Dicembre 8th, 2020 Riccardo Fucile
NON SOLO NON LO HANNO ATTIVATO MA E’ STATO ABBASSATO DOPO DUE GIORNI CHE LE PARATOIE ERANO STATE ALZATE
“La situazione è terribile, siamo sotto l’acqua in maniera drammatica. Il Nartece è completamente allagato e se il livello sale ancora andranno sotto anche le cappelle interne”, lancia l’Sos Carlo Alberto Tessein, procuratore della Basilica di San Marco. Sembra la drammatica serata di martedì 12 novembre 2019 quando il mondo vide affondare Venezia, invece è il pomeriggio dell’8 novembre di questo pazzo 2020.
A Venezia è accaduto l’incredibile, il replay della serie “facciamoci del male”.
Il sistema Mose, con la nuova piena in arrivo, non solo non lo hanno attivato, ma è stato abbassato dopo due giorni in cui le paratoie erano state alzate e per oltre 40 ore consecutive e anche notturne, avevano scongiurato alte maree e persino permesso la navigazione aprendo varchi.
Perchè è stato abbassato con previsioni meteo ancora da emergenza? Perchè non è stato azionato? Lo scopriremo.
Eppure il Mose, dopo decenni in sala d’attesa, ci aveva fatto tirare un respiro di sollievo. Nel Paese delle alluvioni e in permanente pandemia catastrofica da zona rossa, nell’Italia che non ci concede neanche il tempo di assorbire l’ultima settimana di tragedie e emergenze con morti e devastazioni come quelle da Bitti all’Alto Adige, mai come oggi abbiamo a disposizione risorse, tecnica e tecnologie.
Lo dimostrava Venezia, uno degli hot spot degli effetti del riscaldamento globale, dove almeno c’era una buona notizia per la città più fragile del Pianeta e per la sua delicata e complicata laguna: il mitologico MOSE funziona.
E fino a poche ore fa, finalmente, faceva il suo lavoro, bloccando l’acqua alta. Il sistema di barriere mobili aveva evitato che su Venezia si verificassero almeno due punte di acqua alta 130 centimetri.
Era la dimostrazione che la schiera di paratoie galleggianti sulla laguna funziona, e non è poca cosa per quelli che come noi speranzosi ma abbastanza disillusi e incazzati di fronte ad una storia industriale e tecnologica sicuramente geniale, ma pazzesca e tangentara.
A vedere per la prima volta il primo cassone giallo in mezzo alla laguna mi portò Franco Miracco, che allora collaborava con il Consorzio Venezia Nuova. A bordo di un motoscafo arrivammo alle bocche di porto e salimmo su una chiatta ormeggiata davanti al prototipo della prima gialla paratoia, un modulo sperimentale che lentissimamente riempito d’acqua si inabissava e poi lentissimamente svuotavano, facendolo risalire in superficie.
E raccontai sul giornale un progetto ingegneristico e idraulico avveniristico e unico al mondo. Eravamo affascinati dall’avventura del MOSE che sta per “Modulo sperimentale elettromeccanico”. Era l’estate del 1998.
Era martedì 12 novembre 2019, e abbiamo ancora negli occhi il grande spavento mondiale dell’entrata in laguna di acque alte 187 centimetri, la seconda alta marea di sempre, solo 7 centimetri in meno dell’Aqua Granda del 4 novembre 1966.
Quella terribile sera la marea granda trovò ancora sola e indifesa Venezia davanti a un Adriatico gonfio, spinto dal forte vento che soffiava a 100 km orari, e sommerse la città devastandola con una nuova alluvione epocale. L’acqua si prese tutto, con danni enormi, e lasciò il mondo sotto shock e il MOSE sempre sott’acqua.
Eppure la storia del MOSE era cominciata nell’anno dell’alluvione del secolo, il 1966, quando tutti ripetevano: “Non c’è tempo da perdere, bisogna salvare Venezia”. E cosa è stato fatto quando le acque si ritirarono, il fango si asciugò, i negozi riaprirono, i tavolini dei bar tornarono al loro posto al suono delle orchestrine nello scenario da favola di San Marco? Come ricorda sempre anche Gian Antonio Stella, i lavori a parole “urgentissimi” diventavano “urgenti”, poi “necessari”, poi diluiti nel tempo e quindi finiti in un ginepraio.
Per l’irripetibile patrimonio dell’umanità veneziano, il nostro Parlamento se la prese molto comoda e aspettò il 16 aprile 1973 per varare la legge speciale per Venezia, la numero 171, dichiarando “di preminente interesse nazionale” la salvaguardia della città e della sua complicata laguna. Lo Stato decise d’investire come per nessun’altra città od opera pubblica. Bene, molto bene.
Peccato che l’andamento restò molto lento e solo dieci anni dopo, con la legge 798 del 1984, istituirono il Consorzio Venezia Nuova, soggetto attuatore di un progetto davvero faraonico d’ingegneria civile, ambientale e idraulica. Ebbero l’idea suggestiva di chiamarlo MOSE, evocando il ritiro biblico delle acque del mar Rosso. Ma l’acronimo richiamava il “Modulo Sperimentale Elettromeccanico” che, con comodo, iniziarono a progettare solo a fine anni Ottanta.
Vista l’urgenza massima, i lavori urgentissimi iniziarono appena 37 anni dopo quella grande piena del Novecento: 37 anni fanno esattamente 13.505 giorni e anche 37 governi e cicli parlamentari della Repubblica!
Una lentezza insultante se pensiamo ai veneziani della Serenissima che scavarono un canalone di 8 chilometri per la deviazione titanica del “Taglio del Po” a Porto Viro in soli 4 anni; proposto nel 1556 portò l’immissione delle acque del fiume nella sacca di Goro e al mare il 16 settembre 1604, e salvò la città . L’impossibile con i mezzi di allora si realizzò in soli 4 anni, altro che i 42 del MOSE.
