Dicembre 14th, 2020 Riccardo Fucile
CHI LO RIFIUTA AVRA’ RESTRIZIONI ALL’ACCESSO ALLE CURE IN CASO DI CONTAGIO
Niente vaccinazioni contro il Covid? Niente cure gratis.
San Marino sceglie di imboccare una linea intransigente verso quanti rifiuteranno di tutelarsi contro il contagio da coronavirus. La proposta è stata avanzata dal segretario di Stato alla sanità Roberto Ciavatta e verrà presto sottoposta al vaglio del Congresso di Stato, l’assemblea legislativa.
Le vaccinazioni per la popolazione sanmarinese cominceranno nei prossimi mesi, quando il farmaco sarà disponibile anche in Italia e secondo gli intendimenti sarà messo a disposizione gratuitamente.
L’attuale legge della Repubblica del Titano prevede che la vaccinazione anti Covid sia facoltativa ma d’altro lato il pericolo non viene sottovalutato; così è stata avanzata la proposta di mediazione: chi rifiuterà la profilassi ma si ammalerà di Covid dovrà pagare di tasca propria le prestazioni sanitarie legate alla cura del virus.
Una sorta di deterrente, dunque, che fa leva sull’aspetto economico.
«Gli esperti della commissione vaccini dell’Istituto di sicurezza sociale, si sono detti d’accordo – ha precisato il ministro Ciavatta – Il vaccino a San Marino sarà gratuito e disponibile per la popolazione e qualora si decida di non sottoporsi per scelta e non perchè si fa parte di categorie escluse, come ad esempio gli allergici o per altri motivi sanitari, allora si dovranno pagare le cure per un eventuale contagio».
La politica rigorista è in linea con altre decisioni adottate dalle istituzioni di San marino in materia di vaccinazioni.
Covid a parte, i residente «no vax» che rifiutano le profilassi vengono obbligate a sottoscrivere un’assicurazione per danni contro terzi. Così prevede una legge che risale al 1995.
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 14th, 2020 Riccardo Fucile
“DOVRA’ RIFORMARE GIUSTIZIA E SCUOLA”
Senza riforme, niente soldi del recovery fund. Il ministro degli Esteri olandese Stef Blok è a Roma per incontri istituzionali con il suo omologo italiano Luigi Di Maio e con il ministro degli Affari Europei Enzo Amendola.
A pochi giorni dall’accordo raggiunto in Consiglio europeo sul recovery fund e il bilancio Ue, il messaggio del governo de L’Aja per il governo di Roma è chiaro. Torna il mantra delle ‘riforme da fare’, ma stavolta, a differenza che in passato, la Commissione europea ha degli strumenti in più per far rispettare le regole, argomenta Blok in un incontro con la stampa: può bloccare i fondi.
E l’Olanda, come altri Stati membri, ha la possibilità di sottoporre la questione in Consiglio europeo, utilizzando lo strumento ottenuto a luglio: il cosiddetto ‘freno di emergenza’ per sospendere l’erogazione delle risorse in mancanza di piani nazionali convincenti.
“L’Olanda — rivendica Blok — ha insistito affinchè nel Next generation Eu fosse inserita una condizionalità di tipo economico perchè siamo convinti che tutti possano beneficiare da queste riforme”.
Quali sono quelle che l’Italia dovrà mettere in campo? Sono scritte nelle raccomandazioni che la Commissione europea elabora per ogni Stato membro. Blok cita la “riforma della giustizia” e anche una riforma del “sistema educativo” perchè, dice dell’Italia, non sempre le scuole e le università danno quel “tipo di conoscenza richiesto dal mercato del lavoro”. Quanto agli investimenti ‘green’, Blok spezza invece una lancia a favore dell’Italia: “E’ avanti anche rispetto all’Olanda”.
Ma in generale il ragionamento del ministro de L’Aja suona come un avvertimento, sebbene non contenga toni aspri e ultimativi.
Nelle trattative del luglio scorso sul recovery fund, i ‘frugali’ del nord hanno ottenuto il cosiddetto ‘freno di emergenza’. Significa che se non sono convinti dei piani nazionali presentati, possono chiedere che gli Stati membri ne discutano e che la Commissione blocchi l’erogazione dei fondi.
La missione romana di oggi ha tutta l’aria di essere una visita tesa a capire a che punto sia l’Italia con la preparazione del proprio piano nazionale, sebbene ufficialmente inserita nell’incontro bilaterale Italia-Olanda, appuntamento annuale.
“Finora – dice Blok — l’erogazione dei fondi europei non era vincolata alle riforme. Il recovery fund introduce questa nuova condizionalità : abbiamo imparato la lezione”.
