Maggio 5th, 2015 Riccardo Fucile
IL DANTISTA MIRKO VOLPI LA STRONCA: “NON TIRATE DANTE PER LA GIACCA”
Sette secoli prima dell’arrivo dei barconi dall’Africa, Dante Alighieri si scagliava contro gli immigrati: questa è la lettura del quotidiano “Il Giornale” che cita il XVI canto del Paradiso, dove viene deplorato l’arrivo degli abitanti del contado a Firenze, città ora impura perchè ha accolto genti di diversa provenienza.
Per questo, secondo l’autore dell’articolo, i fautori dell’accoglienza dei profughi rimarrebbero delusi dalla lettura della Divina Commedia.
Dopo aver sottolineato che la colpa della mescolanza era della Chiesa, così come ricorda lo stesso Cacciaguida, Il Giornale conclude riportando l’opinione di Dante sullo spostamento delle persone da un luogo all’altro:
“Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade, / come del vostro il cibo che s’appone”. Ovvero: la mescolanza delle genti provoca sempre il male delle città .
“Si tratta di una indebita attualizzazione di Dante, una operazione forzata che tira l’autore della Divina Commedia per la giacca cercando di portarlo sugli argomenti di attualità e piegandolo alle proprie convinzioni”, commenta Mirko Volpi, ricercatore e studioso di Dante all’Università di Pavia.
“Dante non è moderno e non è modernizzabile, perciò quello che scriveva non può essere utilizzato in una polemica attuale come l’immigrazione, così come non si poteva usarlo in chiave anti-Islam”.
Volpi, che affianca il suo lavoro di filologo a volumi più leggeri come “Il Diario di Mirko V.”, ricorda il senso reale delle terzine citate da Il Giornale: “Il dialogo con Cacciaguida si inserisce in una polemica differente: quella che Dante ha sempre nutrito nei confronti dell’avidità e della sete di ricchezza. Il trasferimento di commercianti e artigiani dal contado a Firenze è dunque visto come una conseguenza della fame di denaro, e perciò giudicato negativo e portatore di corruzione in una città che secondo la sua visione un tempo era stata pura e incontaminata”.
“Fare un parallelo tra lo spostamento di qualche centinaio di persone dalle colline alla città non può essere nemmeno lontanamente paragonabile con l’esodo dei profughi a bordo dei barconi nel Mediterraneo: anche questa è una forte sproporzione che indica una maniera sbagliata di leggere Dante. Non è Dante a dover arrivare nel 2015, siamo noi a dover tornare indietro e scoprire il Dante del suo tempo, con i valori eterni che promuove”.
Ma forse l’immagine di chi è mosso solo da una visione egoistica delle cose, “dall’avidità e dalla sete di ricchezza” si addice proprio ai teorici razzisti di casa nostra.
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Maggio 5th, 2015 Riccardo Fucile
“PER VINCERE AI BALOTTAGGI MEGLIO IL CENTRODESTRA DEI CINQUESTELLE”
«Tanto per cominciare non è vero, secondo me, che questa legge favorisce il bipolarismo»
Pensa anche lei che l’Italicum sia cucito su misura per il Partito democratico di Matteo Renzi?
«Penso che oggettivamente Renzi è il favorito. Ma in due anni può succedere di tutto. E il risultato potrebbe non essere scritto come appare oggi».
Alessandra Ghisleri è la «donna dei numeri» che ha stregato politici e leader di partito, a cominciare da Silvio Berlusconi.
La direttrice di Euromedia Research, da quest’anno ospite fissa di Ballarò, spiega come l’Italicum, una volta in vigore, possa rivoluzionare l’attuale quadro politico. E regalare le «sorprese» più imprevedibili.
Oggi, però, Renzi sembra senza rivali. Se si votasse domattina con l’Italicum.
«Il Pd di Renzi andrebbe al ballottaggio col Movimento Cinquestelle e, con tutta probabilità , vincerebbe le elezioni garantendosi il premio di maggioranza».
Grillo non avrebbe chance?
«Il M5S è un movimento molto arroccato su di sè. Il che penalizza non poco, soprattutto in un turno di ballottaggio. Al contrario Renzi, che guida un partito di centrosinistra e un governo che ha portato avanti anche politiche di centro o di centrodestra, ha grandi capacità di estendere il suo consenso oltre i soliti steccati».
Insomma lo sfidante di Renzi, per avere più possibilità di batterlo al secondo turno, deve provenire dal fronte moderato.
«L’Italicum col premio alla lista favorirà , sia tra i partiti piccoli che tra quelli grandi, una corsa verso la ricomposizione. Il problema, per i soci della vecchia Casa delle libertà , sarebbe quello di riunificare i programmi, le ricette su fisco, immigrazione, lavoro…».
