Dicembre 15th, 2020 Riccardo Fucile
L’ALTERNATIVA ALLA LEADERSHIP DI BERLUSCONI, IL VOTO DI SFIDUCIA FALLITO PER TRE VOTI… CHE LA COERENZA NON SIA DI QUESTA TERRA LO DIMOSTRA LA FINE CHE HANNO FATTO MOLTI LORO ESPONENTI, MIGRATI IN PARTITI CON IDEE OPPOSTE IN CERCA DI UNO STRAPUNTINO
Pentiti? No. “Il pentimento non appartiene agli uomini di destra”. Dieci anni fa, il 14 dicembre
del 2010, fallì il primo vero tentativo di contrastare la leadership di Silvio Berlusconi nel centrodestra strappando il tessuto di quella coalizione che dalla Casa delle Libertà era arrivata al Popolo delle Libertà .
La mozione di sfiducia voluta da Gianfranco Fini contro l’allora premier si infranse a Montecitorio per tre voti.
Finì 314 a 311, con il presidente della Camera tradito dal pallottoliere (come Romano Prodi) e infilzato da voltafaccia all’ultimo istante.
Pochi mesi prima un’inchiesta del “Giornale” aveva aperto il vaso di pandora dell’affaire Montecarlo, con le ramificazioni offshore, le grane familiari e i guai giudiziari che tuttora affliggono l’ex presidente della Camera. Relegandolo nel cono d’ombra e di silenzio che si è auto-imposto fino alla fine delle inchieste, e condannando la sua creatura, Futuro e Libertà , a prematura dissoluzione.
Gli addii cominciarono con l’astensione del fino a quel momento fedelissimo Silvano Moffa e proseguirono tra litigi, divisioni, recriminazioni.
Alle elezioni del 2013 in Parlamento rientrarono in tre, e tra loro non c’era Fini.
Dalla dèbacle discese la diaspora, al punto che oggi se si googla la sigla Fli ad uscire per prima è la Federazione Logopedisti Italiani.
I protagonisti di quella stagione si dividono grosso modo tra chi ha lasciato la politica e chi invece si è avvicinato al partito di Giorgia Meloni.
Da Fli a Fdi: una consonante che separa il sogno di una destra repubblicana e laica dalla realtà di un partito sovranista più vicino a Orban che alla Merkel.
Un tragitto tortuoso, ancor più per chi, come ad esempio Adolfo Urso, rappresentava l’ala ultra-liberal della pattuglia finiana.
Il ricordo di quella sventurata blizkrieg per chi l’ha vissuta miscela amarezza e orgoglio, rimpianto per gli errori e fiducia nel giudizio della storia.
Huffington Post è andato a cercarli. A partire dal leader, che però ha preferito non commentare.
Tra idealisti e professionisti della politica
La data del 14 dicembre fu lo spartiacque. Ma l’inizio della fine va collocato prima. Nel lungo mese fino alla calendarizzazione della mozione: “Il Quirinale diede tempo a Berlusconi e Verdini di organizzare il campo e recuperare i voti — sostiene più di un ex finiano — Fu chiaro a tutti, Gianfranco per primo, che eravamo nei guai. E che la partita diventava improvvisamente impossibile”.
Era cominciata di corsa: la rottura consumata con il deferimento ai probiviri del “triumvirato” — Italo Bocchino, Carmelo Briguglio e Fabio Granata — la “guardia scelta”, i “non colonnelli”, e l’ormai iconico “che fai mi cacci?” scandito da un Fini attonito quanto furioso.
Fecero le valige 33 deputati e 10 senatori inseguendo il sogno di un’altra destra — alcuni — e la speranza di conquistarsi un posto al sole saltando le tappe del cursus honorum — altri.
C’era la resistenza al protagonismo di Forza Italia nella costruzione del Pdl. E c’erano le istanze campanilistiche: al Nord, dove An era ormai rasoterra, l’accordo per il 30% delle candidature comuni sembrava il Bengodi; al Sud, se ne pagava il conto. Difficile separare il grano dal loglio.
A Bastia Umbra, quando fu presentato il manifesto, regnava un clima viscerale da “Stato nascente” che mescolava calcolo politico e convinzioni, professionismo e carica emotiva. Su tutto, la certezza che fosse il momento di giocarsi quelle carte.
“Sono orgoglioso di aver fatto parte di una cosa bella”, racconta su Skype Enzo Raisi. Bolognese di madre spagnola, manager nell’export, era l’amministratore del “Secolo d’Italia” che finì nelle mani dell’ala berlusconiana. Oggi vive tra Valencia e un paesino della Mancha dove ha ricominciato da un’azienda di marketing e commercio internazionale: “Rivendico il nostro coraggio, che oggi molti mi riconoscono. Non so quanti manifesti ho attaccato nella mai vita, adesso si va in Parlamento con due tweet”. Sta scrivendo un libro, si intitola “La casta siete voi”.
Cosa andò storto? “Forse i tempi non erano maturi. A Fini imputo di averci mandato in battaglia con le cerbottane contro i carri armati. La stampa di centrodestra fu micidiale contro di noi”.