Quale lezione? L’Olanda ha spesso attaccato la Commissione in passato, accusandola di essere troppo morbida con gli Stati nazionali sul rispetto delle raccomandazioni prescritte. Per esempio, è successo all’epoca dello scontro tra Bruxelles e il governo M5s-Lega sulla manovra economica 2019: l’Olanda era in prima fila a chiedere che la Commissione aprisse una procedura per debito eccessivo contro l’Italia. Non successe.
Sul Next Generation Eu l’Olanda ha ottenuto un controllo sull’erogazione delle risorse, nel caso italiano ben 209 miliardi di euro, la parte più cospicua del recovery fund.
Blok non esprime particolari preoccupazioni per i ritardi italiani o per la situazione politica italiana, di nuovo scossa dalle tensioni di maggioranza. “Anche noi avremo le elezioni a marzo, quindi ci potrebbe essere un cambio di governo in Olanda — premette – La situazione politica italiana se la gestiscono gli italiani. Ma qualunque governo debba gestire il recovery fund, ci aspettiamo che la Commissione europea possa giudicare in maniera indipendente. Non ho motivo per dubitare: la Commissione ne ha tutto l’interesse”.
L’Italia, conclude, “non è ultima in Europa, ha un’economia molto competitiva che ha solo bisogno di un paio di riforme, che sono nell’interesse degli italiani e degli europei”.
Quanto al Parlamento olandese che, come tutti gli altri Stati membri, dovrà ratificare il recovery fund, “lo faremo al più presto”, assicura Blok: “E’ il Parlamento che decide il calendario ma non ho ragione per dubitare del fatto che si sia reso conto dell’importanza di tutto il pacchetto”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 14th, 2020 Riccardo Fucile
IL GIUDICE HA DICHIARATO ILLEGITTIMA LA SANZIONE… I SUOI STUDENTI AVEVANO PARAGONATO LE LEGGI RAZZIALI AL DECRETO SICUREZZA DELL’ALLORA MINISTRO
Le restituiranno anche i quindici giorni di stipendio non ricevuto a causa della sospensione. Il giudice del lavoro Fabio Civiletti, oggi 14 dicembre, ha dichiarato illegittima la sanzione disciplinare alla professoressa di Palermo Rosa Maria Dell’Aria. La storia, nella primavera del 2019 fece parecchio scalpore e finì per mobilitare insegnanti e studenti, spingendo l’allora ministro Matteo Salvini a incontrarla.
L’insegnante dell’istituto tecnico industriale Vittorio Emanuele III, docente da 40 anni, era stata sospesa per due settimane con l’accusa di non aver vigilato sui suoi studenti che, in un elaborato per la Giornata della Memoria, avevano accostato le leggi razziali al decreto sicurezza dell’allora titolare del Viminale.
L’insegnante ci rimase malissimo, anche perchè, come spiegò anche ad Open, non vedeva nella scelta degli studenti nessun attacco politico: «Pensate che la foto di Salvini è stata aggiunta all’ultimo minuto. Lo ribadisco, nessun lavoro contro il Ministro dell’Interno. Erano slide sui diritti umani, i ragazzi hanno espresso liberamente una loro opinione, ovvero che alcuni punti del decreto Sicurezza violerebbero dei diritti. Nessun paragone col Duce, col fascismo», ci raccontò.
Ora il ricorso presentato dai legali Fabrizio La Rosa e Alessandro Luna è stato accolto anche se il tribunale ha deciso di respingere la richiesta di risarcimento danni per diecimila euro.
“Il giudice ha riconosciuto tutte le ragioni del nostro ricorso — dice l’avvocato Luna — non solo la docente ha esercitato la libertà di insegnamento nel fornire il materiale didattico, ma non sussiste nemmeno la “culpa in vigilando” sull’operato dei suoi alunni, perchè se avesse controllato il contenuto dei loro lavori avrebbe violato la loro libertà di pensiero tutelata dalla Costituzione”.
(da agenzie)
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Dicembre 14th, 2020 Riccardo Fucile
GOVERNATORI E SINDACI CHE INVOCANO IL “LIBERI TUTTI”, INDISCIPLINATI CHE SI AMMASSANO PER UN REGALO, ESECUTIVO ONDIVAGO, PSICOPATICI CHE RACCONTANO BALLE SUI SOCIAL… RINGRAZIATE CHE VI SONO ANCORA DEGLI ITALIANI CON CERVELLO CHE STANNO A CASA IL PIU’ POSSIBILE
E quindi ieri, 13 dicembre, gli italiani si sono riversati sulle strade per la montagna (innevatissima, quest’anno, neanche farlo apposta), nei bar a fare aperitivi e per le vie dello shopping, con l’urgenza di arraffare l’ultimo paio di calzini antiscivolo per il nonno.