Era il 14 maggio 2003 quando iniziarono a lavorare sul progetto della chiusura contemporanea delle tre bocche di porto con 78 gigantesche paratoie mobili poste sul fondo che devono, al salire della marea, sollevarsi. Sono trattenute al fondo da cerniere, vincolate a 20 cassoni di alloggiamento nei fondali collegati tra loro da tunnel per ispezioni tecniche.
Poi ci sono altri sei cassoni di spalla, con dentro impianti e tutto il necessario al funzionamento del sistema più avanzato di quello che sbarra la foce della Schelda per proteggere Amsterdam, o delle Thames Barriers che oppongono paratie alte come palazzi di sei piani alle alte maree dalla foce del Tamigi.
Il costo progetto è passato dagli iniziali 3,4 miliardi di euro a quasi 6 miliardi, di cui 5.493 milioni di euro spesi più 221 messi in conto, salendo fino alla cifra di circa 8 miliardi se consideriamo tutte le opere di contorno, compreso il miliardo tra fondi extracontabili e schifose tangenti e la vergogna del maxiscandalo trasversale venuto a galla nel giugno 2014, con l’ampio sistema di corruzione, sprechi e mazzette e manette per 35 persone.
Abbiamo poi visto di tutto, da allora: stallo dei cantieri, abbandono al loro destino delle parti già realizzate che, senza più manutenzione, sono rimaste esposte a deterioramento e corrosione dei materiali, con fessurazioni dei cassoni sommersi. Più si ispezionava la struttura subacquea, più emergevano paratoie aggredite dalla ruggine, un paio fuori dai cassoni per sedimenti sabbiosi, cerniere corrose, scarsi controlli e caos di competenze nella gestione con doppioni e “triploni” di commissari, commissari speciali, ordinari, straordinari.
Dopodichè accadde che, nella disillusione e nel disinteresse generale, fissarono al 4 novembre 2019 la prima prova completa di sollevamento di tutte le paratoie alla bocca di porto di Malamocco.
Pronti, partenza, via? No, fermi tutti! Test parziali preliminari evidenziarono nuovi problemi, e tutto si fermò. Ma non l’alta marea. La seconda prova ci fu venerdì 10 luglio 2020. Dopo le 11, nelle tre bocche di porto che uniscono l’Adriatico con la laguna, dal fondo del mare le 78 paratoie colossali d’acciaio incernierate nel calcestruzzo si alzarono fra gorghi e mulinelli e, per la prima volta, la laguna di Venezia venne separata dal suo mare.
La prima prova totale di chiusura delle bocche di porto era stata effettuata con una serenissima marea da appena 65 centimetri. Però, i cassoni hanno poi resistito a tempeste e fortunali e anche contro maree ben più alte.
Oggi finalmente sappiamo che è possibile contrastare nuovi disastri e difendere Venezia con la migliore tecnica e tecnologia. Ma sappiamo anche che non c’è traccia degli altri interventi altrettanto urgenti che decenni fa avrebbero dovuto integrare la mega-opera e garantire anche la tutela delle acque, degli ecosistemi e della biodiversità lagunare.
Sono indicati come necessari dall’Autorità di bacino, proposti con una certa disperazione anche da Massimo Cacciari, richiesti da esperti ingegneri e “padri” della moderna idrologia come Luigi D’Alpaos per i quali il sistema di dighe mobili funzionerà molto meglio se affiancato da opere per la difesa dalle proiezioni modellistiche climatiche che se ai tempi del progetto MOSE vedevano nell’arco del secolo un incremento del livello medio del mare di 22 centimetri, oggi l’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu le porta a 80-100 con problemi già nei prossimi decenni, con una sottostima anche dei costi di gestione e manutenzione delle paratoie (allora fissati a 10-15 milioni di euro all’anno e oggi tra 100 e 120).
Che fare? Garantire quel che serve al MOSE e affiancare alle dighe mobili altri interventi (da finanziare visto che il MOSE ha assorbito finora tutti i finanziamenti stanziati per la salvaguardia di Venezia, ma il Recovery Plan può essere la soluzione) come il progetto “Insulae” che prevede perimetri urbani a quote sufficientemente elevate a protezione di abitati, bonifica dei fondali e delle acque da inquinanti, rafforzamento delle fondamenta di Venezia provando a rialzarle di 25-30 centimetri con iniezioni di liquidi, manutenzione di edifici e canali per la migliore resilienza nell’assorbimento dell’impatto dell’acqua alta.
In ogni caso, se il più grande cantiere idraulico del mondo funziona e funzionerà , per favore fate funzionare meglio anche i manovratori e le procedure.
Erasmo D’Angelis
Segretario generale dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Italia Centrale
(da Huffingtonpost”)
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Dicembre 8th, 2020 Riccardo Fucile
UNA COALIZIONE E’ COSA DIVERSA DA UN UOMO SOLO AL COMANDO
Italia Viva si smarca su tutto, mentre i Dem, in assetto filo governativo, mordono il freno. L’offensiva di Renzi insomma rischia di mettere il Pd in una strettoia politica: da un lato ci sono appunto i renziani che si muovono come barca corsara, riscuotendo consensi anche in casa democratica; dall’altro c’è l’esito scontato che i Dem finiscano di nuovo schiacciati su Conte.
Potrebbero anche accodarsi all’ex segretario, che solo 15 mesi fa ha lasciato il Partito democratico per fondare Italia Viva con grandi speranze e però pochi consensi. Significherebbe riconoscere a Renzi in questi giorni una sorta di primazia per avere risposto colpo su colpo alle pretese dei 5Stelle, a partire dal Mes, e per cercare di bloccare le fughe in solitario di Conte e gli strappi.