Ne sa qualcosa Flavia Perina, che lasciò la direzione del “Secolo” dopo aver tentato di renderlo avanguardia culturale di quell’avventura, e non ritrovò il posto. Era entrata in Parlamento con le “liste rosa” volute da Fini in assenza della legge che lo imponesse, insieme a Giulia Bongiorno e Catia Polidori (che al momento decisivo voltò gabbana).
Nel 2013 “cademmo tutti senza rete — ricorda Raisi — Anche Fini, che aveva scelto la Camera rispetto al più facile Senato”.
Una scelta coraggiosa o forse kamikaze, visto che — col senno di poi – lo scudo dell’elezione avrebbe potuto indirizzare in altro modo le sue vicende processuali. Ma tant’è.
“Per prima cosa andai via da Bologna — prosegue Raisi – Non puoi restare dove sei stato troppo potente”. Oggi rivendica un equilibrio: “Non rimpiango nulla. Forse un po’ la politica che ti entra nel cuore. Ma ho rifiutato offerte: quando chiudi, chiudi”. Perina è tornata all’altrettanto appassionante mestiere di giornalista.
Andrea Ronchi, che rinunciò al posto di ministro delle Politiche Comunitarie -l’unico in quota An di quel governo- poi si divise da Fini, fondando un proprio movimento, salvo alla fine abbandonare del tutto la politica.
Italo Bocchino, che di Fli è stato presidente ad interim, si definisce “pensionato della politica” e fino all’anno scorso è stato direttore del “Secolo”. E’ indagato nell’inchiesta Consip ma — precisa — con due richieste di archiviazione.
Neppure lui rinnega il passato: “Per il centrodestra è stato il punto più alto sul piano dei contenuti, sensibile all’Europa e ai diritti civili, la sua espressione più matura dal Dopoguerra. Ma è stato il punto più basso sul piano tattico: presentare la mozione di sfiducia insieme alla sinistra non è stato compreso dai nostri elettori, e quel passaggio ha inficiato l’intero percorso”.
Un peccato? “Non è la parola giusta. La destra poteva ambire a un percorso più evoluto. Non sono sovranista”. Per quanto: “A FdI do il voto e il due per mille”.
Da Fli a FdI: un tragitto per alcuni
Già : la formazione di Giorgia Meloni è diventata, presto o tardi, punto di approdo di diversi orfani finiani. Con buona pace della presenza di Forza Italia nella coalizione.
Da ultimo il senatore Claudio Barbaro: “Per me è un ritorno a casa”. Rieletto due anni fa con la Lega, Barbaro era tra i “caduti” del 2013.
Gli unici a farcela furono Mario Caruso, Aldo Di Biagio (circoscrizione Esteri) e Benedetto Della Vedova, al Senato con la lista unica che fu l’embrione di “terzo polo”. Ma anche Adolfo Urso, che all’epoca ci rimise la poltrona di viceministro, oggi è senatore con FdI (e del passato non parla volentieri).
O Roberto Menia, ex coordinatore nazionale fliniano oggi responsabile Esteri FdI.
Altri, invece, hanno preso strade diverse.
Fabio Granata, ex vicecoordinatore di Fli, è assessore alla Cultura di Siracusa “in un patto civico alternativo al centrodestra a trazione berlusconiana”.
Su Facebook si definisce “politico, ambientalista, avvocato, scrittore greco romanista, uomo libero”.
Di quei giorni ricorda la partecipazione: “Eravamo acclamati ovunque, dai tetti di Architettura alle manifestazioni del Popolo Viola”. Rivendica di aver “bloccato lo smantellamento del sistema giudiziario”.
Errori? “Se Fini si fosse dimesso un minuto dopo la fallita sfiducia, oggi parleremmo di altro. Esiziale fu poi appiattirci su Monti e Casini, l’opposto di quello che i militanti si aspettavano. A partire dai 10mila di Bastia Umbra. Fu un suicidio politico”. Conclusione agrodolce: “Spero che la nostra battaglia venga rivalutata anche a destra e non giudicata solo attraverso la macchina del fango contro Fini. Avevamo comunque ragione noi”.
Carmelo Briguglio, giornalista e poi vicecoordinatore fliniano, è tornato nella sua Sicilia dove fa parte dello staff di Musumeci.
Sui social traspare la nostalgia: “Ex politico di razza estinta, deputato della Repubblica di un tempo perduto, intellò conservateur”.
Racconta il distacco: “Da tempo ho chiuso con la politique politicienne, traguardi e candidature. Sono sereno, ma manca una vera ricostruzione del senso politico di quella stagione”.
Sbagli? “Ne commettemmo e ne subimmo di maggiori. Non tradimmo nessuno se non, senza capirlo, noi stessi e la nostra natura. I successivi casi Alfano, Bondi, Frattini, Cicchitto, etc sono troppi per non segnalare una questione politica”.