Chi avrebbe più possibilità . Il barricadero Salvini o il veterano Berlusconi?
«No… Salvini, e in piccolo anche Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia, s’è dimostrato in grado di estendere i consensi della sua Lega. Più difficile, per lui, sarà allargare la sua platea di potenziali elettori a un punto tale da sfidare il premier».
E Berlusconi?
«Berlusconi ha sempre dimostrato che, di fronte a una campagna elettorale, è in grado di fare miracoli. E quell’idea di nuovo partito repubblicano fatto di giovani e facce nuove potrebbe rivelarsi sorprendente. Vede, l’Italicum per un aspetto è come il Porcellum. Premia le leadership nazionali, riconoscibili, carismatiche».
Marina o Piersilvio potrebbero ereditare il consenso del padre?
«Tutto è possibile. Solo non credo che il carisma sia ereditabile geneticamente. Sia chiaro, magari ce l’hanno di loro…».
Difficile che lo sfidante di Renzi, nel caso di un elezione politica al ballottaggio, venga da sinistra. Non trova?
«Anche lì, però, il cambio di legge elettorale potrebbe favorire la ricomposizione delle vecchie forze che erano in campo. Uno schieramento di sinistra, che parta da Sel e recuperi il vecchio elettorato di Rifondazione, Comunisti Italiani e Italia dei Valori, sulla carta può anche valere tra il 9 e il 13%».
E l’affluenza?
«Fossi un politico, starei molto attenta. La distanza tra politica e cittadini è tutt’altro che colmata».
Tommaso Labate
(da “il Corriere della Sera“)
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Maggio 5th, 2015 Riccardo Fucile
TRA CAPILISTA NOMINATI E SIGNORI DELLE PREFERENZE, LA LEGGE SOMMA I DIFETTI DI QUELLE DEL PASSATO… E NEL PD SONO DECINE GLI ELETTI CHE RISCHIANO IL POSTO
Scaldate i motori dei trolley, che adesso c’è da girare davvero.
Mentre l’Italicum aspetta la benedizione firmata dal presidente Sergio Mattarella, a Montecitorio i figli di un dio minore si preparano alla loro guerra santa: tra nomi di bandiera (quei 100, pluricandidature incluse, capilista per ogni partito con il seggio assicurato) e capibastone con pacchetti da decine di migliaia di voti coltivati casa per casa, l’elezione con la nuova legge elettorale sarà più difficile che vincere alla lotteria.
Lo sanno bene in Parlamento.
Per questo già si ragiona sulle strategie di sopravvivenza. Qui non è questione di maggioranza o minoranza Pd, di nostalgici del Nazareno, di leghisti di successo, di grillini al secondo giro.
Qui c’è da mettere a fuoco una cosa: che l’Italicum riesce in un colpo solo a mantenere i guai del Porcellum (i nominati) e quelli delle preferenze (i cacicchi).
I 230 su piazza e la lotta fratricida
Il conto è presto fatto: il partito che otterrà il premio di maggioranza (che sia al primo turno o al ballottaggio) porta a casa 340 deputati.
Di questi, 100 vengono nominati: sono i capilista o i numeri 2 visto che sono possibili fino a dieci pluricandidature, cioè capilista identici in diversi collegi che alla fine dovranno optare per uno, facendo così eleggere chi stava in seconda posizione negli altri.
Restano quindi 230 posti. Che, suddivisi per i 100 collegi in cui sarà frazionata l’Italia, daranno una media di poco più di due eletti per lista.
Va ricordato che l’unico partito che manderà in Parlamento deputati scelti con le preferenze sarà probabilmente quello che vince le elezioni: gli altri si divideranno 290 poltrone e probabilmente eleggeranno solo i capilista (o poco più).
Tradotto: nomi scelti dalle segreterie nazionali.
Considerata la situazione politica attuale, dunque, i 230 eletti con le preferenze è plausibile che siano esponenti del Pd.
Così, tra i parlamentari democratici in carica, comincia a serpeggiare un’angoscia motivata: come sopravvivere nella morsa dei nominati dal partito e dei capibastone locali?
Per questo c’è da scaldare le ruote dei trolley: muoversi ora prima che sia troppo tardi. Ammette Ettore Rosato, capogruppo reggente del Pd, che bisognerà correre ai ripari: “Chi fa politica lo sa: le preferenze non si costruiscono in sei mesi o in un anno. Sul territorio bisogna tornare subito, è una novità che dovremo tenere in considerazione anche nel calendario dei lavori d’aula”. Ovvero: meno Roma, più casa. Altrimenti ci si ritrova alle elezioni coi posti già presi.