“Noi dem siamo i bravi ragazzi che ogni volta salvano la baracca”, ha detto Enrico Borghi, vicino al ministro Lorenzo Guerini. La corrente Base riformista è di certo in ebollizione. Sempre Borghi: “E’ come quando uno sta sotto il crinale della montagna e un altro da lontano vede che sta staccandosi una valanga e avverte: “Spostati, perchè arriva la valanga. L’altro gli risponde: “Ma va là , tu sei la vecchia politica. Ecco, abbiamo un problema”.
Il problema è, in particolare per il Pd, mostrare il suo peso politico. Non essere gregario, nè vedersi ridotto lo spazio d’azione. Al Nazareno usano parole misurate, però sulle riforme mancate, a cominciare dalla legge elettorale, sbottano: “Conte deve prendere in mano la situazione, altrimenti consegna le riforme istituzionali ai veti incrociati”. E’ un esempio, che rappresenta la cartina di tornasole del disagio dem.
La partita si gioca nelle prossime ore. Andrea Marcucci, il capogruppo al Senato, è tra i più netti nei confronti del governo: “Non si può vivacchiare così”. Dario Stefà no, presidente dem della commissione Ue di Palazzo Madama, entra a gamba tesa: “Non è il tempo nè il momento di dare seguito a nuove strutture che rischiano di sembrare bizantine. Staccare il Recovery da un controllo diretto e del Parlamento e del consiglio dei ministri tout court è due volte sbagliato: la prima, perchè Conte in Parlamento aveva assicurato un ruolo centrale delle Aule; la seconda è perchè la velocità e la semplificazione non passa certamente attraverso la moltiplicazione di poltrone e di incarichi”.
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2020 Riccardo Fucile
“NIENTE RATIFICA AL SALVA STATI SENZA IL RESTO DELLE RIFORME SULL’UNIONE BANCARIA”. CHE PERO’ NON CI SONO ANCORA
“Ho trascorso due intere giornate insieme ad altri 60 parlamentari per mediare le posizioni. Grazie a questo lavoro è venuta fuori una risoluzione che non è quella ideale ma, almeno, rivendica il ruolo del Parlamento in sede di ratifica” della riforma del Mes “e avverte che non sarà disposto al voto finale”, previsto l’anno prossimo in tutti gli Stati membri dell’Ue, “se non ci sarà l’avanzamento significativo del resto del pacchetto di riforme” sul rafforzamento dell’unione bancaria, “Edis prima di tutto”.
Barbara Lezzi annuncia così il compromesso raggiunto in maggioranza in vista del voto di domani sull’informativa di Giuseppe Conte prima del Consiglio europeo di giovedì.
Ancora una volta è l’invocazione della “logica a pacchetto” sul rafforzamento dell’unione bancaria a salvare l’alleanza Pd-M5s. Ma la prima volta che fu evocata — e lo fece lo stesso premier l’anno scorso quando divampò la polemica sulla riforma del Mes — non portò bene. A un anno di distanza l’Italia ha dovuto dare il suo ok definitivo alla riforma del Mes, pur senza ‘pacchetto’.
Insomma, il pacchetto non c’è, la riforma del Mes sì. E stando a quanto riferiscono fonti europee a Bruxelles, il pacchetto non è all’orizzonte.
L’Edis di cui parla la senatrice Lezzi, lo ‘European deposit insurance scheme’, cioè la garanzia comune sui depositi bancari, è riforma nemmeno abbozzata, ferma ad una proposta presentata a fine 2019 dal ministro tedesco Olaf Scholz e non condivisa dal ministro italiano Roberto Gualtieri.
La proposta tedesca legava la garanzia sui depositi ad una ponderazione del debito pubblico in pancia agli istituti bancari. L’Italia non è d’accordo ma, tra l’altro, non ha nemmeno presentato una sua proposta, annunciata già dall’inizio del 2020.
Insomma, siamo a ‘caro amico’. Per questo il compromesso raggiunto in maggioranza servirà magari a superare lo scoglio del voto di domani, ma fornirà non più che una foglia di fico ai pentastellati scettici sul Mes.
L’anno prossimo l’Ue chiede a tutti gli Stati membri una ratifica parlamentare della riforma del Salva stati, in modo che da gennaio 2022 possa entrare in vigore il cosiddetto ‘backstop’, il fondo istituito nel Mes per sostenere le banche in crisi. Nessuno in Europa lega la riforma del Meccanismo europeo di stabilità al resto delle riforme sul rafforzamento dell’unione bancaria.
La ‘logica a pacchetto’ è di fatto un modo italiano per prendere tempo: lo è stato un anno fa, quando Conte doveva cercare un equilibrio di facciata tra M5s e Pd. Lo è anche adesso.
Il pacchetto non c’è (oltre all’Edis, comprenderebbe anche il Bicc, strumento di bilancio per la convergenza e la competitività ). Ma c’è la riforma del Mes, con il sì dell’Italia.
Prevedibilmente domani il governo passerà il test parlamentare. Ma l’orizzonte sul voto parlamentare che conta, quello sulla ratifica della riforma del Salva Stati l’anno prossimo, resta oscuro, i pentastellati resteranno in fibrillazione con un grido di battaglia – sul completamento del tanto invocato ‘pacchetto’ – che in Europa non trova alcuna eco.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 8th, 2020 Riccardo Fucile
“LA RIFORMA DEL MES E’ LUNICA STRADA” … L’ARTICOLO DELL’ECONOMISTA DI FORZA ITALIA
Sulla riforma del trattato MES (Meccanismo Europeo di Stabilità ) si sono dette e scritte tante cose, forse troppe. Eppure, in mezzo alla enorme propaganda che si è fatta sul tema, alcuni fatti appaiono incontrovertibili.
