“SBAGLIAMMO QUASI TUTTO, CON LE IDEE GIUSTE”: FUTURO E LIBERTA’, DIECI ANNI DOPO NON C’E’ PIU’ NIENTE
L’ALTERNATIVA ALLA LEADERSHIP DI BERLUSCONI, IL VOTO DI SFIDUCIA FALLITO PER TRE VOTI… CHE LA COERENZA NON SIA DI QUESTA TERRA LO DIMOSTRA LA FINE CHE HANNO FATTO MOLTI LORO ESPONENTI, MIGRATI IN PARTITI CON IDEE OPPOSTE IN CERCA DI UNO STRAPUNTINO
Pentiti? No. “Il pentimento non appartiene agli uomini di destra”. Dieci anni fa, il 14 dicembre del 2010, fallì il primo vero tentativo di contrastare la leadership di Silvio Berlusconi nel centrodestra strappando il tessuto di quella coalizione che dalla Casa delle Libertà era arrivata al Popolo delle Libertà .
La mozione di sfiducia voluta da Gianfranco Fini contro l’allora premier si infranse a Montecitorio per tre voti.
Finì 314 a 311, con il presidente della Camera tradito dal pallottoliere (come Romano Prodi) e infilzato da voltafaccia all’ultimo istante.
Pochi mesi prima un’inchiesta del “Giornale” aveva aperto il vaso di pandora dell’affaire Montecarlo, con le ramificazioni offshore, le grane familiari e i guai giudiziari che tuttora affliggono l’ex presidente della Camera. Relegandolo nel cono d’ombra e di silenzio che si è auto-imposto fino alla fine delle inchieste, e condannando la sua creatura, Futuro e Libertà , a prematura dissoluzione.
Gli addii cominciarono con l’astensione del fino a quel momento fedelissimo Silvano Moffa e proseguirono tra litigi, divisioni, recriminazioni.
Alle elezioni del 2013 in Parlamento rientrarono in tre, e tra loro non c’era Fini.
Dalla dèbacle discese la diaspora, al punto che oggi se si googla la sigla Fli ad uscire per prima è la Federazione Logopedisti Italiani.
I protagonisti di quella stagione si dividono grosso modo tra chi ha lasciato la politica e chi invece si è avvicinato al partito di Giorgia Meloni.
Da Fli a Fdi: una consonante che separa il sogno di una destra repubblicana e laica dalla realtà di un partito sovranista più vicino a Orban che alla Merkel.
Un tragitto tortuoso, ancor più per chi, come ad esempio Adolfo Urso, rappresentava l’ala ultra-liberal della pattuglia finiana.
Il ricordo di quella sventurata blizkrieg per chi l’ha vissuta miscela amarezza e orgoglio, rimpianto per gli errori e fiducia nel giudizio della storia.
Huffington Post è andato a cercarli. A partire dal leader, che però ha preferito non commentare.
Tra idealisti e professionisti della politica
La data del 14 dicembre fu lo spartiacque. Ma l’inizio della fine va collocato prima. Nel lungo mese fino alla calendarizzazione della mozione: “Il Quirinale diede tempo a Berlusconi e Verdini di organizzare il campo e recuperare i voti — sostiene più di un ex finiano — Fu chiaro a tutti, Gianfranco per primo, che eravamo nei guai. E che la partita diventava improvvisamente impossibile”.
Era cominciata di corsa: la rottura consumata con il deferimento ai probiviri del “triumvirato” — Italo Bocchino, Carmelo Briguglio e Fabio Granata — la “guardia scelta”, i “non colonnelli”, e l’ormai iconico “che fai mi cacci?” scandito da un Fini attonito quanto furioso.
Fecero le valige 33 deputati e 10 senatori inseguendo il sogno di un’altra destra — alcuni — e la speranza di conquistarsi un posto al sole saltando le tappe del cursus honorum — altri.
C’era la resistenza al protagonismo di Forza Italia nella costruzione del Pdl. E c’erano le istanze campanilistiche: al Nord, dove An era ormai rasoterra, l’accordo per il 30% delle candidature comuni sembrava il Bengodi; al Sud, se ne pagava il conto. Difficile separare il grano dal loglio.
A Bastia Umbra, quando fu presentato il manifesto, regnava un clima viscerale da “Stato nascente” che mescolava calcolo politico e convinzioni, professionismo e carica emotiva. Su tutto, la certezza che fosse il momento di giocarsi quelle carte.