Voto di genere e regole nuove
Per la formazione delle liste si preannuncia una guerra nucleare.
I nomi papabili saranno al massimo sei, ma — come calcolavamo qui sopra — la vera posta in gioco è due.
Esattamente il numero di preferenze che si possono esprimere, salvo mettere la croce su un uomo e su una donna.
Il voto di genere, però, non è un obbligo. Così, per concentrare le preferenze, è facilmente immaginabile che nessuno farà campagna elettorale per i colleghi di lista: “Ai tempi della Prima Repubblica — spiega Pino Pisicchio, capogruppo del Misto — di preferenze se ne potevano dare 4: si faceva gioco di squadra, si concorreva per il bene della lista. Ora il nemico non sarà più fuori dal partito, ma dentro il partito”.
Mors tua, vita mea. Un sottotesto che, occhio e croce, non favorirà nemmeno l’alternanza di genere in Parlamento.
Ai parlamentari meno radicati sul territorio non resta che sperare nelle regole: già nel 2013, il Pd, escluse dalle candidature (salvo deroga) chi sedeva nelle assemblee regionali e provinciali.
E poi c’è l’ipotesi primarie: anche la volta scorsa, una parte delle liste democratiche nacque sulla base dei risultati di circoli e gazebo.
L’opinione diffusa, comunque, è che delle preferenze si sperimenterà il lato peggiore. Troppo pochi i posti in ballo per permettere una vera scelta dei cittadini.
Quei due posti liberi finiranno inevitabilmente nel carnaio dei cacicchi e dei potentati locali. Il trolley, come arma, pare un filo arrugginito.
Paolo Zanca
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 5th, 2015 Riccardo Fucile
SI VOTA IL 7 MAGGIO PER RINNOVARE LA CAMERA DEI COMUNI… NEI SONDAGGI TESTA A TESTA TRA LABOUR E CONSERVATORI, MA LA GRANDE INCOGNITA E’ LA STELLA NASCENTE DELL’INDIPENDENTISMO SCOZZESE NICOLA STURGEON
La Gran Bretagna sta avendo un incubo: sogna di essere diventata l’Italia degli anni ’80.
Dopo decenni di stabilità politica, in cui due partiti prendevano la maggior parte dei voti e si alternavano al potere, il Regno Unito arriva alle elezioni del 7 maggio tra previsioni di ingovernabilità all’italiana: nella migliore delle ipotesi dall’urna uscirà una coalizione di tre o più partiti, fragile e divisa, oppure addirittura un governo di minoranza, che naviga alla giornata e difficilmente potrà durare a lungo.
Sicchè è possibile che il voto non risolva niente e che si torni a votare entro qualche mese o un anno, magari con nuovi leader alla guida dei principali partiti.
Secondo uno studio condotto da Nat Silver, l’analista elettorale americano che indovinò i risultati delle vittorie presidenziali di Obama negli Usa stato per stato senza sbagliarne uno, i conservatori saranno il primo partito, ottenendo la maggioranza relativa ma non quella assoluta, con 10-15 seggi più dei laburisti.
Ma i Tories, anche alleandosi con altri partiti di centro o di destra, come i liberaldemocratici (loro partner nel governo uscente), i populisti antieuropei dell’Ukip o il Democratic Unionist Party (il partito protestante filo britannico nord-irlandese), non avranno probabilmente i numeri per arrivare alla maggioranza assoluta (che è di 326 seggi).
Viceversa il Labour, pur piazzandosi come secondo partito nazionale, dovrebbe essere in grado di superare la soglia della maggioranza assoluta, alleandosi con i centristi lib-dem, forse con i verdi e con il partito del Galles, e grazie all’appoggio esterno del partito nazionalista ovvero indipendentista scozzese.
In questo caso, tuttavia, si sa già che i laburisti verrebbero accusati di essersi messi nelle mani dei “ricatti” della Scozia su questioni come il budget e le armi nucleari: i conservatori affermerebbero che un governo simile non ha sufficiente legittimità .
Simili proteste causerebbero a loro volta una reazione a catena, contribuendo ad aumentare i consensi a favore dell’indipendenza in Scozia, dove nel settembre scorso il referendum per la secessione della regione dal Regno Unito era stato sconfitto 45-55 per cento ma che ora e anche di più in futuro avrebbe buone chances di vittoria, specie se da Londra si dice che un governo britannico appoggiato dagli scozzesi è illegittimo.
Se ne ricava un puzzle all’insegna dell’instabilità e dalle conseguenze imprevedibili che può effettivamente ricordare, perlomeno a noi italiani, i governi pentapartito della nostra Prima Repubblica, quando la Penisola passava da una crisi politica all’altra.