La prima versione del MES era di natura intergovernativa, costruita frettolosamente, sotto l’assillo della crisi dei debiti sovrani, ed obbediva alla miopia e all’egoismo degli Stati nazione che, pur temendo il contagio da default, non volevano costituire nuove istituzioni comunitarie a difesa dell’euro. Era il MES del momento “protestante” e “calvinista” dell’Europa, quello del sangue, sudore e lacrime, dei compiti a casa, del ‘debito’ sinonimo di ‘colpa’ alla tedesca, delle condizionalità punitive.
Era anche il MES di un’Europa asimmetrica, in cui alcuni paesi relativamente piccoli all’interno dell’Eurozona (Grecia, Portogallo, Irlanda) avevano accumulato debiti pubblici non sostenibili, mentre la media dell’Eurozona navigava ben al di sotto del 100% del rapporto debito/PIL. Quell’Europa, e la sua incapacità di gestire la crisi bancaria e il suo legame con i debiti pubblici nazionali, aveva poi consentito alla crisi stessa di allargarsi a Paesi con fondamentali rischiosi, ma non critici, come la Spagna e l’Italia, quest’ultima salvata grazie al ‘whatever it takes’ di Mario Draghi, dall’imbroglio dello spread.
Quell’Europa ora non c’è più, anche se pure la seconda versione del MES si presenta intergovernativa, per mancanza di coraggio e di visione.
Tre anni di discussioni tra i 19 dell’Eurogruppo, per l’Italia almeno tre governi con tre maggioranze diverse, con tre ministri, tutti degni di rispetto (Padoan, Tria e Gualtieri) e il risultato è certamente migliore della versione originaria del 2012, tuttora in vigore.
Nel frattempo, il mondo è cambiato per la crisi pandemica e con un grande shock culturale e politico, l’Europa si sta trasformando da intergovernativa a comunitaria, federale, anche se questa mutazione sembra più il prodotto della paura (pandemica) che di un maturo convincimento.
Proprio per questo anche la seconda versione del MES è purtroppo intergovernativa, ma l’introduzione del common backstop (una rete di sicurezza comune) sul sistema bancario, e la linea di credito (pandemica) temporanea, già operante da maggio scorso fuori dalla riforma, finiscono per portare il processo di mutualizzazione delle risorse europee dei 19 progressivamente e inevitabilmente verso una nuova dimensione federale, anche se non ancora comunitaria.
Il tutto in presenza di una nuova Europa, quella del momento Merkel, della ‘Next Generation’, della mutualizzazione una tantum del debito, di certo parziale, ma che rappresenta pur sempre una novità assoluta, quasi eversiva rispetto ai vecchi assetti ideologici e alle vecchie credenze.
Per tale motivo, questa riforma anfibia del MES sembra l’unica strada da intraprendere, perchè, pur figlia del passato, anticipa una istituzione di cui c’è bisogno, e che potenzialmente può diventare comunitaria e federale.
Per questo motivo, non si riesce a comprendere affatto (anzi si capisce benissimo) la posizione di chi dice no a questo nuovo MES, evidentemente ritenendo che sia meglio restare con il vecchio, più egoistico, meno solidale, meno comunitario, meno federale, e quindi meno europeo.
Andando nel merito, l’anticipo del meccanismo di ‘common backstop’ come rafforzamento del Fondo di Risoluzione Unico bancario dell’Eurozona, sotto forma di linea di credito Mes, e l’anticipo del ‘risk assessment’, entrambi al 2022, inseriti nella tanto attesa e discussa riforma del Trattato Mes, sono senza dubbio una ottima notizia.
Lo strumento del ‘backstop’ serve proprio ad evitare ciò che era accaduto tra il 2010 ed il 2012, quando l’incapacità europea di gestire la crisi di un (piccolo) Stato sovrano, la Grecia, ha rischiato attraverso il contagio del sistema bancario, di far deragliare la seconda più importante valuta del mondo, con conseguenze facilmente immaginabili.
L’anticipo dello strumento è oltremodo importante per un sistema bancario alle prese con quella che sarà una difficile uscita dalla crisi da pandemia, crisi che sta riempiendo nuovamente i bilanci delle banche dell’Eurozona di crediti inesigibili (NPLs), nel momento esatto in cui questi si stavano faticosamente riducendo.
Crediti NPL che, secondo le ultime stime della Bce, ammonterebbero alla cifra monstre di 1.500 miliardi di euro. Un quantitativo di sofferenze, latamente intese, che rappresenta una buona approssimazione della dimensione della crisi sofferta dalle imprese europee, che potrebbe presto portare a nuovi fallimenti sistemici negli istituti di credito.
L’Italia, da questo punto di vista, è lo Stato dell’Eurozona, insieme a Grecia e Portogallo, ad avere la percentuale di Npl più elevata, quindi tra i paesi più esposti a shock negativi, e dunque tra quelli che potrebbero maggiormente guadagnare dall’implicita stabilità garantita dal meccanismo di ‘backstop’ anticipato.
Come sostenuto correttamente dal collega Gaetano Quagliariello, la pandemia, e soprattutto le sue conseguenze economiche, hanno cambiato le carte in tavola in Europa. Anche grazie agli “scostamenti di bilancio” che in diversi casi sono stati votati dal Parlamento all’unanimità , il nostro debito sovrano è salito al 160 per cento del Pil.
Il Paese, anche per questo, si presenta molto più fragile ed esposto agli shock dei mercati finanziari, pur in mezzo agli squilibri comuni a tutta l’Eurozona. Come ben sappiamo l’Europa ha reagito in pochi mesi istituendo il Recovery Fund, una svolta epocale, mutualizzando una parte del debito sovrano (solo quello prodotto dalla pandemia) e affidando alla Banca Centrale Europea il ruolo di compratore di ultima istanza.
A riprova di tutto questo, in Italia nessuno sostiene che delle risorse del Recovery Fund si possa o si debba fare a meno. Purtroppo, l’accesso ai fondi NGUE, per effetto del veto posto dai sovranisti ungheresi e polacchi, rischia di essere rinviato ancora a lungo, lasciando il 2021 completamente scoperto dalla protezione finanziaria (famiglie, imprese, Stati), di cui avrebbe assolutamente bisogno.
