fiorentina, l’impossibile (per ora) istituzionalizzazione di una leadership che continua a contare solo su se stessa.
E che va a sbattere su incidenti come la sentenza della Consulta sulle pensioni, almeno 5 miliardi di euro da trovare nelle prossime manovre.
Una sciagura per il governo Renzi, ma la sentenza è stata firmata dalla giudice Silvana Sciarra, votata dal Pd di Renzi e fortemente sponsorizzata dalla Boschi.
Per questo, dicono, dopo le elezioni regionali del 31 maggio la Corte dovrà trasformarsi in partito. Forse perfino con un nuovo nome: da Pd a Democratici, all’americana, anzi, alla toscana. Il Partito dell’Italicum.
Guidato da loro, s’intende: Matteo, Maria Elena e Luca. Il nuovo potere.
Marco Damilano
(da “L’Espresso”)
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Maggio 10th, 2015 Riccardo Fucile
DUE CHILOMETRI A PIEDI PER RAGGIUNGERE I PRIMI PADIGLIONI… POCHE PANCHINE E CESTINI, ZERO FONTANELLE… C’È CHI SI SENTE MALE DAL CALDO, POCHISSIMI I SERVIZI
Ha rispettato i tempi di apertura: il primo maggio. Le buone notizie per Expo finiscono qui.
Oltre l’ingresso, quando si arriva in questa estrema periferia milanese, c’è il nulla.
Per intravedere qualche padiglione si devono percorrere circa due chilometri a piedi. Bisogna attraversare un ponte sopraelevato su strade e ferrovie. A metà un signore si sente male. Lui e la moglie cercano una panchina. Non ce ne sono. Non gli resta che accasciarsi a terra. La signora chiama il 118.
“Capita ogni giorno”, minimizza il personale medico del presidio allestito a Expo. “Un colpo di calore, stia tranquillo”, gli dicono adagiandolo sulla lettiga.
La moglie chiede dove trovare dell’acqua.“Tra i padiglioni”.
Ma la ricerca è forse volutamente in linea con il progetto: in una cattedrale nel deserto abbeverarsi non può essere facile. E infatti non lo è.
Quant’è difficile riuscire a dissetarsi
Degli oltre 200 ristoranti e punti vendita nell’area di circa quattro chilometri, solo una ventina vendono acqua. E i distributori gratuiti sono pochi, ne incrociamo quattro ma l’organizzazione dice che ce ne sono 12. Ben nascosti.
Visibili, invece, i quattro info point. Il primo è appena superato il ponte. E qui c’è anche qualche panchina. Anzi: le uniche sono qui. Ma sotto il sole.
Gli alberelli che dovrebbero fare ombra sono stati piantati troppo di recente. Sulle panchine si riposano i volontari. Che sembrano più turisti che guide. Angelo e Maria, per dire, sono due pensionati di 68 e 63 anni. Si danno un gran da fare.
“Io parlo tedesco, mio marito inglese e siamo pochi a conoscere lingue”, dice lei.
Non hanno dubbi sul perchè valga la pena lavorare gratis: “La prima settimana abbiamo visitato i padiglioni, ce ne sono alcuni veramente bellissimi” e poi, aggiunge Angelo, “non siamo obbligati a esserci sempre e per sei mesi”.
Mi mettono la piantina di Expo in mano e mi suggeriscono di arrivare al padiglione di Slow Food “è bellissimo”.
Lo indicano ma è troppo lontano, non si vede. “Vada in fondo, lo trova”.
In fondo è a un altro chilometro e mezzo dal padiglione zero, quello che dovrebbe essere l’ingresso ufficiale a Expo posto all’inizio di un corso che chiamano “decumano” e attraversa tutta l’esposizione.
Lungo questa camminata si intravedono da entrambi i lati tutti i padiglioni.
Brasile, Cile, Kazakistan, Russia. È tutto asfalto.
Ma l’intero percorso è sovrastato da gigantesche vele che garantiscono ombra. Di panchine neanche a parlarne, così come le indicazioni: zero.
Una professoressa di una scuola media di Rovigo aggiunge un’altra mancanza: spazi pic-nic o aree verdi per i bambini.