“Sono orgoglioso di aver fatto parte di una cosa bella”, racconta su Skype Enzo Raisi. Bolognese di madre spagnola, manager nell’export, era l’amministratore del “Secolo d’Italia” che finì nelle mani dell’ala berlusconiana. Oggi vive tra Valencia e un paesino della Mancha dove ha ricominciato da un’azienda di marketing e commercio internazionale: “Rivendico il nostro coraggio, che oggi molti mi riconoscono. Non so quanti manifesti ho attaccato nella mai vita, adesso si va in Parlamento con due tweet”. Sta scrivendo un libro, si intitola “La casta siete voi”.
Cosa andò storto? “Forse i tempi non erano maturi. A Fini imputo di averci mandato in battaglia con le cerbottane contro i carri armati. La stampa di centrodestra fu micidiale contro di noi”.
Ne sa qualcosa Flavia Perina, che lasciò la direzione del “Secolo” dopo aver tentato di renderlo avanguardia culturale di quell’avventura, e non ritrovò il posto. Era entrata in Parlamento con le “liste rosa” volute da Fini in assenza della legge che lo imponesse, insieme a Giulia Bongiorno e Catia Polidori (che al momento decisivo voltò gabbana).
Nel 2013 “cademmo tutti senza rete — ricorda Raisi — Anche Fini, che aveva scelto la Camera rispetto al più facile Senato”.
Una scelta coraggiosa o forse kamikaze, visto che — col senno di poi – lo scudo dell’elezione avrebbe potuto indirizzare in altro modo le sue vicende processuali. Ma tant’è.
“Per prima cosa andai via da Bologna — prosegue Raisi – Non puoi restare dove sei stato troppo potente”. Oggi rivendica un equilibrio: “Non rimpiango nulla. Forse un po’ la politica che ti entra nel cuore. Ma ho rifiutato offerte: quando chiudi, chiudi”. Perina è tornata all’altrettanto appassionante mestiere di giornalista.
Andrea Ronchi, che rinunciò al posto di ministro delle Politiche Comunitarie -l’unico in quota An di quel governo- poi si divise da Fini, fondando un proprio movimento, salvo alla fine abbandonare del tutto la politica.
Italo Bocchino, che di Fli è stato presidente ad interim, si definisce “pensionato della politica” e fino all’anno scorso è stato direttore del “Secolo”. E’ indagato nell’inchiesta Consip ma — precisa — con due richieste di archiviazione.
Neppure lui rinnega il passato: “Per il centrodestra è stato il punto più alto sul piano dei contenuti, sensibile all’Europa e ai diritti civili, la sua espressione più matura dal Dopoguerra. Ma è stato il punto più basso sul piano tattico: presentare la mozione di sfiducia insieme alla sinistra non è stato compreso dai nostri elettori, e quel passaggio ha inficiato l’intero percorso”.
Un peccato? “Non è la parola giusta. La destra poteva ambire a un percorso più evoluto. Non sono sovranista”. Per quanto: “A FdI do il voto e il due per mille”.
Da Fli a FdI: un tragitto per alcuni
Già : la formazione di Giorgia Meloni è diventata, presto o tardi, punto di approdo di diversi orfani finiani. Con buona pace della presenza di Forza Italia nella coalizione.
Da ultimo il senatore Claudio Barbaro: “Per me è un ritorno a casa”. Rieletto due anni fa con la Lega, Barbaro era tra i “caduti” del 2013.
Gli unici a farcela furono Mario Caruso, Aldo Di Biagio (circoscrizione Esteri) e Benedetto Della Vedova, al Senato con la lista unica che fu l’embrione di “terzo polo”. Ma anche Adolfo Urso, che all’epoca ci rimise la poltrona di viceministro, oggi è senatore con FdI (e del passato non parla volentieri).
O Roberto Menia, ex coordinatore nazionale fliniano oggi responsabile Esteri FdI.
Altri, invece, hanno preso strade diverse.
Fabio Granata, ex vicecoordinatore di Fli, è assessore alla Cultura di Siracusa “in un patto civico alternativo al centrodestra a trazione berlusconiana”.
Su Facebook si definisce “politico, ambientalista, avvocato, scrittore greco romanista, uomo libero”.
Di quei giorni ricorda la partecipazione: “Eravamo acclamati ovunque, dai tetti di Architettura alle manifestazioni del Popolo Viola”. Rivendica di aver “bloccato lo smantellamento del sistema giudiziario”.