La storia (forse) si ripete
Ma alla base della frattura c’erano – come oggi ricordano in tanti – diversi fattori: la battaglia per una destra sociale e legalitaria, il dibattito sullo ius soli, il caso di Eluana Englaro che aprì un burrone sul campo dei valori e della laicità , ma anche la “prepotenza fagocitante” di Forza Italia e della sua impostazione.
“C’erano da difendere un mondo, delle idee, una storia, una visione dello Stato — fa un’analisi lucida Briguglio – umiliati da una concezione ad personam delle istituzioni. Lo dico senza rancore: non poteva essere la storia missina e di An”.
Due gli errori: “Quello politico fu la mozione di sfiducia, dovevamo uscire dal governo, ma non dal perimetro della maggioranza. Non ne discutemmo, non ho mai saputo dove e da chi fu presa la decisione. E quello culturale ce lo insegna Augusto Del Noce: un’area politica può evolversi, ma sempre nella sua tradizione. Non esiste una “destra di sinistra” e neppure una “nè destra nè sinistra”.
Quanto a Fini “non ero suo amico personale, e non ho mai creduto nel “finismo”. Ma nonostante errori e ingratitudini, è stato un leader importante. Non è stato una parentesi e non potrà essere rimosso dalla storia della destra italiana”.
Alla distanza geografica da quella stagione di Raisi in Spagna fa da contraltare quella politica di Benedetto Della Vedova, ex Radicale che entrò in Fli (diventandone capogruppo) dopo essere già stato “ospite” del PdL come “riformatore liberale”, poi senatore in quota montiana e oggi segretario di + Europa.
“Nessun pentimento, era una fase particolare — rievoca ora – Con Fini ci incontrammo avendo alle spalle storie diverse. In quel momento vedo l’inizio della trasformazione del Dna del centrodestra: dalla rivoluzione liberale e la vicinanza al Ppe al sovranismo di oggi”.
A favorire la scintilla fu un episodio, nei giorni cupi che precedettero la morte di Eluana Englaro, quando il Pdl spinto da Sandro Bondi e Gaetano Quagliariello premeva per un decreto: “Passai la notte fuori da Montecitorio con un cartello che diceva “lasciamola andare”.
L’unico a incoraggiarmi nel centrodestra fu Gianfranco. Vidi da un lato l’embrione di una forza fascio-leghista e dall’altra Sarkozy, Cameron, l’humus della fondazione FareFuturo. Con noi vennero Luca Barbareschi, Chiara Moroni, Alessandro Ruben…”.
Dieci anni dopo, lo sguardo non è cambiato: “Era una battaglia dura ma doverosa. A fine legislatura Berlusconi cadde, ma la sfida per la costruzione di un centrodestra diverso fu perduta. Soffiava già un vento trumpiano ante-litteram”.
Con un paradosso un po’ beffardo: “Oggi Forza Italia è residuale, un piccolo nucleo che si oppone al nazionalismo euro-scettico più vicino a Orban che alla Merkel”.
E dentro gli azzurri, c’è chi progetta una scissione per difendere i propri valori, il proprio passato, l’ancoraggio europeo. Se diventerà realtà , questa è un’altra storia, e non è ancora stata scritta.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 15th, 2020 Riccardo Fucile
SOLO UN RITUALE DI SOPRAVVIVENZA DI UN CETO POLITICO
È chiaro: è una mossa. Per tenere aperta la crisi strisciante. Evidentemente anche per prendere tempo.
Certo è tattica, in una situazione di dominio assoluto della tattica. Renzi, letti i giornali, decide, col pretesto che il ministro Bellanova è a Bruxelles, di far saltare l’incontro col premier. Poi scrive una e-news in cui maliziosamente loda Draghi, per analisi e visione (che è un po’ come sventolare un drappo rosso nella corrida) e ribadisce che, se non si farà una discussione seria a partire da un documento che presenterà al premier quando sarà , le poltrone delle sue ministre sono a disposizione.
Insomma, Conte sta provando a troncare, sopire, tra predisposizione “ascolto”, “confronto approfondito”, l’altro vuole portare la discussione sul suo terreno, consapevole che questi incontri, così come si svolti finora, non servono a nulla, come raccontano anche i presenti del Pd.
E assicura che fa sul serio: per un po’ il gioco sarà tutto così, incontri, bluff, rilanci, attesa della contromossa; si approverà la finanziaria, poi arriverà il tempo di una “mossa” che spariglia, al momento datata all’inizio del prossimo anno.
E che non è vero ciò che maliziosamente si sussurra nel Palazzo, e cioè che i suoi gruppi sono spaventati dall’eventualità del voto, inducendolo a una retromarcia.
Di mosse a disposizione in questo gioco Renzi ne potrebbe fare parecchie, rispolverando i classici dei “chiarimenti”: c’è sempre un “più uno” giocando sul filo. E figuriamoci se il premier, esperto a sua volta in tattiche dilatorie, ha intenzione, come di dire “vedo”, giocando d’anticipo.
In fondo, basterebbe andare in Parlamento, chiedere un voto di fiducia su un programma e chiudere la storia: o la va o la spacca. Soprattutto se fosse vero ciò che viene detto senza paura del pericolo e cioè che si è pronti al voto (altra chiacchiera tattica).