Questo nonostante i 500/800 morti, a seconda del bollettino funebre del giorno, e i contagi tutt’altro che sotto controllo. E che non siano sotto controllo lo dicono i numeri: siamo assestati da giorni intorno ai 20.000 contagi giornalieri e facciamo meno tamponi di qualche settimana fa .
Per intenderci, la Germania ha annunciato un nuovo lockdown con 30.000 contagi, il doppio dei tamponi (ne sta facendo circa 2 milioni a settimana) e 20 milioni di abitanti in più. Ah, e con 20.000 posti di terapia intensiva più di noi. (Più altri 10.000 all’occorrenza).
Noi, invece, stiamo sfumando i colori.
I dpcm non sono più dpcm, le ordinanze non sono più ordinanze, sono pitture ad acquerello. Il rosso si sfuma e diventa arancione, il giallo si fa quasi verde, l’arancione si annacqua, tutto diventa una natura morta con cipolle e agrumi.
Col risultato è che nessuno, in qualunque zona del paese si trovi, si ricorda più cosa può fare e cosa no.
L’altro giorno io e il mio fidanzato googolavamo per capire se lui mi potesse venire a prendere in stazione, lui sosteneva che in una zona rossa debba tornare a piedi da Rogoredo, io che in gialla si possa tornare in monopattino, lui che in arancione valga solo l’autostop.
E questo vale ormai sempre, non ci ricordiamo più se il ferramenta è aperto, a che ora si debba tornare a casa, in quanti ci si possa sedere a tavola, se tra comuni ora ci sia il via libera o tra i confini ci siano i checkpoint come a Gaza, se per passare da una regione all’altra serva il permesso dell’ambasciata.
Perfino Gallera si è confuso, aveva la musica nelle orecchie, le gambe andavano, è già tanto che non lo abbiamo dovuto ripescare nel Naviglio con le biciclette del comune e vecchi pneumatici.
È in questo clima di confusione totale che, sorpresa delle sorprese, ieri la gente è uscita di casa per passeggiare tra le luminarie e prendere d’assalto i negozi e i ristoranti.
La Lombardia, tra l’altro, è passata da zona arancione a gialla proprio ieri. Proprio il giorno di Santa Lucia, di domenica, a dieci giorni dal Natale. Una decisione chiaramente anti-assembramenti.
Le scene a cui si è assistito (Piazza Duomo che pareva un formicaio, la via centrale di Monza come l’incrocio di Shibuya a Tokyo, Via del Corso a Roma che veniva chiusa a intermittenza per la folla, le strade venete per la montagna trasformate in serpentoni interminabili di auto e così via) sono il risultato (inevitabile) non di una scelta, ma di più scelte.
Un concorso di colpe da cui nessuno si può tirare indietro. Chiunque provi a scaricare sull’altro, è in cattiva fede.
È colpa di ordinanze e dpcm mollicci, contraddittori, pieni di buchi e vomitati compulsivamente, che danno l’idea di un qualcosa in enorme evoluzione, di una marea che avanza e si ritira in maniera macroscopica, quando la situazione epidemiologica da ottobre è e resta preoccupante soprattutto al Nord.
Con dei segnali di miglioramento a tratti, certo, ma sempre preoccupante. E non è buttando acqua sulla tavolozza dei colori o mischiando colori primari e secondari a intermittenza, nel giro di manciate di giorni, che si vince.
Soprattutto, non può essere il dpcm che si adatta al comportamento dei cittadini o all’andamento del virus. Il dpcm deve correre più in fretta del virus e dei cittadini, deve farsi trovare alla stazione di servizio quando arrivano.
Ora, dopo le scene pietose di ieri, arriva un nuovo dpcm? E cosa pensavano Conte e ministri, che in una domenica pre-natalizia tutti gli italiani sarebbero rimasti a casa a preparare dolcetti allo zenzero?
C’è poi la responsabilità dei governatori di Regione, dei Toti e dei Fontana che giocano a mettere in piedi sfinenti prove di forza col governo e a rosicchiare più libertà possibile per i cittadini, perchè gli italiani a Natale non sono disposti a rinunciare al pranzo, al cenone, alla messa, al presepe vivente, alla tombola con le bucce dei mandarini, al mercante in fiera, alla poesia del nipotino, alla lasagna di nonna, alla pennica sul divano di zia.
Gli stessi governatori di Regione che oggi rilasciano dichiarazioni laconiche ai giornali, come Fontana che “Sono preoccupato”. Lo stesso Fontana che i primi di novembre, quando era evidente che Milano e la zona ovest della Lombardia stessero diventando un pericoloso focolaio, tuonava “Zona rossa in Lombardia? Uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi!”.
E con lui il sindaco di Milano Beppe Sala che si disse contrario alla decisione del governo sul lockdown lombardo perchè un virologo lo aveva rassicurato via sms.