“Sa dove possiamo far fare merenda?”, chiede a un volontario. E la risposta è un silenzio pensoso seguita da: “O lontano da qui o intorno all’albero della vita dove trova dei seggiolini”.
L’albero della vita, simbolo incompiuto di Expo, è attorniato da sedute rosse rotanti in equilibrio instabile che si rivelano una delle attrazioni più quotate perchè è una sorta di gioco: prova a sedertici. Ma i bimbi apprezzano. Il gioco. Le maestre meno l’assenza di aree verdi.
Di scolaresche qui ne arrivano tantissime. È uno dei pochi dati certi che Expo ha tra le mani: le visite delle scuole sono tutte organizzate in anticipo.
Eppure riusciamo a estorcere un numero approssimativo: tra i due e i quattro mila studenti al giorno. Di dati la società non vuole darli.
L’amministratore delegato Giuseppe Sala preferisce non divulgarli per evitare analisi ritenute inutili.
Eppure, a ormai una settimana dall’inaugurazione, sarebbe necessario fornire qualche cifra anche per confrontarla con le stime.
Di persone comunque ce ne sono. L’area è vastissima. Ci sono padiglioni letteralmente presi d’assalto, come quello Inglese, mentre altri sono deserti. Ma più che per reali meriti per la teoria delle masse di Freud: si segue la calca.
Anche perchè non ci sono indicazioni, così come non si sa cosa si troverà all’interno delle singole esposizioni.
Ogni padiglione è un uovo di pasqua. A sorpresa. Alcuni sono ancora vuoti. Come quello dell’Unione Europa, fino a venerdì transennato e con ancora operai e ruspe al suo interno.
Ieri miracolosamente terminato e inaugurato per il National day alla presenza del presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz.
Le aree di Oman, Indonesia e Turkmenistan sono ancora da concludere. Erano in carico all’Italia e i Paesi hanno già protestato .
Anche la Sicilia ha avuto da ridire. Lo stesso padiglione Italia ha ancora una parte incompleta e inagibile: il tetto cui si accede dal ristorante.
C’è una guardia a fermare chiunque tenti di passare. E si capisce il perchè: la vista da qui è bellissima. Se si guarda all’esterno. Bel terrazzo panoramico, peccato sia inarrivabile
All’interno lo sguardo è costretto a incrociare impalcature, pavimenti ancora da fare, quadri elettrici e tubi in bella mostra e da concludere.
Per carità : prima o poi anche questo ultimo piano sarà terminato e si potrà accedere al terrazzo. Così come prima o poi arriveranno le panchine, saranno installati più punti acqua. E prima o poi l’area sarà disseminata di cestini per i rifiuti, arriverà anche una segnaletica per i padiglioni con informazioni e indicazioni precise.
Così come saranno rese operative le navette elettriche, magari a chiamata, e non ci sarà solamente il bus che passa regolarmente l’area esterna ai padiglioni e va a senso unico: se salti una fermata devi rifare l’intero giro.
Insomma: prima o poi sarà tutto perfettamente funzionante e funzionale.
E poi insomma Expo a Milano quando mai ricapiterà ? Quindi per ricordo moltissimi visitatori vogliono comprare un souvenir.
Magari la maglietta che hanno i volontari, il loro zainetto, il cappellino, una tazza con scritto Expo 2015. Insomma: un gadget.
Ma è inutile cercare il negozio: non c’è. O meglio: lo spazio è indicato come “temporany shop” ma è un telo bianco attaccato alle transenne dietro le quali non è ancora stato costruito nulla.
La gara d’appalto vinta da Rinascente è finita al Tar su ricorso di Coin e il tribunale ha costretto Expo a rifarla in fretta e furia.
È finita con una sorta di accordo: uno vende all’esterno e l’altro all’interno.
Se non si chiudeva così, all’italiana, il negozio non avrebbe visto la luce prima della fine di Expo.
Ma anche lui aprirà e venderà gadget. Prima o poi.
Davide Vecchi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 10th, 2015 Riccardo Fucile
E’ INDAGATO PER PECULATO NELL’INCHIESTA SU RIMBORSOPOLI
Il 2015 è l’anno in cui Gian Mario Spacca, sessantaduenne dalla chioma ormai canuta, festeggia nelle Marche, la sua regione, le nozze d’argento con la poltrona.
Un quarto di secolo o cinque lustri, se preferite.