Morale, direbbe il poeta: qui si ciurla nel manico, tra “tagliandi”, “cambi di passo”, “riassetti”, “chiamate delle energie migliori”, “raccolta dei contributi”, “ricerca delle sinergie”, “tavoli”, “ascolti”.
Con un certo compiacimento dei protagonisti che hanno ritrovato il palcoscenico dell’inconcludenza, al punto che dalle prime pagine dei giornali è scomparsa la parola “morti” e si parla di “verifica” o di tutti i sinonimi possibili della parola bandita che però è l’unica che andrebbe usata perchè di questo si tratta: rimpasto.
Di questo si sta parlando adesso che all’ordine del giorno c’è la discussione sul Recovery: di chi avrà potere per gestire una valanga di soldi. Quali uomini e quali strutture.
Non c’è da scandalizzarsi, la politica è anche questo. Basterebbe chiamare le cose con il loro nome senza l’ipocrisia di una discussione iniziatica.
Se però è solo questo, è la tumulazione della politica, come emerge da tutto il resto. Tutto il resto è la seconda ondata ha fatto pressochè più morti della prima, ma per il premier “le misure stanno funzionando” perchè “abbiamo evitato il lockdown generalizzato”.
E poco importa che le misure in questione per evitarlo, compreso lo spostamento tra comuni diventato oggetto di baratto politico con le opposizioni e date per sufficienti solo una settimana fa al 24esimo dpcm saranno messe in discussione nel 25esimo con la creazione di una zona rossa o arancione per il Natale.
E ancora, tutto il resto è la vicenda del rapporto dell’Oms, in relazione all’aggiornamento del piano pandemico italiano non meritevole di essere chiarita in Parlamento.
Il confronto su come affrontare una terza ondata data per ineluttabile anche dal punto di vista economico fuori dal dibattito politico, come se non fosse politica.
Tutto racconta che dalla cosiddetta verifica è rimosso il tema dell’emergenza sanitaria, ovvero il principio di realtà .
Detta in modo brutale: ci sono i soldi e il potere, meno la salute. A conferma di quel che questa verifica è: un rituale di sopravvivenza di un ceto politico, a prescindere dalla sopravvivenza delle persone. Che, ad oggi, ancora non sanno cosa potranno fare a Natale, ma hanno appreso che a palazzo Chigi ci sono una serie di incontri con i partiti dove non si capisce di cosa si parli, con l’evidente sensazione in questa fase di angoscia di essere in mano a una classe dirigente la cui responsabilità è superiore al proprio spessore, persa nel proprio particolare.
Un vecchio intellettuale francese avrebbe urlato, con una qualche ragione, al tradimento dei chierici.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 15th, 2020 Riccardo Fucile
LE LORO STORIE DI DOLORE E DISPERAZIONE RACCONTANO LA SOLIDARIETA’ REALE CHE SI FA NON SOLO CON IL DENARO
Luigi Ronzulli, fondatore della Cascina Solidale Marchesa, mi spiega con semplicità la ragione
d’essere di questo luogo speciale. “Abbiamo cominciato a ricevere — mi racconta — continue richieste d’aiuto da parte di persone in gravissima difficoltà , dimesse dai reparti ospedalieri in cui erano ricoverate per problemi molto lievi a causa del Covid. Qui hanno trovato, anche grazie alla disponibilità di altri ospiti della cascina, la possibilità di trovare una quotidianità , una compagnia e una presenza di persone e di affetto che li riporta alla vita”.
Luigi Ronzulli, infermiere, non è nuovo a queste iniziative di solidarietà e l’ho conosciuto per la prima volta quando mi ha aperto le porte della Casa dei Padri Separati, l’unica a Torino ad occuparsi di padri in emergenza abitativa.
Anche questa Cascina è sostenuta da privati e con un contributo della Città di Torino.
Ho parlato con Carlo (nome di fantasia), un passato da senzatetto anche lui, che ha trovato nella Cascina una missione esistenziale, in grado di riportarlo indietro da un baratro di parole non dette, di promesse non mantenute e di vita in mezzo alla strada.
“Questo luogo — mi ha spiegato — mi consente di darmi agli altri, di aiutarli, mettendomi alle spalle tutti i problemi organizzativi e pratici che comporta la vita. Qui posso solo concentrarmi ad aiutare gli altri e questo mi basta. Adesso questo è un posto che ripara le persone, in futuro sarà una stampella momentanea per chi è in difficoltà ”
Proprio la metafora della stampella mi aiuta a capire perchè la Cascina Solidale, invece che una eccellente idea di un gruppo di volontari, non sia un progetto nazionale e applicato con costanza in tutto il paese per il recupero di persone spezzate, come le definisce Carlo.
“Questi luoghi — mi conferma Luigi Ronzulli — sono nati perchè le leggi dello Stato hanno dei vuoti tra un momento e l’altro del percorso di recupero di una persona. Prendiamo ad esempio il reddito di cittadinanza, che aiuta chi non ha nulla. Se non hai un domicilio non puoi riceverlo. Qui, oltre alle altre cose, diamo un domicilio a chi non ce l’ha, consentendogli l’accesso al Reddito di Cittadinanza”.
