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BOMBE SUI CIVILI DURANTE L’EVACUAZIONE DA GAZA: ISRAELE PRIMA GARANTISCE “IL CORRIDOI SICURO” E POI LANCIA BOMBE SUL CONVOGLIO, UCCIDENDO SETTANTA DONNE E BAMBINI

Ottobre 14th, 2023 Riccardo Fucile

IL RACCONTO DELL’OPERATORE CHE STA SEGUENDO LA FUGA DEI PALESTINESI… QUESTO SI CHIAMA CRIMINE DI GUERRA E TERRORISMO AL PARI DI HAMAS

C’è chi ha deciso di restare in città e chi, semplicemente, non ha potuto lasciarla. Ma ci sono anche decine di migliaia di persone che sono fuggite da Gaza, dirette a Sud, per scampare ai bombardamenti dell’esercito israeliano.
Omar Ghrieb, Policy Officer di Oxfam, ha intrapreso il lungo cammino insieme agli abitanti di Gaza e ha raccontato l’esodo dei palestinesi di sabato 14 ottobre:
“Probabilmente questi tre giorni sono stati tra i peggiori della mia vita. Abbiamo passato anni qui, ma quello che è successo ieri è stato veramente orribile. Abbiamo visto coi nostri occhi, abbiamo avuto la possibilità di vedere ciò che succede, quando i bombardamenti ci hanno spinto da Gaza verso il Sud” ha detto.
“Le persone sono rimaste 14 ore in un flusso, un mare di persone che camminavano con i loro averi, con i loro oggetti di valore, con in braccio i loro bambini, sostenendo i malati, i disabili, semplicemente continuando a camminare sotto al sole, pregando ogni macchina di passaggio di prenderli con sé. Ma la maggior parte delle macchine erano già stracolme”.
E ancora: “Non sono come e quando abbiamo finalmente raggiunto il Sud, ma le persone continuavano ad arrivare. E ho visto tantissime persone sedute per strada, insieme ai loro figli e alle loro cose, abbandonati lì, senza più speranza, senza un posto dove andare, senza nessuno a cui rivolgersi per avere rifugio. E, come se non bastasse, parlavano di corridoi umanitari sicuri e poi, invece, hanno bombardato due furgoni pieni di persone, che sono morte a decine, non sono sicuro del numero, almeno 40. Ho visto il luogo del bombardamento, e quando siamo andati via il sangue era così fresco da poterne sentire l’odore nell’aria. Non sono cosa ancora ci aspetta – ha concluso – ma vedere il mondo che non solo tace, ma si leva contro di noi, è qualcosa che non potremo mai dimenticare“.
(da agenzie)

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IL CENTRO PER I “RIMPATRI VELOCI” DI MODICA E’ VUOTO, MA I GIUDICI DI CATANIA NON C’ENTRANO: “ALLA QUESTURA MANCANO MEZZI”

Ottobre 14th, 2023 Riccardo Fucile

DEI POTENZIALI RICHIEDENTI ASILO QUASI NESSUNO FINISCE QUI: “LOGISTICA INSUFFICIENTE, IMPOSSIBILE INVIARE RICHIESTE DI CONVALIDA IN 48 ORE”… SMASCHERATO IL BLUFF DEL GOVERNO