E’ paradossale che ciò avvenga nella Gran Bretagna odierna: le statistiche descrivono una nazione con una delle più forti riprese economiche d’Europa, bassa disoccupazione e livelli record in borsa.
Con cifre simili, il governo di David Cameron dovrebbe vincere a mani basse.
Se non accadrà è per due motivi.
La ripresa ha premiato soprattutto i privilegiati (il patrimonio dei 1000 più ricchi del Regno Unito è raddoppiato dal 2009 a oggi), è “drogata” dal mercato finanziario e da quello immobiliare, molti posti di lavoro creati sono al minimo salariale, classe media e classe operaia non sono tornate agli standard di vita di prima della grande recessione del 2008.
Una sensazione di profonda ingiustizia sociale, acuita dai tagli alla spesa pubblica per ridurre il deficit, che hanno colpito in particolare la Nhs, il sistema di sanità pubblico nazionale, cardine del welfare britannico.
L’altro fattore è la personalità del premier: educato a Eton e Oxford, proveniente da una famiglia dell’alta società , Cameron appare a molti come il simbolo del privilegio. Ed è stato anche accusato, dai suoi stessi sostenitori come il magnate dell’editoria Rupert Murdoch, di non avere dimostrato sufficiente passione, energia e carisma in campagna elettorale.
Anche il suo avversario Ed Miliband, leader laburista, suscitava dubbi: scarso comunicatore, propenso alle gaffe, paragonato dai vignettisti a Mr Bean, il buffo clown della tivù e del cinema.
Ma in campagna elettorale è cresciuto, maturato, diventato forse perfino più disinvolto e simpatico.
Il problema del Labour è che il deficit pubblico è almeno in parte frutto della politica dei suoi precedenti governi diretti da Blair e Brown.
E che le ricette indicate da Miliband per “un futuro migliore” non sono del tutto chiare, mancano di una visione coerente e di slogan efficaci.
La vera star della campagna elettorale è stata Nicola (equivalente di Nicoletta in inglese) Sturgeon, 44enne leader del partito scozzese, a cui viene pronosticato un risultato senza precedenti: potrebbe prendere 50 seggi sui 59 in gioco in Scozia e il merito in buona parte è stato anche suo, ha stravinto i dibattiti televisivi, ha portato una boccata di sincerità , novità e idee “davvero di sinistra” come non manca mai di ripetere.
Infine c’è da tenere presente che se i conservatori resteranno al governo ci sarà quasi certamente un referendum sull’Unione Europea, come ha promesso Cameron, nel 2017, aprendo scenari ulteriormente destabilizzanti per la Gran Bretagna e per tutta l’Europa.
Se invece a Londra ci sarà un governo laburista, anche in coalizione con altri partiti, il referendum non si farà .
Naturalmente i sondaggi a volte sbagliano e anche gli analisti elettorali più esperti, come Nat Silver, non sono infallibili.
E’ possibile che i conservatori vincano una ventina di seggi in più e possano formare un governo di maggioranza insieme ai liberaldemocratici.
Non si può escludere che il Labour sorpassi i Tories, si affermi come primo partito e rafforzi la legittimità di un suo governo di coalizione.
Qualcuno scommette che alla fine l’unica ipotesi realistica sarà una “grande coalizione” alla tedesca (o all’italiana, visto che l’abbiamo sperimentata anche noi), un governo di transizione fra conservatori e laburisti.
Una cosa sembra certa: nessun partito vincerà con un’ampiezza tale da governare da solo, come succedeva prima.
Come appaiono lontani i tempi di Blair e della Thatcher.
Enrico Franceschini
(da “La Repubblica”)
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Maggio 5th, 2015 Riccardo Fucile
TRA LE SOMME CONTESTATE ANCHE ACQUISTI NEI SEXY SHOP
La Procura di Bologna ha chiesto il rinvio al giudizio per 16 consiglieri regionali emiliani del Pd, nell’inchiesta sui rimborsi ai gruppi consiliari tra giugno 2010 e dicembre 2011.
Due esponenti dem escono da quella ormai nota come “inchiesta spese pazze” con una richiesta di archiviazione, mentre la posizione dell’attuale governatore Stefano Bonaccini era stata stralciata in precedenza e poi archiviata.
Per tutti gli altri indagati si chiede il processo.
Nella nutrita pattuglia, anche il deputato Matteo Richetti, renziano della prima ora che aveva fatto del taglio ai costi della politica la sua bandiera da presidente dell’assemblea legislativa.
Con lui anche Damiano Zoffoli, oggi europarlamentare, cui vengono contestati 8mila euro e l’ex assessore regionale Luciano Vecchi.
Risponderanno insieme ai colleghi di peculato, dopo un’inchiesta durata due anni, con alcuni episodi che hanno fatto scalpore.