Magari bastassero i soldi. Non riesco che pensare a questo mentre mi scorrono di fronte agli occhi le immagini di queste vite compromesse, che tentano la salita della difficile china del recupero alla normalità .
Come la vita di Osvaldo, 65 anni, che ha passato molto tempo tra dormitori e problemi di alcolismo che in ultimo lo avevano condotto a vivere in ospedale.
Il Covid lo ha spinto fuori ed è stato accolto qui, ma la strada ha lasciato un segno indelebile sulla sua mente, causandogli dei lievi problemi alla memoria a breve termine. Le sue due figlie non lo vengono a trovare, forse non sanno nemmeno dove sia, e qui alla Cascina ha trovato una regolarità che lo aiuta a ritrovare la sua dignità , a dargli (per usare le parole di Luigi Ronzulli) un “motivo per alzarsi dal letto la mattina”
(da Fanpage)
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Dicembre 15th, 2020 Riccardo Fucile
GLI ESPERTI DEL COMITATO TECNICO-SCIENTIFICO DIVISI NELLA SCELTA TRA ZONA ROSSA O ARANCIONE
«Alla fine abbiamo raggiunto un punto d’incontro». Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico scientifico, assicura così che dopo ore di riunione, i vari componenti del Cts hanno condiviso all’unanimità la necessità di inasprire le misure di contenimento del contagio. «Al ministro Roberto Speranza e al governo — ha spiegato — abbiamo quindi suggerito di considerare quanto previsto dalla normativa già in vigore».
Dopo il lungo vertice di oggi, il Cts ha confermato la linea della «preoccupazione». Come scrive La Repubblica, gli esperti hanno ribadito quella che per loro resta una necessità per il periodo natalizio: che il governo metta in atto misure «finalizzate all’inasprimento delle misure», servendosi delle misure previste per le zone rosse e arancioni. Tuttavia, il Cts non ha fornito indicazioni su chiusure specifiche, come riporta il Corriere della Sera.
Intensificare i controlli
Il rischio di peggiorare le cose è troppo alto e, secondo i tecnici, è necessario intensificare i controlli. In primis coinvolgendo massivamente le forze dell’ordine, impiegate sui territori per monitorare gli spostamenti.
Bisogna farlo «nella consapevolezza delle specificità del periodo cui si va incontro, dei rischi specifici relativi alla mobilità e alla aggregazione nei contesti familiari e sociali». Questo tipo di aggregazioni «si ripercuotono» oggi come non mai sul «consolidamento del controllo del contagio che, ad oggi, registra un indice Rt nazionale inferiore a 1 e che necessita di azioni di grande prudenza in occasione del periodo delle festività natalizie».
Evitare assembramenti
In definitiva, per gli esperti è importante che le autorità politiche evitino al massimo il verificarsi di assembramenti, sia nelle aree pubbliche che in quelle private. Bisogna «garantire» il distanziamento interpersonale e l’uso corretto dei dispositivi di protezione individuale in ogni occasione, dati anche gli episodi di questi giorni. «Si valuta con molta preoccupazione — dicono gli esperti — il riscontro di grandi aggregazioni tra persone osservate in diverse aree del Paese, soprattutto nei centri storici e nelle aree metropolitane, nonchè la difficoltà di contenimento/prevenzione delle aggregazioni medesime».
Zona diffusa arancione o rossa?
Da qui la necessità di chiudere il più possibile. Bisogna, scrive il Cts, che si faccia una seria riflessione sull’inapplicabilità della zona gialla durante le feste, perchè evidentemente non basta a tenere sotto controllo la curva di morti e contagi ora che quasi tutta Italia lo è diventata. I letti occupati in terapia intensiva sono ancora troppi in molte Regioni, dicono, e la strada da seguire deve essere quella di utilizzare gli strumenti di chiusura disposti nel Dpcm del 3 dicembre — cioè l’imposizione di una zona diffusa arancione o rossa. Un’opzione su cui il Cts non è però apparso compatto.
Da una parte — riporta ancora il Corriere — c’è chi chiede che le prossime settimane dei cittadini siano regolate sulla base delle misure previste dalle zone rosse e chi vuole invece un approccio “più aperto” senza riferimenti specifici ai provvedimenti da prendere.
(da agenzie)
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Dicembre 15th, 2020 Riccardo Fucile
SEBASTIANI (CNR): “DATI SUI DECESSI UGUALI ALLA PRIMA ONDATA, NON ABBIAMO IMPARATO NULLA”
Il numero dei decessi non migliora e la curva dei positivi non si abbassa. 
Anche il numero dei nuovi ingressi nelle terapie intensive rimane preoccupante. A dieci giorni dal Natale, la situazione Coronavirus in Italia è talmente in bilico che anche il governo — inizialmente più incline a deroghe per i giorni di festa — si sta convincendo che non sia il caso di rischiare.