Per questo motivo, proprio per non lasciare il problematico 2021 senza un bazooka a disposizione delle banche, sarebbe opportuno che il meccanismo di backstop, previsto dal MES riformato, fosse anticipato ulteriormente, in maniera da essere subito disponibile, fin dall’inizio del processo di ratifica del trattato (fine gennaio) da parte dei Parlamenti nazionali.
Ricordiamo che il Fondo unico di risoluzione bancario, attualmente esistente, è un fondo, capitalizzato dalle banche dell’Eurozona, che interviene per la risoluzione ordinata delle crisi degli istituti di credito, in maniera da evitare che i potenziali default diventino sistemici, per via dell’effetto contagio.
L’ulteriore anticipo di un anno del fondo unico ‘backstop’ dovrebbe idealmente essere accompagnato anche dall’entrata in vigore immediata dell’EDIS, lo schema di assicurazione dei depositi europeo, da anni in agenda tra le istituzioni dell’eurozona ma ancora lontano dall’essere attuato.
L’EDIS, lo ricordiamo, è un sistema di protezione dei depositi dei risparmiatori europei che, in caso di crisi bancarie estese, rischierebbero di perdere accesso al denaro depositato, in assenza di uno schema di garanzia che li tuteli in aggiunta a quanto già costituzionalmente previsto da tutti gli ordinamenti nazionali degli Stati membri. Insomma, accompagnare il processo di ratifica del nuovo MES (lungo tutto il 2021) con una prima piena attuazione del fondo Salva banche finanziato dal vecchio MES, ed un irrobustimento delle tutele a favore dei depositanti in tutta Europa. Come sarebbe possibile realizzare tutto ciò?
L’idea parte dalla considerazione che i 68 miliardi di euro di dotazione del Fondo di Risoluzione Unico già vigente, creato dalle banche stesse, appaiono insufficienti per far fronte da soli al credit crunch potenziale che potrebbe investire nel 2021 e 2022 il sistema bancario europeo.
Per questo motivo, potrebbe costituire una straordinaria novità , produttrice di stabilità e deterrenza, la creazione presso il vecchio Mes di una nuova linea di credito temporanea, pensata appositamente per fornire una ulteriore garanzia anticipata al Fondo di Risoluzione Unico europeo, una linea avente la stessa base giuridica della ‘Pandemic Credit Line’ azionata la scorsa primavera per offrire copertura per le spese sanitarie dirette ed indirette sostenute dagli Stati membri dell’area euro per affrontare la crisi.
Una linea di credito pensata ad hoc ex art. 136, comma 2 del TFUE, per fornire garanzie al sistema bancario, con una dotazione pari al 2% del Pil dell’Eurozona, che si esaurirà nel momento di entrata in vigore del common backstop nel 2022.
Una sorta di ‘polizza di assicurazione’ per il 2021, subito pronta, e che faciliterebbe il processo di ratifica da parte dei Governi, che con questo strumento avrebbero qualcosa di concreto da mostrare ai risparmiatori, ancora dubbiosi rispetto alle promesse di immediatezza delle risorse fornite dal Next Generation.
Una linea di credito che probabilmente non dovrà (si spera) neppure essere utilizzata, essendo appunto una garanzia da escutere solo in caso di crisi effettiva degli istituti di credito dell’Eurozona. Ma il rafforzamento della garanzia pubblica, si sa, sarebbe apprezzata immediatamente dai mercati, perchè contribuirebbe a ridurre il rischio sistemico del credito europeo, a tutto vantaggio dei paesi maggiormente esposti come l’Italia. Minor rischio significa minori tassi di interesse al dettaglio e una ripresa dei corsi azionari delle banche europee, ancora al di sotto dei livelli pre-crisi.
Questa nuova linea di credito, da realizzarsi subito, sarebbe, dunque, una soluzione win-win per i governi europei, le banche e i cittadini. Per questo motivo sarebbe bene cominciarne a parlare fin dal prossimo Euro Summit dell′11 dicembre e certamente a gennaio, prima della sottoscrizione da parte del Coreper a Bruxelles del nuovo trattato MES.
A ben pensarci, in fondo, quelle di Ungheria, Polonia e degli altri sovranisti, compresi quelli di casa nostra, sono le ultime strenue resistenze alla nuova Europa. Resistenze che si esplicitano da un lato nei veti di Ungheria e Polonia al bilancio europeo, perchè ‘Next Generation’ significa anche regole sui diritti democratici comuni di una nuova Europa veramente federale e comunitaria; e dall’altro nei veti sovranisti sul MES, visto che questi ultimi, coerentemente, non vogliono l’Europa delle istituzioni comunitarie condivise, fino al rifiuto dell’idea di moneta unica.
Bisogna leggere così questo momento storico: o con l’Europa dell’euro o contro l’Europa.
Per questo motivo, occorre dire sì, con la ragione, al nuovo MES, guardando con il cuore al futuro, e dicendo no all’involuzione sovranista e autoritaria del Vecchio Continente.
In fondo la nuova Europa non può che essere comunitaria, federale e dei diritti. Il passaggio di fase è tutto qui, è bene esserne tutti consapevoli.
Renato Brunetta
parlamentare Forza Italia
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Dicembre 8th, 2020 Riccardo Fucile
SEMMAI E’ L’OPPOSTO: LAMORGESE FA TAMPONI OGNI 10 GIORNI, NON ANNUSA PECORINO SENZA MASCHERINA E NON ORGANIZZA NEANCHE CONVEGNI DI NEGAZIONISTI AL SENATO SENZA PROTEZIONI
Salvini ha fatto gli auguri alla ministra Luciana Lamorgese positiva al Coronavvirus ma ha aggiunto: «Bisognerà chiarire se sia vero che abbia disubbidito alle disposizioni del suo stesso governo, andando in consiglio dei ministri senza attendere il risultato del test mettendo così a rischio la salute di altre persone. Il ministro che controlla e multa gli italiani che non rispettano le regole non può essere la prima a non rispettarle: in questo caso le dimissioni sarebbero dovute».