Errori? “Se Fini si fosse dimesso un minuto dopo la fallita sfiducia, oggi parleremmo di altro. Esiziale fu poi appiattirci su Monti e Casini, l’opposto di quello che i militanti si aspettavano. A partire dai 10mila di Bastia Umbra. Fu un suicidio politico”. Conclusione agrodolce: “Spero che la nostra battaglia venga rivalutata anche a destra e non giudicata solo attraverso la macchina del fango contro Fini. Avevamo comunque ragione noi”.
Carmelo Briguglio, giornalista e poi vicecoordinatore fliniano, è tornato nella sua Sicilia dove fa parte dello staff di Musumeci.
Sui social traspare la nostalgia: “Ex politico di razza estinta, deputato della Repubblica di un tempo perduto, intellò conservateur”.
Racconta il distacco: “Da tempo ho chiuso con la politique politicienne, traguardi e candidature. Sono sereno, ma manca una vera ricostruzione del senso politico di quella stagione”.
Sbagli? “Ne commettemmo e ne subimmo di maggiori. Non tradimmo nessuno se non, senza capirlo, noi stessi e la nostra natura. I successivi casi Alfano, Bondi, Frattini, Cicchitto, etc sono troppi per non segnalare una questione politica”.
La storia (forse) si ripete
Ma alla base della frattura c’erano – come oggi ricordano in tanti – diversi fattori: la battaglia per una destra sociale e legalitaria, il dibattito sullo ius soli, il caso di Eluana Englaro che aprì un burrone sul campo dei valori e della laicità , ma anche la “prepotenza fagocitante” di Forza Italia e della sua impostazione.
“C’erano da difendere un mondo, delle idee, una storia, una visione dello Stato — fa un’analisi lucida Briguglio – umiliati da una concezione ad personam delle istituzioni. Lo dico senza rancore: non poteva essere la storia missina e di An”.
Due gli errori: “Quello politico fu la mozione di sfiducia, dovevamo uscire dal governo, ma non dal perimetro della maggioranza. Non ne discutemmo, non ho mai saputo dove e da chi fu presa la decisione. E quello culturale ce lo insegna Augusto Del Noce: un’area politica può evolversi, ma sempre nella sua tradizione. Non esiste una “destra di sinistra” e neppure una “nè destra nè sinistra”.
Quanto a Fini “non ero suo amico personale, e non ho mai creduto nel “finismo”. Ma nonostante errori e ingratitudini, è stato un leader importante. Non è stato una parentesi e non potrà essere rimosso dalla storia della destra italiana”.
Alla distanza geografica da quella stagione di Raisi in Spagna fa da contraltare quella politica di Benedetto Della Vedova, ex Radicale che entrò in Fli (diventandone capogruppo) dopo essere già stato “ospite” del PdL come “riformatore liberale”, poi senatore in quota montiana e oggi segretario di + Europa.
“Nessun pentimento, era una fase particolare — rievoca ora – Con Fini ci incontrammo avendo alle spalle storie diverse. In quel momento vedo l’inizio della trasformazione del Dna del centrodestra: dalla rivoluzione liberale e la vicinanza al Ppe al sovranismo di oggi”.
A favorire la scintilla fu un episodio, nei giorni cupi che precedettero la morte di Eluana Englaro, quando il Pdl spinto da Sandro Bondi e Gaetano Quagliariello premeva per un decreto: “Passai la notte fuori da Montecitorio con un cartello che diceva “lasciamola andare”.
L’unico a incoraggiarmi nel centrodestra fu Gianfranco. Vidi da un lato l’embrione di una forza fascio-leghista e dall’altra Sarkozy, Cameron, l’humus della fondazione FareFuturo. Con noi vennero Luca Barbareschi, Chiara Moroni, Alessandro Ruben…”.
Dieci anni dopo, lo sguardo non è cambiato: “Era una battaglia dura ma doverosa. A fine legislatura Berlusconi cadde, ma la sfida per la costruzione di un centrodestra diverso fu perduta. Soffiava già un vento trumpiano ante-litteram”.
Con un paradosso un po’ beffardo: “Oggi Forza Italia è residuale, un piccolo nucleo che si oppone al nazionalismo euro-scettico più vicino a Orban che alla Merkel”.
E dentro gli azzurri, c’è chi progetta una scissione per difendere i propri valori, il proprio passato, l’ancoraggio europeo. Se diventerà realtà , questa è un’altra storia, e non è ancora stata scritta.
(da “Huffingtonpost”)
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