Lo stesso Sala che oggi ha dichiarato: “Gli assembramenti? Non sono colpa dei cittadini, i cittadini fanno quello che gli dici di fare, il governo prenda delle decisioni e io le supporterò, c’era da aspettarsi tutto questo”.
Insomma, un mese fa il governo faceva male a chiudere, ora fa male a lasciare aperto e “non è colpa dei cittadini”.
Per la cronaca, la totale deresponsabilizzazione dei cittadini che lo devono rivotare a breve come sindaco, guarda caso. Per stare più tranquillo e non attribuire colpe ai milanesi ha addirittura specificato che “Molti ieri venivano dall’hinterland”. Insomma, sarà colpa di quelli di Sesto San Giovanni.
E invece no. Basta con questa storia che “i cittadini fanno quello che gli è permesso di fare”. Le strade, la città non sono le discoteche che “se le apri poi la gente che vuoi che faccia?”.
In discoteca si sta solo lì, in quel modo lì: a ballare più o meno appiccicati agli altri, urlandosi nelle orecchie e in faccia per parlare, con un drink in mano. La libertà di uscire si può gestire con intelligenza.
Se i cittadini sono incoscienti e indisciplinati non è solo colpa del governo. Certo, il governo non può affidarsi totalmente al buonsenso dei cittadini perchè in troppi abbiamo dimostrato di non averne, ma nel mezzo di una pandemia, in città come Milano o Monza che sono focolai, non può neppure trasformasi in badante fissa.
Qui al Nord la morte c’è stata, c’è, ci sono rischi, pericoli, insegnamenti che ormai dovrebbero essere acquisiti. E invece no, folla in strada, l’impellenza di buttarsi nella mischia pre-natalizia, la totale incoscienza, la mancanza di attenzione, senso di responsabilità e lungimiranza.
E sì, è colpa anche dei cittadini, così come di un governo incerto, dei governatori che esercitano pressioni (“Surreale nuovo lockdown a Natale, no alla pandemia emotiva”, ha detto Toti oggi), di sindaci ondivaghi, di virologi strabordanti e di una parte del paese che non è capace di proteggere se stessa e i cittadini più fragili, gli ultimi che moriranno prima del vaccino ormai alle porte.
E dico “una parte” perchè checchè ne dica qualche sindaco che assolve i cittadini perchè “fanno quello che gli è consentito di fare”, tanti italiani ieri, pur potendo uscire, sono rimasti a casa.
Ed è grazie a loro che morirà qualche vecchietto improduttivo in meno, in una rsa, per una pandemia che è solo emotiva. Finchè non ti seppelliscono.
(da TPI)
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Dicembre 14th, 2020 Riccardo Fucile
COVID E’ UNA SINDEMIA, OVVERO UNA SINERGIA TRA PATOLOGIE DIVERSE E CONDIZIONI SANITARIE E SOCIALI DISEGUALI
Giunti, dopo dieci mesi, sul passo estremo della pandemia, avendo fatto, come sarebbe auspicabile, tesoro dell’esperienza sugli errori fin qui commessi, in quale luogo un malato di Covid avrebbe diritto di morire, per essere certi che la sanità pubblica abbia fatto tutto ciò che era possibile, e tuttavia non sia bastato, per salvargli la vita?
Il lettore converrà che la risposta più scontata a questa domanda è: in un reparto di terapia intensiva.
Ma quante persone muoiono in terapia intensiva?
Tra la babele di cifre parziali e contraddittorie che la Protezione civile dispensa ogni giorno nel suo bollettino, questo dato non c’è. Tuttavia è ricavabile con un esercizio logico.
L’11 dicembre sono morte per Covid 649 persone. Nello stesso giorno il numero di ricoverati positivi al virus nelle terapie intensive è sceso da 3.265 a 3.199, con un saldo negativo di 66 unità , nonostante si registrino 195 nuovi ingressi.
Vuol dire che se 195 pazienti sono entrati, 195 più 66 sono usciti: la somma fa 261 malati che hanno lasciato i posti letto riservati alla rianimazione.
Questa cifra include tanto i morti, quanto coloro che sono tornati nei reparti ordinari, perchè le loro condizioni sono migliorate.
Per stimare le vittime possiamo riferirci a due studi, condotti in Lombardia e in Scozia, che individuano la mortalità di Covid in terapia intensiva, giungendo alle stesse conclusioni: in una prima fase è molto differenziata da reparto a reparto, in base alla qualità dell’assistenza offerta, a conferma di come non basti un ventilatore per fare una buona rianimazione.