A giudicare dagli attacchi del governo, si direbbe che a impedire il rimpatrio di migliaia di irregolari siano due giudici di Catania.
Peccato che i numeri raccontino un’altra storia e che nel centro siciliano di Modica, a oggi l’unico dedicato alle procedure di frontiera, i migranti siano pochissimi.
“Quando lo abbiamo visitato, lunedì 9 ottobre, c’erano solo quattro tunisini”, racconta l’avv. Riccardo Campochiaro, sul posto con una delegazione del Tavolo Asilo e Immigrazione.
Inaugurato il 25 settembre dopo un’estate di sbarchi – 140 mila nel 2023 – fino a oggi il centro non ha ospitato che una ventina di persone. Colpa dei giudici di Catania che continuano a non convalidare i fermi disposti dalla Questura di Ragusa? È quanto sostengono Meloni e i suoi, che parlano di “decisioni ideologiche”.
Anzi, dopo il video che la ritrae a una manifestazione a Pozzallo, la giudice Iolanda Apostolico è diventata il nemico pubblico numero uno. Insieme al collega Rosario Cupri è competente per il centro di Modica: la Questura trattiene i richiedenti asilo per facilitare i rimpatri e loro li rimettono in libertà perché, scrivono, le regole introdotte dal governo contrastano con le direttive europee.
Il Viminale ha promesso di impugnare tutti i provvedimenti, ma al netto della questione giuridica i conti non tornano.
Andiamo con ordine: la nuova procedura di frontiera, che subordina il permesso di entrare in Italia all’esame accelerato della richiesta d’asilo, consente di trattenere chi entra eludendo i controlli, soprattutto chi proviene da Paesi considerati sicuri quindi con scarse possibilità di ottenere asilo. Tra i principali Paesi d’origine per numero di arrivi via mare, gli unici “sicuri” secondo la legge italiana sono Costa d’Avorio e Tunisia per un totale di 31 mila sbarchi da inizio dell’anno.
Dopo l’inaugurazione di Modica, a ottobre sono sbarcati 492 ivoriani e 724 tunisini. Eppure la maggior parte degli 84 posti del centro resta vuota. Criteri di selezione? “Non ne vedo”, ragiona l’avvocato Campochiaro dopo la visita del 9 ottobre, quando nel centro erano transitate appena 17 persone, tutti tunisini, la maggior parte già usciti perché il Tribunale di Catania non aveva convalidato il trattenimento.
La delegazione ne ha incontrati un paio e nel centro ce n’erano quattro. Effetto deterrente delle toghe catanesi? La verità è decisamente più banale.
A spiegare come stanno le cose è stato un funzionario della Questura di Ragusa presente al sopralluogo del 9 ottobre. “La Questura riferisce che nella struttura detentiva vengono portati, al momento, i migranti arrivati in altri luoghi di sbarco (Lampedusa), che hanno manifestato la volontà di richiedere protezione internazionale e che provengono da Paese di origine sicuro”, riporta Campochiaro nel rapporto scritto per l’Asgi, l’Associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione.
“Viene comunque riferito che non a tutte le persone in questa condizione si applica la procedura di frontiera, la logistica non è sufficiente e non si farebbe in tempo a inviare la richiesta di convalida entro 48 ore”.
Insomma, più di così non si riesce a fare perché mancano i mezzi. Poche parole e le promesse di moltiplicare i rimpatri sbiadiscono. Il Fatto ha chiesto alla Questura informazioni su organici e carichi di lavoro, ma ad ora non c’è risposta.
Che fine fanno allora le altre migliaia di migranti provenienti dai Paesi sicuri? Se fanno richiesta d’asilo, come accade nella maggioranza dei casi, vengono inviati al sistema di accoglienza e si applica la procedura accelerata che obbliga a un primo esame entro sette giorni. Ma se la Commissione territoriale respinge la domanda e il richiedente fa ricorso si va in tribunale.
A proposito di mezzi, quello di Catania è alle prese con i ricorsi del 2018. E c’è dell’altro. Mentre si incaponisce sui 19 tunisini trattenuti e rilasciati da Modica, il governo si disinteressa delle regole che vanno rispettate senza se e senza ma. Negli altri due centri del comprensorio, quello per richiedenti di Pozzallo e quello per minori non accompagnati di contrada Cifali, centinaia di persone vivono tra “condizioni igieniche sanitarie indecorose, cure mediche insufficienti, sovraffollamento e promiscuità”, denuncia Campochiaro.
Entro 72 ore dovrebbero lasciare l’hotspot verso i centri di accoglienza, ma non accade. “In un luogo isolato con 150 posti ci sono stati anche più di 300 minori e non sono mancate le fughe. Ne abbiamo incontrato uno di 12 e uno di 14 anni, in viaggio da due e nel centro da settimane”, conferma Fausto Melluso dell’Arci. “Vanno spostati subito e gli va assegnato un tutore, invece accade solo una volta lasciato l’hotspot: questo sì è contro la legge”.
(da Il Fatto Quotidiano)

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IL CONSERVATORE BRITANNICO CHE HA DENUNCIATO IL PREMIER SUNAK PER COMPLICITA’ NEI CRIMINI DI GUERRA ISRAELIANI A GAZA