Come i 940 mila euro di spese contestate all’allora capogruppo, Marco Monari, di cui più di 25 mila solo per i ristoranti e altri 15 mila di spese alimentari, e l’acquisto in un sexy shop finito nella nota spese della consigliera Rita Moriconi.
Un suo collaboratore sostenne di aver affrontato personalmente quella spesa per fare un regalo ironico a un amico che compiva gli anni, allegando poi per sbaglio la ricevuta
Nella infinita lista degli scontrini che i consiglieri sono ora chiamati a giustificare, nell’inchiesta assolutamente “bipartisan” (vennero indagati esponenti di tutti i gruppi, e per gli 11 consiglieri delPdl indagati si aspetta ancora la decisione della Procura), c’è davvero di tutto.
Tanto che Richetti si lamenta di essere finito “nel calderone generale” con i 5.500 euro che gli vengono contestati in due anni.
«Per casi assolutamente identici è stata chiesta l’archiviazione – scrive su Facebook il deputato – ho spiegato con minuzia di particolari che i cinquemila euro spesi in circa due anni per attività riguardanti il mio mandato sono legati alla rinuncia e al risparmio legato alle scelte fatte da presidente dell’assemblea. Ora si va davanti a un giudice e io sono molto, molto tranquillo».
Per Richetti, la trasferta cui partecipò anche la moglie «non venne pagata con i soldi della Regione», e il capitolo auto blu «non c’entra proprio niente ».
Insomma, «non è giusto prendere provvedimenti uguali per disuguali».
Alla notizia dell’indagine, l’ex presidente dell’assemblea regionale si ritirò dalle primarie per il candidato presidente di Regione, mentre Bonaccini, cui veniva contestata un’analoga cifra, rimase in pista.
Amareggiati anche gli altri ex consiglieri dem coinvolti: «È molto dura per me – scriva Anna Pariani – ho la sensazione di essere stata coinvolta in una vicenda che non aveva certo me come obiettivo».
Il consiglio regionale oggi è cambiato, e la politica anche.
Ma gli ex consiglieri rischiano di rimanere legati ancora per molto tempo a quella stagione, che ha profondamente scosso l’opinione pubblica nella terra tradizionalmente orgogliosa del suo “buon governo”.
Eleonora Capelli
(da “La Repubblica“)
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Maggio 5th, 2015 Riccardo Fucile
LA BASE DEL PD CONTRO RENZI, TENSIONI CON LA GIANNINI
Roma, Milano, Firenze, Bologna, Aosta, Napoli, Cagliari e altre ancora. Studenti e professori insieme in piazza. “La buona scuola siamo noi”, scrivono sui cartelli nella capitale.
Qualcuno rispolvera anche Alessandro Manzoni, ovvio: è il 5 maggio. “Ei fu…”, recita un cartello con un Renzi vestito da Napoleone. Macabro.
Napoli si spinge anche più in là , dove le aule scolastiche si trasformano in urne per le elezioni: “Renzi a casa, bruciamo le schede elettorali…”.
Il mondo della scuola sciopera contro la riforma del governo Renzi. E’ la più grossa protesta da quando l’ex sindaco di Firenze è al governo.
Più pesante dello sciopero generale contro il Jobs Act, che cadeva in un periodo più ‘sereno’ per il presidente del Consiglio che infatti allora rispose: “Rispetto lo sciopero ma non mi impressiono”.
No, la scuola è altra storia. Oggi, contro il premier, si è mosso un gran pezzo della base del Pd, la sua base. Per giunta, alla vigilia del primo test elettorale di Renzi dalle europee dell’anno: le amministrative di fine maggio.
Lo sciopero contro la scuola fa male al quartier generale renziano, dove in mattinata si raccolgono le notizie in arrivo dai cortei, quanto grandi sono e quanto rumorosi.
Ma soprattutto notano e ammettono con la stampa, che, al di là della partecipazione di piazza, stavolta lo sciopero è ultra-riuscito: sono tantissimi gli istituti con le porte chiuse in questo 5 maggio.
E infatti la risposta del premier questa volta è diversa. “Siamo pronti ad ascoltare e condividere” approfondendo “nel merito le ragioni di questa manifestazione”, dice Renzi dal suo tour elettorale in Trentino (lì per le comunali si vota domenica prossima), dove pure viene accolto da contestazioni, come accade spesso nei suoi giri per l’Italia, almeno dallo scorso autunno in poi.
La parola d’ordine al governo è “dialoghiamo” sulla riforma della ‘Buona scuola’. Non a caso Renzi non si associa al ministro dell’Istruzione Stefania Giannini che parla di “sciopero politico”.