Ma poi, in una fase di assestamento, la mortalità oscilla tra il 25 e il 40 per cento. Gli studi di cui vi parlo risalgono all’estate scorsa, oggi nelle terapie intensive più attrezzate la percentuale di decessi non supera di molto il 10 per cento. Ma consideriamo pure una media attestata sulla parte più bassa del range e assumiamo che il 25 per cento, cioè uno su quattro dei pazienti entrati in terapia intensiva per Covid, non riesca a salvarsi. Uno su quattro di 261 fa circa 65. Tanti sono presumibilmente i malati morti l’11 dicembre in terapia intensiva per Covid.
E tutti gli altri?
Il bollettino della Protezione civile annota di 649 decessi. Sottraendo i 65 qui considerati, ne restano 584, il 90 per cento. Il 90 per cento dei morti per Covid non muore intubato in terapia intensiva.
Si dirà che i dati della morte non sono sovrapponibili con quelli degli ingressi in rianimazione, perchè temporalmente sfasati. Tuttavia si tratta di dati stabili, come certifica il bilancio di dieci giorni, cioè dal 2 all’11 dicembre: 1.902 nuovi ingressi in rianimazione, 417 ricoverati in meno, quindi 2.319 pazienti che hanno lasciato il reparto. Il 25 per cento di questa cifra, cioè il numero presumibile di morti per Covid in rianimazione, fa 580, poco meno del 9 per cento del totale delle 6.545 vittime censite dalla Protezione Civile nello stesso periodo.
Per clamorosi che siano, questi dati non dovrebbero stupire chi studia la pandemia in Italia dal suo inizio. Perchè alle stesse conclusioni giunge il bilancio analitico dei decessi in Lombardia, pubblicato il 24 novembre scorso dal quotidiano “La Verità ” e ignorato dal resto della stampa nazionale: quel rapporto diceva che fino alla data del 17 novembre i morti in terapia intensiva erano solo il 9,7 per cento del totale.
Più della metà , il 50,4 per cento, proveniva dai reparti ordinari, il 14,7 per cento dalle residenze per anziani e il 25,2 per cento dalle abitazioni private.
In Lombardia una persona su 4 è morta in casa, e questa percentuale dice tutto il suo dramma sanitario se raffrontata ai dati del Veneto, dove solo una persona su 22 non ha avuto il tempo di arrivare in ospedale ed è spirata tra le propria mura.
Il confronto tra questo rapporto e i nostri dati dimostra che nulla è cambiato sotto il cielo italiano della pandemia. Il 90 per cento delle vittime del Covid in Italia non muore dove, almeno in gran parte, avrebbe più chance di lottare fino all’ultimo per salvarsi.
Non il 9 marzo, data di inizio del primo lockdown. Non il 3 aprile, data del picco di ricoveri (4.068) in terapia intensiva durante la prima ondata. Non il 12 ottobre, quando pure iniziamo a capire che il virus sta tornando imponente.
Ma l’11 dicembre, a quasi dieci mesi dallo scoppio di questa tragedia, quando ti aspetteresti di aver imparato qualcosa. E di avere cambiato più di qualcosa nel tuo modo di affrontarla.
Solo una vittima su dieci oggi in Italia continua a ricevere fino all’ultimo le terapie più efficaci per salvare la vita. Perchè?
La prima ragione che spiega l’incongruenza qui denunciata è universale. Potrebbe definirsi la “tara” del Covid.
Molti pazienti muoiono nei reparti ordinari, come traumatologia, gastroenterologa, neurologia, cardiologia, perchè non hanno disturbi respiratori, pur essendo positivi al virus. Muoiono per una comorbilità da diabete, ipertensione, obesità , Parkinson, fratture ossee e altre patologie per le quali il Covid agisce al più come detonatore di complicanze. Si tratta di persone legate alla vita da un sottilissimo filo di lana, che si spezza in coincidenza, ma non sempre a causa, del virus.
Tuttavia la positività al tampone include queste morti nel computo della pandemia, per una espressa indicazione del comitato tecnico scientifico. Questa scelta non è irrilevante. Se il Covid slatentizza e rende visibile il dramma sociale delle malattie croniche dell’età anziana, la burocrazia sanitaria finisce per utilizzare il contagio come un paravento per nasconderle. L’effetto di una sovrastima del Covid è quello di trascurare tutto il resto rispetto alle cure. Ma anche quello di perpetrare un’emergenza che, da sanitaria, diventa sociale ed economica, portando con sè cattiva salute come conseguenza di crescente povertà .
“La scienza che guida i governi tratta il coronavirus come una peste vecchia di secoli”, ha denunciato, sulle colonne di Lancet, Richard Horton.
In realtà , secondo il professore onorario alla London School of Hygiene and Tropical Medicine, non siamo di fonte a una peste, e neanche a una pandemia in senso classico. Il Covid è, piuttosto, una sindemia, secondo il paradigma del medico e antropologo americano Merril Singer: cioè una sinergia tra patologie diverse e condizioni sanitarie e sociali diseguali e svantaggiate.