Ottobre 14th, 2023 Riccardo Fucile

CRISPIN BLUNT E’ DEPUTATO DI REDHILL SURREY ED EX PRESIDENTE DEL COMITATO PER GLI AFFARI ESTERI

Un deputato conservatore britannico ha notificato al suo governo che intende avviare procedimenti legali, compreso un ricorso alla corte penale internazionale, per essere complice dei crimini di guerra israeliani a Gaza.
Crispin Blunt, deputato di Redhill Surrey ed ex presidente del comitato ristretto per gli affari esteri, ha scritto la lettera al ministro degli Esteri, James Cleverly, e al primo ministro, Rishi Sunak.
Sebbene le opinioni filo-palestinesi di Blunt siano ben note, è un passo straordinario per un deputato conservatore accusare i leader del suo stesso partito di potenziale complicità in crimini di guerra.
Nella sua lettera scrive: “Alla luce della situazione catastrofica che si sta attualmente verificando a Gaza, e delle prove evidenti che Israele ha commesso crimini di guerra ed è sul punto di commettere atrocità di massa a Gaza, questa lettera viene fornita al governo del Regno Unito affinché sottolineare che, ai sensi del diritto penale internazionale e della sua giurisprudenza sulla responsabilità penale individuale, il sostegno fornito agli autori di crimini internazionali può essere indagato e perseguito dalla Corte penale internazionale”.
La lettera, scritta in collaborazione con il codirettore dell’ICJP Tayab Ali, afferma che egli metterà in guardia i funzionari governativi se forniscono sostegno alle azioni del governo israeliano in circostanze in cui sono imminenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Si aggiunge che tali funzionari potrebbero incorrere in responsabilità penali individuali e potrebbero essere perseguiti presso la Corte penale internazionale, i tribunali nazionali o altri tribunali.
Si afferma che gli attacchi a Gaza non hanno rispettato i requisiti di proporzionalità e distinzione previsti dal diritto internazionale, portando all’uccisione e al ferimento indiscriminato di bambini. “Interi complessi residenziali sono stati rasi al suolo, uccidendo tutti quelli che si trovavano all’interno. I rapporti documentano l’uccisione di intere famiglie; con tutti i membri della famiglia – di ogni generazione, dai giovani agli anziani, che vengono uccisi. Dal 7 ottobre, nell’arco di soli 6 giorni, sono già stati uccisi più di 500 bambini”. Aggiunge che secondo la Convenzione di Ginevra “bisogna ricordare che il divieto di punizione collettiva è assoluto”.
Blunt ha già detto al suo partito elettorale che si dimetterà alle prossime elezioni.
(da Globalist)

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SONDAGGIO NOTO: LA MAGGIORANZA DEGLI ITALIANI È DALLA PARTE DI ISRAELE MA BOCCIA L’INVASIONE DELLA STRISCIA DI GAZA

Ottobre 14th, 2023 Riccardo Fucile

LA PERCENTUALE DI CHI SOLIDARIZZA CON LO STATO EBRAICO VARIA (E DI MOLTO) ANCHE IN BASE ALL’ORIENTAMENTO POLITICO… PER IL 55% DEGLI INTERVISTATI, ISRAELE DOVREBBE CERCARE DI CONTENERE IL CONFLITTO ATTRAVERSO UNA VIA DIPLOMATICA CHE PORTI A UN ACCORDO DI PACE

Nella guerra in Medio Oriente scatenata dall’attacco di Hamas su Israele dello scorso 7 ottobre, gli italiani sembrano aver deciso da che parte schierarsi. Quasi due cittadini su tre, il 63%, solidarizzano con lo Stato di Israele, mentre il 18% si schiera con i terroristi di Hamas. A rivelarlo è il sondaggio condotto dall’Istituto demoscopoico Noto Sondaggi per la Repubblica.
La percentuale di italiani che solidarizzano con lo Stato israeliano varia in modo significativo in base all’orientamento politico. Tra gli elettori di Forza Italia e Fratelli d’Italia, per esempio, la percentuale sale rispettivamente all’82% e all’80%. Ancora più netta è la posizione dei seguaci di Italia Viva, che si schierano per il 92% con Israele. Tra i partiti di centrosinistra è tutta un’altra storia. Nel Pd la percentuale cala ma si mantiene su livelli più o meno in linea con la media nazionale: 62%. Tra gli elettori del Movimento 5 stelle scende al 44%, mentre crolla al 15% tra chi vota Alleanza Verdi-Sinistra.
I timori per l’allargamento del conflitto
Al di là dei diversi schieramenti, ciò che emerge con forza dal sondaggio è la paura degli italiani per le conseguenze della guerra. Quasi un cittadino su due (il 46%) teme che le guerre in corso in Medio Oriente e in Ucraina possano dare il la alla Terza guerra mondiale. Mentre la maggioranza degli italiani (il 54%) pensa che il conflitto tra Israele e Hamas si allagherà fino a coinvolgere altre nazioni. Per quanto riguarda le ripercussioni più dirette sul suolo italiano, il 53% degli intervistati dice di temere il verificarsi di attentati.
Come dovrebbe agire Israele secondo gli italiani
E proprio per evitare che si verifichino tutte queste possibili conseguenze, gli italiani hanno pareri contrastanti su come il governo di Tel Aviv dovrebbe rispondere agli attacchi di Hamas dello scorso 7 ottobre. Per il 55% degli intervistati, Israele dovrebbe cercare di contenere il conflitto attraverso una via diplomatica che porti a un accordo di pace. Solo un italiano su quattro (il 25%) ritiene che l’esercito israeliano dovrebbe invadere militarmente la Striscia di Gaza, come sta avvenendo proprio in queste ore.
(da agenzie)