In realtà Lamorgese non presentava sintomi e non era stata a contatto con positivi, per cui era presente al CdM anche se in attesa del test perchè lei, esattamente come il leader della Lega, fa il tampone periodicamente (ogni dieci giorni).
Anzi, racconta il Corriere, la ministra dell’Interno è molto precisa e prudente, anche oltre le regole: «Sto bene, non ho sintomi, non avrei mai immaginato che potesse succedermi». Mentre lascia palazzo Chigi dopo aver appreso dal medico della polizia di essere positiva al Covid-19, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese parla con i suoi collaboratori al Viminale. È affranta: «Io che sono sempre stata attentissima, non capisco come sia possibile».
Il protocollo che ha imposto al ministero dell’Interno è rigoroso: lei si sottopone al tampone molecolare ogni 15 giorni e lo fa anche a distanza più breve se ha in programma di vedere qualcuno. In ufficio tutti devono sempre indossare la mascherina e mantenere la distanza, in caso di contatti sospetti si rimane a casa. È capitato che qualche funzionario si sia ammalato e lei non ha voluto sentire ragioni rispetto al ritorno al lavoro. Aveva il tampone positivo ma era ormai asintomatico da dieci giorni, secondo la legge poteva uscire dall’isolamento. Lei ha detto di no: «Non importa, fino a quando il tampone non sarà negativo direi che è meglio non rientrare in presenza».
Al Viminale moltissime riunioni si fanno a distanza, i vertici internazionali si seguono – quando è possibile – attraverso le piattaforme online. Se ci sono incontri istituzionali Lamorgese non rinuncia, ma fa il tampone prima e dopo. Lo stesso avviene con gli incontri all’estero
Invece Salvini che questa estate ha partecipato a un convegno al Senato senza mascherina, contro le regole, e ha recentemente pagato una multa per non aver indossato la mascherina a Benevento, non avendo seguito le regole, che non si è messo la mascherina neanche quando annusava pecorini all’interno di laboratori alimentari, da quale pulpito parla?
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2020 Riccardo Fucile
IL 40% VUOLE ANDARE AVANTI CON QUESTO GOVERNO (34%) ANCHE CON UN RIMPASTO (6%)… A VOTARE SUBITO SOLO IL 29%… UN GOVERNO DI UNITA’ NAZIONALE E’ PREFERITO DAL 14%
I sondaggi politici di SWG per Tgla7 che ieri Enrico Mentana ha presentato si sono arricchiti anche di una rilevazione sul futuro del governo Conte.
Alla domanda “Viste le difficoltà di queste ultime settimane nei rapporti all’interno della maggioranza secondo lei sarebbe più giusto”, il 34% ha risposto che vuole che questo governo vada avanti a cui va aggiunto un 6% che consiglia un rimpasto di ministri.
Il totale fa 40% ovvero la percentuale che attualmente i sondaggi accreditano ai partiti di governo.
Ci si aspetterebbe che chi vuole andare subito a nuove elezioni sia intorno al 45-46% m percentuali attuali del centrodestra: invece si fermano al 29% che non rappresenta nemmeno la somma di Lega e Fdi (al 40%)
Un 14% preferirebbe invece un governo di unità nazionale appoggiati quindi da tutti i partiti, una scelta sicuramente “moderata”.
Ne deriva che l’elettorato del centrodestra è spaccato sulla prospettiva di governo del Paese.
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2020 Riccardo Fucile
“MONARCHICI E COMUNISTI TROVARONO UN PUNTO D’INCONTRO, QUA NON CI SI RENDE NEANCHE CONTO DELL’EMERGENZA”… “NON ESISTONO NEGAZIONISTI, ESISTONO I CRETINI”… “ABBIAMO UNA CLASSE POLITICA DI LIVELLO INFERIORE PERSINO A QUELLO MEDIO DEI CITTADINI”
Mughini, come sta vivendo personalmente l’emergenza legata al Covid?
Vivo una vita molto solitaria. Il mio lavoro – svela il giornalista e scrittore rispondendo all’Agenzia SprayNews – lo faccio in casa, in quella che io chiamo la stanza dei libri. Vedo poca gente, non vado agli appuntamenti sociali, quelli molto importanti per chi deve farsi notare. A me il Covid non ha cambiato molto. L’unica cosa, che mi ha cambiato, è l’immensa preoccupazione per le sorti del mio Paese.
Ha paura?
No. Sa, io ritengo che quando deve capitare, capiterà . (E ride fragorosamente, n.d.r.)
Allarmista o negazionista? E’ diventata una domanda, quasi come chiedere a qualcuno se è juventino o interista?
Io non sono allarmista, però dico accidempoli, sessantantatremila morti è un bottino spaventoso, che il destino ha raccolto nel nostro Paese, se uno non capisce che più cauto è, e meglio è per sè e per tutti, non è un negazionista, è solo un perfetto cretino.
Come le sembra l’Italia al tempo del Covid? Un teatrino?
E’ anche un teatrino, ma in primo luogo è un dramma. C’è gente che non arriva a fine mese, alberghi chiusi, negozi che chiudono, aziende con la gente in cassa integrazione, che peraltro non riceve. E, poi, c’è, soprattutto, un’Italia che non si rende conto che, quando il Covid sarà finito, noi ci ritroveremo con un debito pari al centosessanta per cento del prodotto interno lordo. Un rosso spaventoso, quello di un Paese alla vigilia del tracollo. Non mi pare che ce ne si renda conto. Io le dico, molto francamente, che la patrimoniale sia purtroppo una scelta…(sospiro assenso, n.d.r.).