Queste condizioni sono spesso invocate come attenuanti per giustificare il doppio triste record di letalità (numero di vittime in rapporto ai tamponi) e di mortalità (numero di vittime rispetto alla popolazione) che l’Italia vanta in Europa.
Siamo più vecchi e abbiamo più acciacchi degli altri, perciò il Covid fa più vittime tra noi: questa litania si sente recitare in tutte le sedi del dibattito pubblico da virologi e opinionisti à la carte. Ma non è che una leggenda metropolitana, peraltro non suffragata da dati attendibili.
Un report del gruppo di sorveglianza istituito dal Ministero per la Salute ci dice che l’età mediana dei morti positivi al tampone è di 82 anni, ma non esistono raffronti attendibili con altri Paesi. È vero che l’Italia vanta, rispetto al resto dell’Europa, tanto il primato dell’invecchiamento dal basso, dovuto alla diminuzione dei giovani, tanto quello dall’alto, dovuto all’incremento degli anziani.
Dal 1980 ha visto un aumento significativo e unico della sopravvivenza e allo stesso tempo una fecondità molto bassa, con l’effetto di diventare, insieme con il Giappone, il Paese più vecchio. Ma se questo primato è dovuto, tra le altre cose, a una migliore alimentazione, non si capisce in che modo una condizione più salutare, che ci fa vivere di più, dovrebbe essere allo stesso tempo un fattore di fragilità di fronte alla minaccia del virus.
La realtà è un’altra: il record di morti è in relazione con quella percentuale di decessi in terapia intensiva inchiodata al 10 per cento dall’inizio della pandemia.
Il suo film ha per protagonista un paziente ricoverato in un reparto ordinario che, nel giro di 48 ore, vira da una condizione di stabilità a un’insufficienza respiratoria grave.
C’è un camice bianco che si adopera attorno al suo letto, in attesa di trovare un posto libero in rianimazione. Talvolta il paziente non ce la fa ad arrivarci. O perchè manca il posto o, piuttosto, perchè manca il personale.
Se è iperteso, obeso, diabetico o cardiopatico, le 48 ore di tempo diventano 24, o piuttosto 12. O si vola o si muore.
C’è una condizione di disconfort territoriale che a marzo ha portato il sistema sanitario a sbattere la faccia contro il virus, e che è rimasta intatta fino a Natale.
Sono arrivati i ventilatori, ma mancano tremila rianimatori per rendere effettiva e stabile l’implementazione delle terapie intensive.
L’indice di occupazione dei posti letto per malati di Covid è lievemente sotto la soglia del 40 per cento, assunta come uno degli indicatori della geografia a tre colori del virus.
Il rischio è che la burocrazia sanitaria a capo degli ospedali alzi d’istinto anche la soglia della gravità , richiesta per l’accesso alla terapia intensiva, al fine di non superare quel 40 per cento e preservare o conquistare la patente di zona gialla.
Il prezzo di questo adattamento formale del sistema sarebbe una caduta sostanziale della risposta terapeutica alla malattia. Che questo sia già accaduto in qualche parte d’Italia è allo stato un’illazione, che tuttavia meriterebbe una verifica.
È vero che malati molto vecchi non vengono ricoverati in rianimazione, perchè troppo fragili per sostenere la ventilazione meccanica. Gli anziani in ospedale muoiono perchè si destabilizzano.
Lo squilibrio psichico impedisce loro di reggere alle terapie, il deficit di coscienza annulla qualunque capacità di reazione e pregiudica in poco tempo il quadro clinico.
Per questo andrebbero curati in casa. Come avviene in Germania, in Gran Bretagna e nella maggior parte dei Paesi europei, con un taxi di primary care fornito di ventilatore, medico rianimatore e infermiere, che prendono in carico il paziente nel suo domicilio e lo seguono poi per tutta l’evoluzione della malattia.
In Italia la primary care era un progetto mai nato a marzo, è un impegno assunto dal governo a maggio, mancato a dicembre. Le unità speciali di continuità assistenziale, che dovrebbero garantire il servizio, sono presenti solo da qualche mese in alcune regioni, ma non hanno nè i numeri nè i mezzi per una presa in carico di massa dei malati nelle loro abitazioni.
Quanto ai medici di base, per una minoranza che si è gettata con coraggio nella lotta al virus, rimettendoci talvolta la pelle, c’è una stragrande maggioranza che sfugge ancora i pazienti, arrivando a negarsi al telefono.
Il rifiuto di praticare i tamponi su base volontaria racconta per intero questa riluttanza corporativa. Tanto più inaccettabile se si pensa che, per questo servizio, il governo ha offerto ai camici bianchi 18 euro per ogni prelievo. Come se non si trattasse di una prestazione che rientra nella responsabilità connessa all’esercizio della professione.