Stavolta, non c’è bastone, bensì carota. Dal Nazareno agiscono a colpi di slide su twitter: è la contraerea comunicativa per smontare lo sciopero.
In commissione si lavora anche nel giorno dello sciopero, anzi a maggior ragione. Proprio per poter dire, come fa il renzianissimo Dario Parrini, che “lo sciopero contro la riforma della scuola non tiene conto dei contenuti effettivi del provvedimento e combatte un testo già superato dalle modifiche promosse dal Pd e votate in commissione alla Camera”.
Da settimane ormai il premier ha annunciato modifiche per ridimensionare il ruolo del preside, che lui avrebbe voluto effettivo ‘capo azienda’ in ogni istituto e che invece verrà affiancato dal collegio dei docenti e dai consigli di istituto nell’elaborazione del piano formativo.
E poi le novità sui precari per fare in modo che chi abbia maturato 36 mesi di anzianità rientri in quota riservata al concorso che sarà bandito l’anno prossimo.
Basteranno le modifiche per smontare sciopero, contestazioni e possibili fronde della minoranza Pd ancora sul piede di guerra dopo la sconfitta subita sull’Italicum?
La scommessa è aperta.
Da Palazzo Chigi i riflettori sono puntati sul Senato, oltre che sui cortei del giorno. Perchè quando il 19 maggio la ‘Buona scuola’ verrà licenziata da Montecitorio, si aprirà il fronte di Palazzo Madama, con la sua maggioranza risicata.
L’appuntamento è per i primi di giugno, subito dopo le amministrative. E va da sè che la prova sarebbe ancora più difficile qualora il test elettorale presentasse anche solo una piccola dafaillance per Renzi.
Anche perchè il tempo stringe: la ‘Buona scuola’ deve essere approvata in via definitiva (e quindi con l’ultima lettura alla Camera, dopo il Senato) entro il 15 giugno.
Altrimenti i precari che verranno assunti (secondo la sentenza della corte di giustizia europea che ce lo impone) non potranno entrare in servizio dal primo settembre.
E’ già corsa contro il tempo. E contro le trappole.
Dalla minoranza Pd continuano a chiedere che si proceda per decreto sull’assunzione dei precari, per avere il tempo di riflettere sulla riforma della scuola.
Niet di Renzi, che consente modifiche al suo ddl anche in Senato ma che non lo molla: “altrimenti finisce in palude”.
E i renziani notano con soddisfazione alla Camera che al corteo di Roma Stefano Fassina “è stato contestato…”. “Perchè ormai la gente ce l’ha col Pd”, giustifica Fassina.
Ma questa per la cerchia del premier è l’unica notizia ‘buona’ in una giornata che porta molti dei suoi a riflettere sugli “errori commessi sulla riforma della scuola, errori di comunicazione e non solo”.
E’ anche per questo che, da ieri, il senatore Andrea Marcucci, renziano della prima ora, si affretta a chiedere ai segretari confederali Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo di “venire in audizione in commissione al Senato”.
Tentativo di dialogo, chissà se andrà a buon fine.
Oggi non si direbbe. E poi c’è da mettere nel conto, dicono dalla cerchia del premier, che “ormai si protesta non in base al merito ma perchè si deve contestare”.
Il riferimento è in particolar modo alla minoranza Pd, che in commissione al Senato è presente con Corradino Mineo e Walter Tocci.
Il primo – si ricorderà — l’estate scorsa fu sostituito in commissione per ‘permettere’ l’esame del ddl costituzionale. Il secondo si è dimesso dopo aver votato il Jobs Act, dimissioni poi respinte dall’aula.
Sono primi scogli all’orizzonte, tra i renziani c’è già chi parla di nuove sostituzioni in commissione, come è avvenuto alla Camera sull’Italicum. Si vedrà .
Certo è che la ‘Buona scuola’ sarà il primo test vero per la maggioranza di governo in Senato dopo lo scontro sulla legge elettorale e prima delle riforme costituzionali, che arriveranno a Palazzo Madama solo nella seconda metà di giugno.
“Renzi stai sereno della tua buona scuola ne facciamo a meno”, recita un cartello in piazza. Il premier non condivide ma stavolta sa che non può fare il ‘terminator’. Almeno fino alle amministrative del 31 maggio.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 5th, 2015 Riccardo Fucile
A TRENTO CHIESTO DI RITIRARE LA BIANCHERIA DAI BALCONI… COME AI TEMPI DI SILVIO CON IL G8
Via le mutande dai balconi, arriva Renzi.
Il presidente del Consiglio ha iniziato il suo tour in Trentino nelle vesti di premier e di segretario Pd.