Anche oggi, 15 dicembre, a due mesi esatti dall’inizio della seconda ondata, in Italia si sono registrati 846 decessi e 14.844 nuovi positivi.
Open ha chiesto al professor Giovanni Sebastiani, matematico del Cnr, di provare a capire a che punto siamo in Italia con l’epidemia.
Professor Sebastiani, cosa ci dicono le sue previsioni? Quando caleranno i decessi?
« I morti sono ancora tanti ma il trend è chiaro. Il picco massimo lo abbiamo superato: con i dati fino a oggi risulta essere attorno al 31 ottobre, ma è verosimile che tra due settimane lo localizzaremo nei primi giorni di novembre. Secondo le mie proiezioni entro Natale la curva teorica dovrebbe essere stabilmente sotto i 500 morti giornalieri. Da ora in poi continueremo a vedere diminuire la media delle oscillazioni. Per quanto riguarda i numeri assoluti, negli ultimi 60 giorni — e cioè dal 17 ottobre, quando per la prima volta siamo saliti, con la curva teorica, oltre i 50 decessi giornalieri — abbiamo contato 29.430 morti ».
Qual era il dato sui morti in primavera considerando lo stesso arco di tempo?
«È stato praticamente identico: 29.451 nei 60 giorni dall’ 8 marzo al 6 maggio».
Questo cosa vuol dire?
«Vuol dire che non abbiamo imparato assolutamente niente da questa malattia e su come ridurre i decessi».
Dai dati quotidiani capiamo anche che c’è un problema con le terapie intensive e con il numero dei positivi sui casi testati: non riusciamo a piegare la curva. Che succede su quei fronti?
«Quei dati oscillano ma non calano. Sia dagli ingressi in terapia intensiva che dal numero di positivi sui casi testati, si vede che c’è una stasi. Una situazione che definirei sul filo del rasoio. Prendiamo ad esempio la Germania: da un paio di settimane è in crescita esponenziale con tempo di raddoppio di circa sette giorni, dopo che per circa un mese era stata in stasi. Ecco anche perchè Angela Merkel ha fatto quell’appello accorato. E che abbiamo noi di diverso dai tedeschi? La situazione potrebbe esplodere anche qui. Il rischio di finire come la Germania è dietro l’angolo».
Ma quando abbiamo iniziato a smettere di scendere
«La stasi su entrambi i fronti è iniziata circa i primi giorni di dicembre. Ovvero circa dieci giorni dopo il 23 novembre: la settimana del Black Friday, degli sconti. Prima che si riaprissero i negozi, da circa metà novembre la curva aveva iniziato a scendere. Ma ora quel trend in discesa non lo vediamo più».
A proposito di riaperture, è d’accordo con il Cts che chiede di inasprire le misure a Natale e con Rezza che ci va cauto per quanto riguarda la riapertura delle scuole?
«Assolutamente sì. In questa situazione non bisogna rischiare».
Da più di 10 giorni è disponibile il dato sugli ingressi giornalieri nelle terapie intensive. Si può già capire qualcosa sull’andamento?
«Si può già vedere che c’è una periodicità settimanale: i minimi sono stati il 7 e il 14 dicembre».
E invece come vanno le cose in Veneto? La Regione sta faticando non poco nonostante sia zona gialla
«In Veneto vediamo che solo ora la curva delle terapie intensive e dei positivi sui casi testati si sta appiattendo. Ma non ci vuole niente per farla risalire: dipenderà da come si deciderà di agire».
(da Open)
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Dicembre 15th, 2020 Riccardo Fucile
L’ISTITUTO DI SEATTLE AVEVA GIA’ AZZECCATO CON PRECISIONE LE VITTIME DELLA PRIMA ONDATA
Saranno 99mila i decessi per virus in Italia il 31 marzo. Ma 136mila (il 36% in più) se abbasseremo la guardia con mascherine e distanziamenti.
La millimetrica precisione con cui l’Ihme (Institute for Health Metrics and Evaluation) dell’università di Washington a Seattle calcola le sue proiezioni può sembrare un po’ campata in aria. Invece ci azzeccano: già in aprile avevano previsto con tre mesi di anticipo il totale dei morti della prima ondata, 36mila. E 36mila furono.
Ci conviene quindi dar retta alle loro estrapolazioni, in questi giorni di false speranze e rilassamenti natalizi.
Se il vaccino funzionerà rapidamente, da gennaio, potremo avere uno ‘sconto’ di mille vittime in meno. Ma il carico degli attuali 686mila positivi purtroppo è già destinato automaticamente a causare nei prossimi tre mesi altri 35mila decessi, oltre ai 64mila attuali.
La seconda ondata, alla fine, ci costerà il doppio della prima. E proprio per questo dobbiamo evitarne una terza a gennaio, frutto di assembramenti da adesso a fine anno.
Anche altre quattro tendenze vietano ogni spensieratezza.