E per dare l’idea di quello che è successo qui, in questo lembo placido e operoso del Paese, incline più al silenzio che al rumore mediatico, è forse utile fare un paio di paragoni.
È come se l’ex comunista ingraiano Antonio Bassolino, cinque anni fa, si fosse candidato governatore in Campania con la Forza Italia di Nicola Cosentino.
Oppure ancora che il bersaniano Vasco Errani, in Emilia Romagna, si fosse schierato con la Lega.
Ecco, nelle Marche è successa una cosa del genere. Consigliere e assessore regionale per 15 anni, dal 1990, poi governatore per il centrosinistra dal 2005 a oggi, il prode Spacca, democristiano di estrazione morotea, come l’attuale capo dello Stato, si ripresenta come candidato-presidente con il sostegno dei suoi nemici di ieri, Forza Italia e il centrodestra alfaniano.
È l’ultima frontiera del cosiddetto modello Marche, che lo stesso Spacca inventò per escludere la sinistra radicale dalla sua coalizione e introdurre il cavallo di troia centrista degli ex dc.
Le Marche sono la regione di Diego Della Valle ma il vero potere industriale che conta è quello dei Merloni di Fabriano, la dinastia degli elettrodomestici che tra l’altro ha mollato Indesit a Whirlpool.
I Merloni alla politica non hanno dato solo familiari (l’ultima è Maria Paola, ex montezemoliana e senatrice del Pd) ma anche loro uomini come Spacca, che nell’azienda ha ricoperto vari ruoli.
E pure adesso che ha rotto con il centrosinistra, diventando uno dei re dell’eterno trasformismo italico, Spacca è difeso dalla famiglia Merloni che ne ha lodato il “bel percorso”.
Talmente bello che il governatore uscente delle Marche, e aspirante rientrante con Forza Italia e Ncd, è scivolato su 51mila 727 euro e 16 centesimi di scontrini e fatture. Rimborsopoli alla Regione.
Spacca è infatti indagato, con altri 65 tra consiglieri e addetti ai gruppi, per il reato di peculato.
Alla procura di Ancona la chiusura dell’inchiesta c’è stata tre mesi fa, a febbraio, e in cento pagine c’è la radiografia dello sperpero di un milione e 200mila euro in quattro anni, dal 2008 al 2012.
Spese pazze e facili
Un consigliere dei Comunisti Italiani, per esempio, si è fatto rimborsare 16,80 per il volume intitolato Il segreto delle donne. Viaggio nel cuore del piacere. Un libro sull’orgasmo femminile che il consigliere ha giustificato in quanto “fondatore della commissione Pari opportunità ”.
Spacca, invece, si è librato molto più in alto, sulle ali della sapienza, e nelle spese non documentate a sufficienza del 2009 ha inserito la stampa di ben 55mila copie del periodico filosofico-culturale Koinè. “Estiqaatsi”, direbbero gli indiani d’America.
Non solo, tra cene per compleanni e onomastici, le spese di spedizione di un altro periodico, stavolta più terra terra, e cioè Marche Domani, c’è una consulenza professionale data da Spacca, nel 2012, per oltre 10mila euro.
“Spese facili e appropriazione indebita”, queste le parole dei magistrati.
Nel pattuglione di indagati della Rimborsopoli sono in tanti che, riciclatisi con il partitino alfaniano di Ncd, hanno seguito Spacca nella sua avventura di Marche 2020.
Come l’ex dipietrista dell’Idv nonchè attrice Paola Giorgi, che è indagata anche per truffa: “con artifici e raggiri” avrebbe ottenuto quasi 8mila euro di rimborsi chilometrici dichiarando di risiedere in un paesino, Matelica, quando invece il suo domicilio effettivo era ad Ancona.
Memorabile, poi, Paolo Eusebi, altro ex Idv oggi “spacchiano” che si è dovuto scusare per aver fatto pagare ai contribuenti le sue sigarette Merit.
Indagato, infine, pure il braccio destro del governatore, Vittoriano Solazzi, ex Pd e attuale coordinatore regionale di Ncd.
Il partito del biogas
Quando Spacca si è fatto il suo movimento coi centristi di Angelino Alfano (e alleandosi con Forza Italia), il Pd regionale ha definito Marche 2020 “il partito del biogas”.