Tra le tappe, anche un pit-stop al centro culturale-sportivo di Sanbapolis, a Trento, all’interno del complesso di alloggi universitari di via Malpensada dell’Opera Universitaria di Trento.
Quella del premier è una visita particolare: per questo l’Ufficio Controllo Alloggi ha diramato una comunicazione via mail a tutti gli studenti: “Gentili studenti – si legge – vi chiediamo cortesemente di rimuovere entro le 14.30 di oggi i vestiti appesi sul balcone e lasciarlo libero. Inoltre vi chiediamo gentilmente di utilizzare gli appositi stenditoi. Grazie della collaborazione”.
Alcuni ragazzi hanno dovuto lasciare di corsa le lezioni per andare a sistemare gli alloggi, dicono gli studenti sui social network.
C’è il presidente del Consiglio, ci saranno fotografi: la scena non può naturalmente essere guastata dalla biancheria degli ragazzi.
Il Centro Alloggi precisa che, comunque, controlli vengono fatti periodicamente, ed è premura dello stesso Centro verificare che l’esterno del complesso sia sempre curato: “Certo, la visita del premier è un evento particolare, ma questi controlli vengono fatti ogni mese. È il nostro lavoro verificare che gli alloggi siano sempre tenuti con cura dagli studenti”.
L’episodio ricorda molto quanto successo a Genova nel 2001 quando alla vigilia del G8 l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ottenne un’ordinanza dal Comune (da molti cittadini poi non rispettata) per far togliere la biancheria intima stesa nei vicoli della città .
Tutto in nome del decoro: bisognava evitare che i Grandi della Terra si fossero imbattuti nelle “mutande appese alle finestre”.
Il presidente del Consiglio ha prima fatto visita a Bolzano, prima tappa di un tour. In Trentino Alto Adige Renzi ha appuntamenti nella sua doppia veste di premier e segretario del Pd. Da capo del Governo farà tappa presso aziende e musei nelle tre città .
(da “Huffingtonpost“)
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Maggio 5th, 2015 Riccardo Fucile
CON UNA RIFORMA DEMENZIALE RENZI STA FACENDO PERDERE CONSENSI AI DEM
Stefano Fassina più che contestato è diventato oggetto dello sfogo dei docenti durante la manifestazione della scuola a Roma.
L’esponente del Pd, mentre partecipava al corteo, è stato avvicinato da alcuni insegnanti che lo hanno criticato, accusandolo di scarsa opposizione all’interno del Partito democratico.
Fassina ha però respinto l’accusa, rivendicando invece il suo impegno contro le politiche del governo di Matteo Renzi.
Più di un manifestante si è dichiarato un ex elettore del Pd deluso dal trattamento riservato dal premier agli insegnanti.
“So che siete arrabbiati – ha replicato Fassina – per questo mi batto per cambiare il disegno di legge”.
Commentando poi l’accaduto con i giornalisti il parlamentare ha precisato che “giustamente c’è gente arrabbiata con il Pd. Ci sono anche persone che hanno votato Renzi ma che oggi si sentono offese e umiliate”.
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Maggio 5th, 2015 Riccardo Fucile
E SE IL PREMIER O IL PRESIDE E’ UN COGLIONE O UN MASCALZONE?
Oggi il mondo della scuola scende in piazza per l’ennesima volta contro l’ennesima controriforma.
L’altra sera due insegnanti di scuola media mi hanno fermato dopo un incontro a Bergamo: “Questa riforma dà ai prèsidi il potere di vita o di morte. Glielo dica lei a Renzi: si è mai chiesto che succede se il preside è un coglione o un mascalzone?”.
Siccome la filosofia è sempre quella dell’uomo solo (o sòla) al comando, la domanda si attaglia a perfezione anche all’Italicum, approvato ieri dalla Camera più o meno con gli stessi voti del suo padre naturale, il Porcellum: la legge Calderoli dieci anni fa passò a Montecitorio con 323 Sì, quelli del centrodestra; ieri la legge Boschi-Verdini ne ha raccolti 334, appena 11 in più, quelli del centrosinistra (drogati dal decisivo premio di maggioranza incostituzionale del Porcellum)
E se il premier è un coglione o un mascalzone?
Gli analfabeti che hanno scritto la legge, ultimo frutto bacato del Nazareno, non si sono neppure posti il problema: come tutti i politicanti da strapazzo, non vedono al di là del proprio naso e non immaginano i danni che può provocare una norma — per sua natura generale e astratta, destinata a durare anni — in futuro, anche quando costoro (almeno si spera) non ci saranno più.
Ora non resta che sperare nel presidente Mattarella che — come ha detto a Servizio Pubblico la costituzionalista Lorenza Carlassare — non ha che da leggere la sentenza n.1/2014 della “sua” Consulta sul Porcellum per rispedire alle Camere l’Italicum, che platealmente la tradisce e disattende.