Torniamo al teatrino. Che ne pensa dei virologi che, anzichè mettersi d’accordo su un unico protocollo di cura, litigano in tv come delle comari?
Lei ha perfettamente ragione. Litigano in tv, proprio come delle comari, sul come proteggerci da questo nemico micidiale. Purtroppo, il nostro è un Paese, in cui l’elemento della responsabilità , della disciplina, della misura, è molto basso, ma, del resto, è dappertutto così. Pensi agli Stati Uniti, che hanno eletto come Presidente, un certo Donald Trump.
Lei è preoccupato per gli effetti sociali del coronavirus, che sta acuendo tutte le differenze: fra Nord e Sud, fra garantiti e non, fra ricchi e poveri? A proposito, lo sa che i ricchi, durante la pandemia, sembra stiano diventando ancora più ricchi?
Questo è del tutto naturale. Chi è ricco, chi ha denaro, chi ha possibilità , può diventare più ricco, in qualsiasi situazione. Non è strano. E non è che il ricco diventa più ricco perchè fa delle cose losche, ma solo perchè ha le carte in mano. Chi ha il negozietto, o una bottega artigiana, diventa, invece, sicuramente più povero. Anche questo non è strano. E’ talmente naturale.
Il mondo tornerà a essere quello di prima, dopo il lavoro da remoto, l’insegnamento a distanza e quello che, forse emblematicamente, hanno chiamato distanziamento sociale?
Io credo proprio di sì. Guardi che, dopo la seconda guerra mondiale, la società ha ricominciato a vivere, come prima. Gli italiani nel 1948 vivevano, come nel 1938. Poveri, biondi, bruni, quelli che risparmiavano, quelli che non risparmiavano, quelli che si divertivano e quelli che lavoravano sodo. Non credo che resterà una traccia indelebile nella struttura ossea. E credo che è meglio sia così. Meglio assorbire il colpo e continuare. Naturalmente, con il centosessanta per cento di debito pubblico, il che vuol dire che le future generazioni sono belle che fritte.
Che cosa l’ha indignata maggiormente in questi mesi. Che cosa aborre o abborre, scelga lei?
L’imbecillità di chi straparla, l’imbecillità di chi, anzichè ragionare urla, l’imbecillità di chi sceglie un punto di vista e lo difende contro ogni evidenza…ma questa è la cretineria più diffusa nel Paese.
Se lei si trovasse al posto di Giuseppe Conte, che cosa farebbe?
Guardi che io, contrariamente a quello che dicono molti, non ritengo che Conte se la sia cavata malaccio. Ragazzi, era un mestiere, che non si impara all’università , quello di fare il Presidente del Consiglio nel momento di una pandemia così spaventosa. All’inizio è stato coraggioso, facendo scelte impopolari, dicendo “chiudiamo, chiudiamo”. In politica non c’è mail più perfetto, ma il meno peggio, che ci sia.
Non la innervosiscono neppure le decisioni strambe, come l’equiparare, nel giorno di Natale, Roma e Milano a Zoppe’ di Cadore, un Comune di soli 197 abitanti?
Guardi, io penso che in questo momento non esista decisione possibile, che possa essere accolta da un applauso collettivo, come un gol di Maradona.
Torniamo alla patrimoniale. E’ davvero inevitabile?
Assolutamente inevitabile. Non ci vuole un genio per capirlo. Io ho grande stima di Giuliano Amato, uno dei migliori Presidenti del Consiglio dell’Italia recente, che ebbe il coraggio, nel momento del bisogno, di prendere i quattrini dalle tasche degli italiani. Un gesto, che personalmente ho molto apprezzato. Tenga presente che in Italia c’è non so quanta gente che ha nel conti conto corrente milioni di euro. Ora, se questi danno diecimila o quindicimila euro, non è la fine del mondo. Anche io sono pronto a darne, al mio livello. Credo che dovremmo renderci conto dell’emergenza, in cui ci troviamo e nell’emergenza si fanno scelte più difficili che in una situazione normale. Non dimenticando che, di fronte all’emergenza della guerra e della guerra civile, monarchici e comunisti trovarono un punto d’incontro. Anche in questo momento dovrebbero mettersi d’accordo soggetti e storie di origini diverse, per aiutare quella cosa che si chiama bilancio dello Stato e che riguarda tutti. Il debito non è un’entità astratta e lontana. Il debito dello Stato è, in percentuale, un debito delle famiglie, un debito mio e suo.
Un’ultima cosa, Mughini. Fra i cretini e gli imbecilli che la indignano, ci mettiamo anche i politici, che speculano sul Covid, anzichè remare tutti dalla stessa parte per evitare che la nave affondi?
E’ talmente vero quello lei dice, ma oggi, purtroppo, noi abbiamo in Italia una classe politica che, secondo me, è più bassa del livello medio della nazione. Quando io stavo all’università negli anni ’60, venivo dopo la generazione di quelli che all’università avevano fatto politica. I migliori. Li chiamavano, ci chiamavano, quelli del trenta e lode. Hanno imparato a fare politica all’università Bettino Craxi, La Malfa padre e figlio, Achille Occhetto e tanti altri. Oggi la politica la fanno quelli dei Cinquestelle, che, quando sono entrati al Parlamento la prima volta, l’ottanta per cento di loro non aveva mai fatto una dichiarazione dei redditi, il che vuol dire che non aveva mai lavorato. Entravano in Parlamento dei buoni a nulla, senza nessuna esperienza, in nessun campo. Sono i politici che corrono oggi. Senza arte nè parte.
E la destra, la Lega, gli altri, le sembrano più preparati?
Lasciamo perdere, tanti di loro… basta sentirli parlare.