Ironia della sorte, il segretario democrat delle Marche, che si chiama Francesco Comi, è indagato per Rimborsopoli.
Veleni incrociati a parte, qui si gioca una grande partita, tra lobby e politica, su 12 centrali partorite da una legge regionale bocciata più volte dalla Consulta e dal Consiglio di Stato.
Sull’affaire c’è un’inchiesta che ha accertato il pagamento di alcune tangenti alla burocrazia regionale. Il garbuglio di interessi per le prossime elezioni è milionario.
Nei sondaggi, in testa c’è il candidato del centrosinistra Luca Ceriscioli, dato al 38 per cento. Segue il grillino Gianni Maggi al 21. Solo terzo, al momento, l’uscente Spacca, con il 17 per cento.
Il governatore trasformista rischia il flop nonostante il simbolo di Forza Italia nella sua coalizione. Peraltro, è un tipo curioso e furbo questo Spacca.
Incassato il sostegno dei suoi avversari storici si è premurato di far sapere agli azzurri di non gradire l’arrivo di B. nelle Marche in campagna elettorale: “Non abbiamo bisogno del carisma dei leader nazionali”.
La solita Daniela Santanchè gli ha gridato contro: “Spacca vuole gli azzurri ma non Berlusconi. Mi auguro che non sia più il nostro candidato”.
Stavolta, però, Spacca ha ragione. Sarebbe stato troppo salire su un palco con Silvio Berlusconi e farsi fotografare con lui.
Anche il trasformismo ha i suoi limiti.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 10th, 2015 Riccardo Fucile
“DOVE C’E’ ALFANO NON CI SONO IO”… ARRIVA LA REPLICA: “MA COME, SE STAI CON NOI NELLA MARCHE E IN LIGURIA”
Solita provocazione di Salvini al Sud: questa volta tocca a Lecce dove raccoglie più uova marce che presenze in sala (meno di 100 persone), nonostante la mobilitazione della Poli Bortone, appoggiata dai leghisti nella sua corsa al governatore della Puglia.
Fuori oltre 250 contestatori di varia estrazione, tenuti a bada da decine di agenti italiani, pagati dai contribuenti italiami, per proteggere il clandestino padagno.
Che, per non smentire il suo noto coraggio, preferisce entrare, ultra scortato, da un ingresso secondario.
Poi un intervento in cui cerca di giustificarsi: “”Perchè Adriana Poli Bortone e non Raffaele Fitto? Perchè dove c’è Alfano non ci sono io”.
Patetico autogol e Alfano ci mette poco a replicare: “‘Salvini mai con Alfano?’ Salvini, oltre che ignorante, è pure bugiardo. In Umbria e in Liguria, ahinoi, è già con me… Toti se ne vanta anche, parlando di modello di unità … E non voglio nemmeno citare la Lombardia…”.
In un comunicato congiunto le varie sigle dei contestori sostengono che “Salvini
da decenni inneggia a deliranti aspirazioni secessioniste, offendendo l’Italia e in particolare il Sud e i suoi cittadini, quelli che senza mezzi termini vengono definiti terroni. Ebbene oggi il segretario del Carroccio viene in mezzo ai suoi odiati terroni nel tentativo di accaparrarsi i voti proprio di quelle persone che fino al giorno prima ha definito ladri, nullafacenti, e delinquenti. Ed è qui grazie alla sua alleanza elettorale con Adriana Poli Bortone, la ex fondatrice e leader di IO SUD, un’alleanza che risulta quanto mai antitetica, un ossimoro politico che va oltre il ridicolo”.
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Maggio 10th, 2015 Riccardo Fucile
HA RIMOSSO LE GANASCE ALLA SUA AUTO, PORTANDOSELE A CASA
Ha lasciato la sua Mercedes ML, parcheggiata in divieto di sosta insieme ad altre auto. Ma sul posto è arrivata una pattuglia dei vigili urbani che ha bloccato le auto con le ganasce alle ruote.
Non solo quindi una multa salatissima, come racconta il Corriere, ma anche l’obbligo di tornare a casa a piedi.
La cosa però non deve essere andata giù ai malcapitati che hanno pensato bene di togliere le ganasce e portarsele a casa.