Altrimenti, se il Presidente firmerà senza leggere, come il suo predecessore Napolitano, detto la penna più veloce del West, e se anche la Consulta si appecoronerà ai piedi del nuovo padrone d’Italia, bisognerà attivarsi con un referendum abrogativo.
E non è detto che questa sia una disgrazia, anzi: dal comitato referendario potrebbe persino sbocciare — come ai tempi di Segni — una nuova leadership di vera opposizione al renzismo arrembante, accanto alle forze che hanno sempre tenuto la barra dritta (M5S, Sel e FdI) e al posto delle anime morte che se la tirano da oppositori ma non lo sono mai stati.
Se l’Italicum è passato in terza lettura è anche grazie alla cosiddetta minoranza del Pd, che solo in extremis e fuori tempo massimo ha trovato il coraggio di votare No, dopo aver votato Sì (o essere uscita dall’aula) le altre due volte.
Ed è soprattutto grazie a Forza Italia, che oggi grida al golpe dopo aver collaborato a scrivere e a votare la porcata nei mesi del Nazareno.
Senza dimenticare la Lega Nord, che oggi fa fuoco e fiamme, ma l’estate scorsa prestava al governo il suo Calderoli come co-relatore della controriforma del Senato.
Gabellare il voto di ieri per un mezzo successo, come fa Bersani, noto esperto in “non vittorie”, è ridicolo: se un Parlamento in maggioranza contrario all’Italicum lo approva — pur con margini risicati — la vittoria è di Renzi, non dei suoi avversari veri o presunti.
I quali, certo, potranno fargliela pagare al Senato, dove i numeri del premier sono molto più traballanti.
Ma questo riguarda i loro giochini di potere, non l’interesse dei cittadini di riprendersi il diritto di scegliersi i parlamentari.
Quel diritto è ancora una volta conculcato.
Col trucchetto dei capilista bloccati, entreranno a Montecitorio all’insaputa degli elettori il 60,8% dei deputati: 375 nominati su 630 (nei 100 collegi nazionali, se si votasse oggi, passerebbero i 100 capilista del Pd, i 100 del M5S, i 100 di FI, più quelli della Lega nelle regioni del Nord e degli altri partiti che supereranno qua e là la soglia di sbarramento).
E questi — se passasse pure la controriforma del Senato — andrebbero ad aggiungersi ai 100 sindaci e consiglieri regionali nominati senatori dalle Regioni.
Cioè: nel Parlamento, che elegge i presidenti della Repubblica e parte dei membri della Consulta e del Csm, siederebbero 475 nominati (due terzi) e 242 eletti (un terzo). Il record occidentale di antidemocrazia.
Vedremo che ne sarà del nuovo Senato, che com’è noto — se si votasse domani — verrebbe eletto col proporzionale puro disegnato dalla Consulta (l’Italicum vale solo per la Camera): per rimpinzarlo di nominati, Renzi dovrà imporre il suo diktat anche a Palazzo Madama.
E lì si parrà la nobilitate della sua cosiddetta minoranza interna, che ha più che mai i numeri per salvarci almeno da quello scempio.
Al momento, comunque, Renzi ha vinto.
Ha vinto con i ricatti indecenti, con le fiducie antidemocratiche e con le solite menzogne. “Promessa mantenuta”, ha twittato il premier.
Ma quale promessa? E a chi?
A noi risulta che avesse promesso l’esatto opposto: “Vogliamo dimezzare subito il numero e le indennità dei parlamentari e sceglierli noi con i voti, non farli decidere a Roma con gli inchini al potente di turno” (18-10-2010).
La solita esca per gonzi: quelli che poi lo votarono alle primarie sperando in un vero cambiamento, e ora già alle Regionali si ritrovano in lista un’imbarcata di impresentabili da far paura.
“Finalmente, con l’Italicum, la sera delle elezioni si saprà chi governa”, ha salmodiato la Boschi.
Poveretta, non sa quel che dice: sono vent’anni che, la sera delle elezioni, si sa chi governa.
L’unica eccezione fu l’ultima volta, nel 2013.
Ma non per la legge elettorale: per il boom dei 5Stelle, che trasformarono il sistema bipolare in tripolare.
E non sono mica spariti, anzi sono di nuovo in crescita. Dunque, specie se alla Camera si voterà con l’Italicum e al Senato con il Consultellum, non si saprà chi governa neppure al prossimo giro.
Salvo che Renzi non torni fra le braccia dell’amato Silvio.
Che poi è quello che si meritano entrambi.
Noi, un po’ meno.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”)
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