Vicende come questa dimostrano che in dieci mesi la macchina della Sanità italiana non ha modificato neanche una delle sue lacune o delle sue rigidità . Il ministro della Salute è diventato il ministro del lockdown, nell’illusione che la professione del rigore surroghi la capacità di gestione, in attesa che arrivi il vaccino.
Gli effetti collaterali di questa strategia difensiva sono ampiamente sottovalutati. Ma il ritardo nelle cure di altre patologie e l’impoverimento economico della società porteranno presto il loro conto a un sistema arroccato in trincea. Il vaccino arriverà . E, com’è auspicabile, annienterà il virus, ma nessuna protezione e nessun balsamo porterà alla salute pubblica, messa in ginocchio allo stesso modo dal Covid e dalla lotta al Covid. Il rischio è di guarire dalla peste, e morire di tutto il resto.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 14th, 2020 Riccardo Fucile
“SE A GENNAIO SI RIAPRONO LE SCUOLE, LA TERZA ONDATA SARA’ INEVITABILE”
Professor Crisanti, ogni giorno il bollettino dei morti di Covid è spaventoso. Eppure, leggiamo e sentiamo che la situazione sta migliorando. Il cittadino rischia di non capire o di assuefarsi. Sbaglio?
Sono, comunque, numeri, che vanno contestualizzati. Le persone, che muoiono oggi, spiega il Direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’Università di Padova, rispondendo all’Agenzia SprayNews, , sono quelle, che si sono ammalate, quando avevamo quarantamila di casi al giorno, o giù di lì.
Crisanti, un mese e mezzo fa ci aveva detto che i tamponi e il lockdown, da soli, servono a poco, o niente, e che occorreva un piano di sorveglianza per spezzare la catena di montaggio del Covid. Siamo allo stesso punto? Si è fatto qualcosa?
Nulla. Non si è fatto nulla.
E, quindi, non possiamo aspettarci nulla?
Possiamo aspettarci ben poco.
I test rapidi, per chi torna a casa a Natale, servono a qualcosa? Sono affidabili?
I tamponi rapidi hanno una sensibilità molto bassa. Azzeccano tre positività ogni dieci.
Le misure stabilite dal Governo per le feste natalizie, condizionate dalla necessità di preservare in qualche misura gli incassi di Natale ed anche dalle aspettative di chi alle tradizioni non vuole rinunciare, ci salveranno da una terza ondata?
Che vuole che le dica. Ogni volta che c’è un aumento dei contatti fra le persone, senza che questo venga bilanciato da un aumento delle misure di sorveglianza, aumentano anche i contagi.
Quali sarebbero le misure di sorveglianza, che andrebbero predisposte?
Le misure di sorveglianza andavano stabilite prima. Ora, il Governo sceglie misure di compromesso, fra la decisione politica di salvaguardare l’economia e la necessità di tenere i contagi il più possibile sotto controllo. A tutt’oggi, prevedere quale sarà il loro impatto è difficile, se non impossibile.
La terza ondata è inevitabile?
La terza ondata? Se non ci salva il vaccino, non abbiamo nessun altro strumento per contenerla. Se, poi, come sembra, a gennaio riapre tutto, a partire dalle scuole, la terza ondata diventa assolutamente inevitabile
Continua a mancare, per di più, un protocollo unico di cura?
Un protocollo unico non c’è, perchè al momento non esiste nessuna terapia specifica, ma solo trattamenti, finalizzati a contenere la patologia.
Lei. che cosa prescriverebbe a un malato di Covid?
La tachipirina, come antipiretico, il cortisone, come antinfiammatorio, un anticoagulante. Alcuni aggiungono plasma immune.
Che cosa avrebbe fatto di diverso, in vista del periodo natalizio?
Quello che si doveva fare, lo si doveva fare prima. A maggio, a luglio, al massimo a settembre.
Quindi, il percorso è obbligato, quasi senza speranza?
Guardi, fino a quando non si fa un vero lockdown, non si abbattono i casi. E andiamo avanti così. Dieci morti in più. Dieci morti in meno.
La gente sembra assuefarsi a un numero di morti, che è, invece, drammatico e inaccettabile…
Sì, come se fosse ordinaria amministrazione. Tenga peraltro presente che qualsiasi malattia infettiva è potenzialmente prevenibile.
E quindi?
E, quindi, gli ottocento morti al giorno testimoniano il fallimento totale dell’azione di prevenzione.
L’unica speranza è un vaccino, che funzioni davvero. Lei è ottimista o dubbioso?
Speranzoso.
(da TPI)
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Dicembre 14th, 2020 Riccardo Fucile
L’OPERAZIONE DI UNA CELLULA COMPOSTA DI 15 AGENTI ALTAMENTE QUALIFICATI GUIDATI DAL GENERALE BOGDANOV; RICOSTRUITI CONTATTI, SPOSTAMENTI E TELEFONATE
C’è un nome dietro l’avvelenamento dell’attivista russo Alexei Navalny.