Tra questi, rivela La Nazione, anche il figlio 25enne di Denis Verdini, che sarebbe stato denunciato per furto e danneggiamento.
L’episodio sarebbe accaduto venerdì intorno alle 22 e dopo alcune ore i vigili urbani avrebbero identificato, non senza qualche imbarazzo, i proprietari blasonati della Mercedes.
Così alcuni agenti municipali si sarebbero presentati nella villa del padre del giovane, il senatore Denis Verdini, raccontatogli i fatti.
Lui si sarebbe molto arrabbiato e avrebbe immediatamente chiamato al cellulare il figlio chiedendogli di tornare a casa.
La denuncia per furto è scattata perchè Verdini si è portato dietro i rottami delle ganasce, altrimenti ci sarebbe stata soltanto quella di danneggiamento e ovviamente una multa super salata.
(da “Huffingtonpost“)
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Maggio 10th, 2015 Riccardo Fucile
ROBA DA CHIEDERE ASILO POLITICO ALA REGINA
A poche ore dalla proclamazione dei risultati, in Gran Bretagna i tre leader sconfitti si sono dimessi e quello vittorioso ha già ricevuto l’incarico (reincarico, nel suo caso) dalla Regina.
Se fosse solo un problema di leggi, anche noi col brutale Italicum potremmo presto vantare lo stesso genere di chiarezza istituzionale.
In realtà le leggi contano molto meno dei caratteri e delle consuetudini.
Nemmeno il più perfetto dei sistemi metterà mai un italiano nelle condizioni di accettare l’esito del voto o indurrà gli sconfitti a dimettersi, dichiarandosi sconfitti anzichè «non vincitori».
E neanche la più straordinaria riforma costituzionale potrà bonificare la vergogna della composizione delle liste elettorali, che attingono a un personale politico scadente e spesso impresentabile.
L’infornata delle imminenti Regionali sembra un trattato sociologico sugli orrori della società : si va dal postfascista non pentito all’ex leghista che chiama i gay «culattoni», dal candidato in odore di camorra all’amico di Cosentino nella cui abitazione al momento dell’arresto fu trovato un fucile calibro 12.
Se poi si pensa che tutti questi begli esemplari convivono nello stesso partito e che questo partito è quello che esprime un presidente del Consiglio che ha messo la trasparenza e il merito ai primi posti del suo programma, ci sarebbe da chiedere asilo politico alla Regina.
O più banalmente da chiedere a Renzi di porre mano ai criteri di selezione della nuova classe dirigente, perchè un baraccone zavorrato da mediocri, riciclati e inquisiti rischia di mandare a fondo noi, ma anche lui.
Massimo Gramellini
(da “La Stampa”)
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Maggio 10th, 2015 Riccardo Fucile
L’ESITO DELLE URNE IN GRAN BRETAGNA POTREBBE SEGNARE LA FINE DEL PAESE E DELLA SUA ADESIONE ALLA UE
È ora di passare al Regno Federale di Gran Bretagna, altrimenti l’esito delle urne, il più sensazionale al 1945 ad oggi, potrebbe segnare l’inizio della fine della Gran Bretagna e della sua adesione all’Ue.
La sinistra nazionalista scozzese ha sbaragliato tutti a nord del vallo di Adriano, mentre la destra conservatrice euroscettica dà vita al nuovo governo britannico solo grazie al trionfo in Inghilterra.
Le due porzioni maggiori del nostro Regno sempre più disunito, l’Inghilterra e la Scozia, sono destinate alla discordia.
Intanto milioni di elettori che hanno votato i Verdi, i Liberaldemocratici e l’Ukip scoprono che il loro voto individuale non ha contato nulla, per via di un sistema elettorale iniquo.
Nei prossimi giorni quello che accadrà a Westminster sembrerà forse normale amministrazione. Un primo ministro conservatore etoniano resterà al 10 di Downing Street, formerà il nuovo governo e scriverà il discorso che la Regina terrà a fine mese alle camere dei Comuni e dei Lord riunite. Se scattate la foto in bianco e nero potrebbe essere il 1951 – o il 1895. In realtà , però, è cambiato tutto e drasticamente.
Nei prossimi anni i temi più scottanti saranno l’economia, l’impatto diseguale dei tagli alla spesa pubblica e il referendum sull’adesione della Gran Bretagna all’Ue, che si terrà prima della fine del 2017.