La prima: siamo già i terzi peggiori al mondo, con i nostri 1.068 morti per milione di abitanti. Ci superano soltanto Belgio (1.546) e Perù (1.105), per ora. Ma all’attuale ritmo supereremo anche il Perù entro una settimana.
Secondo dato: abbiamo passato tutta l’estate guardando con commiserazione i disastri in Usa e Brasile. Battevano ogni record negativo, mentre noi ci illudevamo di esserne fuori. Ebbene, oggi loro stanno meglio di noi: gli Usa sono a 923 e il Brasile a 851 vittime per milione di abitanti.
Terzo dato. L’8 dicembre la Germania ha registrato un picco di 622 decessi in un giorno, che ha provocato la reazione drastica di Angela Mekel: lockdown duro fino al 10 gennaio.
Ebbene, non è il caso di abbandonarsi a un consolatorio e inconfessabile “mal comune, mezzo gaudio”. Infatti la Germania resta lontanissima da noi come bilancio totale, a 268 per milione: il 75% in meno. E, soprattutto, negli ultimi giorni le loro vittime si sono ridotte fino alle 111 del 14 dicembre.
Quarta tendenza infine, la più preoccupante. Abbiamo superato il picco, ma il ritmo della discesa della curva è assai più lento di aprile-maggio.
Allora le terapie intensive diminuivano al ritmo di 50-100 al giorno, i ricoveri di parecchie centinaia, e questo ci ha permesso di quasi svuotare i nostri ospedali a luglio. Adesso invece i posti in rianimazione si liberano con lentezza esasperante, e solo perchè purtroppo i morti superano i nuovi arrivi.
Quanto ai ricoveri nei reparti normali, il 14 dicembre sono addirittura aumentati, invertendo la tendenza.
Brutte notizie, insomma, ma meglio affrontarle piuttosto che rischiare ulteriori dolorose ricadute.
(da agenzie)
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Dicembre 15th, 2020 Riccardo Fucile
LO SFOGO DI UN OPERATORE SANITARIO MENTRE IN CITTA’ CONTINUA LA RESSA PER LO SHOPPING… IL FALLIMENTO DI ZAIA
“All’ospedale di Borgo Trento a Verona non c’è più posto per ospitare i pazienti in una stanza.
Anche se sono in fin di vita. E qualcuno è morto in corridoio“.
E’ la denuncia di un operatore sanitario scaligero che, intervistato dal Tg Rai Regionale, ha fornito uno spaccato agghiacciante di quanto sta accadendo.
Una testimonianza forte, su cui si registra la presa di distanze ufficiale: “Stiamo valutando un esposto in Procura sul filmato uscito in questi giorni”, dice il direttore generale dell’azienda ospedaliera, Francesco Cobello. “Il servizio che offriamo è sempre rispettoso dei cittadini, abbiamo attrezzato intere aree per il Covid”.
LA DENUNCIA
“In questi ultimi giorni ho assistito delle persone che sono state accompagnate letteralmente nei corridoi a morire, perchè siamo stipati dappertutto. In tutte le stanze non c’è un buco dove poter garantire una morte dignitosa alle persone che noi assistiamo”. Queste parole danno la prova di quanto stia diventando preoccupante la situazione a Verona, una provincia dove i morti sono arrivati a 1252 unità , un quarto di tutti i 4896 decessi del Veneto.
Il dipendente dell’ospedale è stato intervistato in forma anonima, ma parla anche a nome dei suoi colleghi, provati dal super lavoro e da quello di cui sono quotidianamente testimoni.
Il suo luogo di lavoro è il reparto Covid che è stato allestito al Pronto Soccorso di Borgo Trento, mentre in città continua la ressa in centro storico per lo shopping natalizio. Un contrasto stridente.
“Dobbiamo stare attenti e la gente non deve andare in giro senza precauzioni. — continua l’infermiere — Quello che sta accadendo è drammatico. Alcuni di noi si ammalano e così si aggrava il bisogno di personale per poter completare in modo adeguato l’assistenza ai pazienti. Io ho sempre vissuto col pensiero che l’essere umano debba essere trattato come un essere umano e invece mi trovo a dover fare delle scelte che vanno contro la mia morale. E questo io faccio fatica ad accettarlo”.
LA POLITICA
La denuncia dell’operatore sanitario veronese è stata raccolta da due consiglieri regionali del Pd, Anna Maria Bigon che è vicepresidente della Commissione Sanità , e Andrea Zanoni. “A Borgo Trento si muore nei corridoi perchè non c’è più spazio. La denuncia di un lavoratore dell’ospedale veronese va oltre ogni immaginazione e questo non può essere tollerato. La Regione deve intervenire, il governatore Luca Zaia non può dare sempre la colpa al Governo”.
I due consiglieri aggiungono: “La testimonianza di un lavoratore del Pronto soccorso dimostra come le strutture siano stipate all’inverosimile. A Legnago ci sono 49 pazienti attualmente in Pronto soccorso di cui 20 con patologia Covid, in cura mentre attendono di trovare il posto letto. Nella stessa situazione si trovano rispettivamente 32 e 16 pazienti a San Bonifacio, mentre a Villafranca, dove ci sono 18 pazienti in terapia intensiva e altri 100 ricoverati, sono 19 gli affetti da Coronavirus che aspettano in Pronto soccorso. Mancano spazi e soprattutto personale, tanto che si parla di una riduzione del 30 per cento dei servizi sanitari, un’enormità ”.