Si tratta di Vladimir Bogdanov, generale che ha come suo diretto superiore solo il direttore del servizio federale per la sicurezza della Russia (FSB), Alexander Bortnikov.
Il quale a sua volta risponde al presidente russo Vladimir Putin.
È quanto emerge da una lunga inchiesta del sito investigativo Bellingcat, condotta in collaborazione con The insider, Cnn e Der Spiegel, che ha portato alla luce i dettagli dell’operazione dietro l’avvelenamento dell’oppositore di Putin.
L’unità che ha condotto l’operazione
Attraverso l’analisi di contenuti open source e banche dati di varia natura, tra cui i metadati degli operatori telefonici e i report dei biglietti di viaggio delle compagnie aeree, Bellingcat è riuscita a risalire ai sicari che avrebbero avvelenato Navalny con il Novichok a Tomsk.
La cellula opera sotto il controllo dei servizi di sicurezza russi. Si tratta di un gruppo clandestino di personale altamente qualificato nella gestione di materiale chimico: Bellingcat ha individuato 15 persone, otto delle quali «erano in stretto contatto in varie fasi delle operazioni di pedinamento di Navalny nei giorni e nelle ore precedenti il suo avvelenamento». Tra loro anche scienziati ed ex medici.
Le telefonate ai vertici dell’Fsb
Secondo l’inchiesta, la cellula avrebbe seguito Navalny in ogni suo viaggio nel 2017, l’anno in cui aveva annunciato che si sarebbe presentato alle presidenziali del 2018. L’esperienza accumulata negli anni, avrebbe permesso alla squadra di colpire Navalny anche fuori da Mosca.
Nei giorni in cui l’oppositore veniva avvelenato, Bellingcat ha documentato numerose telefonate e messaggi dei sicari dislocati sul campo e i loro dirigenti a Mosca, nonchè tra i dirigenti stessi e i vertici dell’Fsb.
Nei mesi scorsi, Bellingcat aveva individuato anche i responsabili di un’altra operazione segreta, una delle tante, condotta da Mosca, quella relativa al caso Skripal. Si tratta di Anatoliy Chepiga e Alexander Mishkin: sarebbero stati loro ad avvelenare la spia russa del governo inglese, Sergei Skripal, e la figlia, Yulia Skripal, a Salisbury, nel Regno Unito, a marzo del 2018.
(da agenzie)
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Dicembre 14th, 2020 Riccardo Fucile
“PENSAVO FOSSE UNA SOCIETA’ SCIENTIFICA”: HA PRESO ESEMPIO DA SCAJOLA
Maria Rita Gismondo scambia AfD (Alternative fà¼r Deutschland), movimento di estrema destra tedesco (con esponenti in parlamento, ma con la crescente attenzione della sicurezza pubblica sui propri metodi di ingaggio e sui suoi contenuti) per una società scientifica.
È l’ennesima frontiera dell’a sua insaputa, la favolosa rubrica che — dal caso Scajola-appartamento al Colosseo in poi — accompagna tutte le meravigliose retromarce di personaggi pubblici italiani a cui vengono contestate azioni e criticati comportamenti.
Nel corso di un’intervista rilasciata all’inviata dalla Germania di Repubblica, Tonia Mastrobuoni, la Gismondo sottolinea come sia stata «ingenua» ad accettare l’invito al Bundestag del partito di estrema destra tedesco e, contestualmente, ad aver rilasciato un’intervista a un giornalista — Billy Six — negazionista, sostenendo che i numeri del coronavirus in Italia erano confusi e di non poter affermare con certezza che i camion militari a Bergamo contenessero le salme dei defunti.
La risposta che più stupisce, però, riguarda il fatto che una scienziata dell’ospedale Sacco di Milano possa in qualche modo confondere — per di più recandosi in Germania e senza controllare nonostante fossero passati giorni dall’invito — l’AfD per una società scientifica. «Quando ho ricevuto l’invito dal Bundestag — dice la Gismondo — sulla lista degli invitati c’erano altri accademici e una persona del ministero della Salute. Non ho guardato il simbolo, pensavo fosse una società scientifica. Credevo a un’ospitalità istituzionale di un convegno scientifico».
Una risposta decisamente spiazzante, soprattutto se si considera che Maria Rita Gismondo — per molti media italiani — sia stato una sorta di punto di riferimento nel commentare la pandemia e la sua diffusione nel Paese. Un ruolo che non ha mancato di destare polemiche e che, a questo punto, pare quantomai colpito da una circostanza del genere.
(da agenzie)
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Dicembre 14th, 2020 Riccardo Fucile
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