Ma nell’arco di vita di questo Parlamento sarà necessario ripensare in toto la struttura di questo paese.
Per quanto l’idea possa andare poco a genio al nuovo governo Cameron, la soluzione è il Regno federale di Gran Bretagna.
La rivoluzione silenziosa in Scozia esige un nuovo sistema in seno al quale ciascuna componente del regno eserciti poteri ben definiti.
Il nuovo Parlamento scozzese, che sarà eletto il prossimo anno, potrebbe in realtà essere meno dominato dal Partito nazionale scozzese (Snp) e più aperto a questa idea. (Il voto apparentemente contraddittorio nel referendum per l’indipendenza e in queste elezioni indica che gli scozzesi vogliono avere una torta tutta per sè e mangiarsela in pace. Può darsi che ci riescano.)
Il Galles chiederà di più rispetto alla Scozia. L’Irlanda del Nord è comunque a sè, legata al resto dell’Irlanda con modalità possibili solo grazie al lassismo di una Gran Bretagna inserita in un’Unione europea flessibile.
Attorno a me, qui nel cuore piovoso dell’Inghilterra, odo citare in sordina i versi di G. K. Chesterton: «Perchè siamo il popolo d’Inghilterra / che non ha ancora mai parlato».
L’Ukip tra le altre cose ha fatto implicitamente da veicolo al nazionalismo inglese.
In campagna elettorale il partito conservatore e la stampa hanno svegliato il bulldog inglese che dormiva al grido di «fermiamo l’Snp».
Stabilire con precisione a chi siano devoluti i poteri in Inghilterra sotto il profilo federale (alle regioni? alle contee? alle municipalità ?) è un enigma, ma ora va affrontato.
La proposta più coerente e più radicale viene da un grande conservatore, il marchese di Salisbury, discendente del precedente e ancor più grande Salisbury che fu il David Cameron del 1895.
Contro i suoi interessi propone che la Camera dei Lord sia abolita e trasformata in una camera alta (un Senato, forse?) per l’intero Regno federale.
La Camera dei Comuni dovrebbe diventare il Parlamento inglese, così che ogni nazione del nostro stato quadrinazionale disponga di un’assemblea democratica propria.
Visto che ogni nuova assemblea acquisita dalla Gran Bretagna adotta un sistema di voto sempre più proporzionale, il Senato non farebbe eccezione.
Questa soluzione andrebbe in qualche modo a rimediare allo scontento di milioni di singoli elettori il cui voto nell’attuale sistema è privo di efficacia – inclusi, va detto, quelli dell’Ukip. Anche il Parlamento inglese finirebbe per essere costretto in direzione di un sistema elettorale più rappresentativo. In tutto ciò la questione europea è imprescindibile.
In fin dei conti in Gran Bretagna il problema riguardo all’adesione alla Ue è stabilire chi agisce, cosa fa e a quale livello.
E’ quello che interessa alla gente della rinegoziazione che Cameron porterà avanti, secondo la sua visione, con Bruxelles.
Questi accordi a più livelli si posso definire anche con un altro termine, federalismo, appunto. In effetti il primo governo Cameron ha fatto un grande lavoro di approfondimento dei diversi poteri esercitati dall’Ue – per poi nasconderne i risultati, perchè indicavano che la bilancia non pendeva affatto a svantaggio della Gran Bretagna.
Anche in questo caso quindi la soluzione per il nostro paese trasformato è il regno federale.
Il mio ragionamento può suonare forse freddo e accademico dopo l’esito elettorale più sensazionale che io ricordi, ma in realtà così non è.
L’impatto emotivo del voto è così forte perchè in ballo non c’è solo il benessere economico e sociale della società britannica ma la configurazione stessa del paese: all’esterno, in Europa, e all’interno, tra Inghilterra e Scozia.
Quindi bisogna pensare in grande. Ci vorranno anni per arrivarci.
Ma lunedì, una volta recuperato il sonno perso, i britannici dovranno necessariamente iniziare a progettare le fondamenta del nuovo Stato di cui hanno bisogno: il Regno federale di Gran Bretagna.
Timothy Garton Ash
(da “La Repubblica”)
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