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2020 Riccardo Fucile
SE I NOMI SONO QUESTI QUATTRO, SALA PUO’ DORMIRE SONNI TRANQUILLI: L’EX PREFETTO MARANGONI, L’EX DEPUTATO CROLLA, IL MANAGER RASIA E DEL DEBBIO… VERONESI HA DETTO NO
E adesso che Beppe Sala ha sciolto la riserva, tocca al centrodestra rincorrere. Perchè l’annuncio – a sorpresa per le tempistiche – del sindaco, che nel giorno di Sant’Ambrogio ha accettato la sfida per il bis, ha preso in contropiede soprattutto gli avversari. Che ora un po’ di fretta in più ce l’hanno.
Il leader della Lega Matteo Salvini al quale, per equilibri di coalizione, dovrebbe spettare l’ultima parola sulla scelta del candidato di Milano, aveva più volte ribadito come il loro campione sarebbe arrivato già a metà novembre o, comunque, prima della decisione finale di Sala.
Ma un nome ufficiale ancora non c’è e, per cercare di trovare la quadra, il tavolo nazionale del centrodestra si riunirà giovedì, subito dopo il voto sul Mes.
Ci saranno Salvini, Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni, ma anche Giovanni Toti (Cambiamo!), Maurizio Lupi (Noi con l’Italia) e Lorenzo Cesa (Udc). E sullo scacchiere delle prossime amministrative del 2021, Milano è diventata la sorvegliata speciale.
L’identikit, almeno quello, è tracciato. Perchè, ha ripetuto spesso Salvini, lo sfidante di Sala dovrà arrivare dalla società civile e non dalla politica. Anche se Forza Italia, che ha commissionato una serie di sondaggi, sino a qualche giorno fa sembra aver tentato di giocare persino la carta del ritorno dell’ex sindaca Letizia Moratti. Aveva perso Milano nel 2010 contro Giuliano Pisapia. Ma “purtroppo si è detta indisponibile”, avrebbe detto ai suoi lo stesso Silvio Berlusconi in una video conferenza su Zoom.
Il mantra leghista, comunque, è ancora quello. E non solo per il candidato. L’assessore regionale Stefano Bolognini, per dire, che affianca il Capitano nella ricerca della squadra milanese, anche dopo l’annuncio di Sala ha continuato a ripetere come lo scorso venerdì abbiano incontrato “almeno una decina di professionisti e persone dei mondi più vari che hanno dato la loro disponibilità a presentarsi in Consiglio comunale e nei Municipi”.
E sempre dalla società civile arrivano anche i nomi degli aspiranti campioni del centrodestra che sono circolati nelle ultime settimane. Tra questi c’è il chirurgo dell’Istituto europeo di oncologia, Paolo Veronesi. Che, però, ha chiarito come preferisca continuare a fare il medico oltre a mantenere l’impegno come presidente della Fondazione creata da suo padre Umberto: “Non ho ricevuto alcuna richiesta ufficiale – ha spiegato -, ma sono lusingato, a prescindere dal colore politico della proposta. Pur venendo da una tradizione anche famigliare di sinistra, ho sempre inteso la figura del sindaco come un ruolo civico. Al di là di questo, però, tengo moltissimo ai miei pazienti ed è troppo difficile pensare di lasciare il mio lavoro”. Niente da fare.
Nella rosa dei papabili, raccontano nel dietro le quinte del centrodestra, c’è ancora l’ex prefetto di Milano Alessandro Marangoni. E c’è Simone Crolla, consigliere delegato della Camera di commercio Usa, ex deputato del Pdl e, dal novembre 2018, coordinatore al fianco del presidente Fedele Confalonieri dell’Advisory Board della Veneranza Fabbrica del Duomo.
Un altro nome è quello di Roberto Rasia dal Polo, classe 1974, direttore della Comunicazione e Formazione del Gruppo Pellegrini, “dirigente d’azienda, comunicatore, formatore professionista e scrittore di libri”, si definisce lui. A questi, gira voce tra i vari staff, si starebbero aggiungendo anche un “imprenditore di altissimo livello e un manager”. Si sarebbe detto disponibile anche il giornalista Mediaset Del Debbio.
Riusciranno, come molti all’interno della coalizione auspicano, a trovare l’avversario di Sala entro Natale?
(da agenzie)
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Dicembre 8th, 2020 Riccardo Fucile
“CI ATTENDE UN INVERNO PREOCCUPANTE”
“La terza ondata in queste condizioni è una certezza. Siamo in una situazione grave stabile, ci attende un inverno preoccupante”. Il professor Andrea Crisanti si esprime così a “L’aria che tira”, analizzando il quadro dell’emergenza coronavirus in Italia.
“In Lombardia, che è stata zona rossa, la situazione migliore. In Veneto, zona gialla, i casi aumentano”, afferma.
“Per un effetto paradosso, una regione preparata dal punto di vista sanitario adotta misure più blande e consente la maggiore circolazione del virus. Alla fine di questa esperienza, gli indicatori di queste zone andrebbero ripensati. L’obiettivo è mantenere l’attività economica o tutelare la salute? Bisogna trovare il giusto compromesso”, dice ancora.
“Prima che il vaccino abbia effetto passeranno mesi, ci attende un inverno preoccupante. L’Italia alla fine della prossima settimana sarà il paese con più morti in Europa, non è qualcosa di cui essere orgogliosi. Natale, con scuole chiuse e fabbriche a ritmo ridotto, va sfruttato per ridurre i contagi”, afferma.
“La terza ondata è una certezza in questa situazione, non c’è bisogno di previsioni. Con la riapertura delle scuole e delle attività produttive, abbiamo offerto una grande occasione al virus e i contagi sono esplosi. Dopo l’estate avevamo in mano una situazione gestibile e ce la siamo lasciati sfuggire. I casi residui potevano essere gestiti”, ribadisce.
(da agenzie)
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