La stilettata finale è rivolta al governatore Zaia: “In questa seconda ondata della pandemia il piano da lui presentato ha fallito, abbia la decenza di ammetterlo”.
(da Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 15th, 2020 Riccardo Fucile
“IL CALO E’ PIU’ LENTO DEL PREVISTO, NEL 90% DEI CASI PESA IL COMPORTAMENTO INDIVIDUALE”
Partendo dal Piemonte, da Giovanni Di Perri, responsabile delle Malattie infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia di Torino traccia un quadro non ottimistico:”l lockdown non è stato lo stesso e stiamo vedendo un calo lento, forse più del previsto. Il Veneto anzi aumenta di nuovo. Siamo ancora in ballo, purtroppo. C’è meno richiesta di prima sulle cure Covid, i numeri complessivi delle nuove infezioni sono in riduzione. Si liberano posti letto, anche se purtroppo su questo ha inciso anche il gran numero di morti che abbiamo avuto. Ci vorrà tempo. Nei reparti ancora abbiamo tanti malati, siamo ancora nella fase in cui sacrifichiamo moltissimi reparti, le altre specialità mediche. L’assistenza su altri fronti è chiaramente ridotta e sappiamo cosa ha comportato nella prima ondata”.
Questa seconda ondata di Sars-CoV-2 è “salita lentamente e lentamente sta scendendo – dice lo specialista all’Adnkronos Salute – I tempi saranno ancora abbastanza lunghi. Certo consideriamo anche che, con le protezioni in atto, può darsi che l’influenza quest’anno sia meno imponente sul piano del volume di lavoro. E’ quello che ci auguriamo di cuore, e se così fosse potrebbe riequilibrare l’impegno necessario in questo momento”.
In Piemonte oggi “noi che ci occupiamo di Malattie infettive siamo pieni fino in fondo e saremo gli ultimi a svuotarci. Ma in generale ci sono ospedali dove sono state sacrificate la Chirurgia e la Medicina interna e occorrerà riuscire a svuotarle il prima possibile”.
Dipende molto “da come ci si comporta – ragiona Di Perri – La variabile individuale pesa al 90%. Dobbiamo proteggerci e proteggere gli altri. Dipende da quanto è complessiva la responsabilità che riusciamo a costruire”.
La soluzione non può essere solo il lockdown, osserva Di Perri. Occorre organizzarsi bene per le riaperture. “I test rapidi ci sono, vedo anche le farmacie attrezzate. Dipende da noi e dal nostro senso di responsabilità . Vorrei che ci si pensasse per tempo e che si gestissero bene le riaperture, che lo Stato incoraggiasse questo tipo di atteggiamento. Cioè che facesse capire che le cose si possono fare, e ne facesse un motivo di vincoli”.
Qualche esempio? “Si possono comprare le scarpe ma nel negozio si sta dentro dieci minuti, per fare un esempio. Si organizza una cena solo se si ha un test negativo. Uno studio pubblicato ha mostrato come al primo posto fra le manovre più efficaci c’è la riduzione delle piccole riunioni. Si intende situazioni come il corso in palestra, la cena al ristorante, i meeting di lavoro. Effettivamente questo non mi sorprende: ho letto centinaia di diari di contagi di settembre-ottobre e vengono riportate tante piccoli episodi incauti: il passaggio in macchina, la visita del nipotino ai nonni, la festa di compleanno dei figli. Queste situazioni bisogna sacrificarle o organizzarle con accortezza. Un’accortezza che può essere facilitata dai tampono rapidi. Il tutto mentre guardiamo all’orizzonte del vaccino”.
(da agenzie)
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Dicembre 15th, 2020 Riccardo Fucile
“NON POSSIAMO VACCINARE MENTRE CRESCE LA PANDEMIA”
E anche tra i paesi di Visegrad, dove i sovranisti sono al governo, alla fine sono stati costretti a
fare i conti con la realtà .
Il ministro polacco della Sanità Adam Niedzielski ha chiesto ai suoi connazionali di restare a casa a Natale e durante il Capodanno, mentre il Paese si appresta a lanciare un piano di vaccinazioni contro il coronavirus.
”Non possiamo vaccinare mentre cresce la pandemia, perchè sarebbe difficile organizzare un efficace piano di vaccinazione” con i contagi in crescita, ha aggiunto, dopo che ieri aveva messo in guardia dalla terza ondata della pandemia.
La Polonia ha già messo da parte circa tre miliardi di zloty (pari a 815 milioni di dollari) per il suo programma di vaccinazione che inizierà a gennaio, ha quindi annunciato il primo ministro Mateusz Morawiecki. Nelle ultime 24 ore in Polonia sono stati registrati 6.907 nuovi casi di coronavirus e 349 morti.
(da agenzie)
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