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LO SCRITTORE ISRAELIANO KERET: “L’ODIO PER I PALESTINESI E’ DEGENERATO”

Ottobre 14th, 2023 Riccardo Fucile

“OCCORRE COMPRENSIONE PER LE RAGIONI DI TUTTI”

Nel 2020, dopo che una terribile esplosione aveva scosso Beirut e si parlava di attacchi terroristici su larga scala, la stand up comedienne libanese Carmen Chraim ha risposto alla domanda su come facesse tutte le sere a salire su un palco per fare battute non conoscendo la sorte del proprio paese: «Bisogna provarci», ha detto laconica. «Fermarsi significa dichiarare la sconfitta».
Il modo che ha Etgar Keret di continuare a provarci passa dalla letteratura umoristica, che per lui diventa una questione privata, il suo personalissimo scudo all’incertezza e alla violenza che troppe volte ha visto esplodere ai margini e nelle città del suo paese, Israele. Trasformare in umorismo l’assurdità incomprensibile di un’esistenza al limite del conflitto è la sua arma. L’unica che, da pacifista convinto, si concede.
Le chiederei come va, ma…
«È tutto molto instabile. Quando comincia una guerra il tempo si dilata e se ripenso alle prime ventiquattro ore dopo gli attacchi ho la sensazione che in realtà siano trascorsi quattro mesi. Dal momento in cui i terroristi hanno fatto irruzione nei kibbutz di Kfar Aza a quello in cui hanno annunciato le prime dieci vittime, mi sono venuti i capelli bianchi».
È l’incertezza a logorarla?
«Più che altro il senso di inutilità».
Impotenza?
«No, no, proprio inutilità. Il novanta percento di noi è inutile. Ho letto da qualche parte che durante la Prima Guerra Mondiale c’erano alcune vedette su dei palloni aerostatici: passavano ore semplicemente a osservare cosa accadesse al fronte, senza scendere. Il tasso settimanale di suicidi tra loro era in percentuale più alto di quello tra i soldati nelle trincee. Ecco, in Israele per chi vive fuori dalla striscia di Gaza in questo momento è così. Siamo su dei palloni aerostatici e osserviamo».
Non un grande spettacolo, suppongo…
«La verità è che non vediamo succedere niente in tempo reale. Aspettiamo che accada qualcosa, ma nulla si muove. La guerra per noi è così: se non siamo sotto attacco diretto passiamo il tempo di fronte alla televisione, ci ripetiamo che dobbiamo rimanere informati, che non possiamo distogliere l’attenzione, e ci ritroviamo immersi in tutto questo dolore, questa preoccupazione, quest’ansia, senza che in effetti accada nulla che ci coinvolge direttamente».
Non c’è proprio niente che possiate fare?
«C’è chi accetta la propria condizione di vedetta nel pallone e chi cerca di ribellarsi. Quando dopo il primo attacco i feriti chiamavano aiuto dai loro nascondigli nei cespugli, c’è chi ha preso la macchina e, disarmato, è andato ad aiutarli. Ha rischiato la propria vita per persone che non conosceva».
Da dove è venuto questo impulso spontaneo, secondo lei?
«È stato qualcosa di automatico. L’energia di chi nei mesi e negli anni scorsi è sceso in piazza per protestare contro Netanyahu si è in qualche modo condensata e solidificata nell’urgenza di fare qualcosa di pratico quando tutti gli errori del governo si sono espressi in una tragedia tangibile. Hanno voluto aiutare, salvare, dimostrare che la protesta ha un risvolto pratico».
È il contrario della vendetta…
«Esatto. Non vendetta, ma compassione. Praticità che vada al di là della guerra».
E lei la sente questa urgenza?
«Continuamente! Però devo dire – e lo ammetto apertamente perché lei non è israeliano e non è mia moglie – che quello che faccio io non mi sembra molto utile».
Cioè?
«Sono appena tornato da qualche ora di volontariato in un ospizio. Alcuni degli ospiti sono anziani, altri anzianissimi. Molti di loro hanno perso qualche nipote o pronipote nella guerra. Hanno molta difficoltà a seguire le procedure antimissile, quindi sto lì con loro in attesa e intanto parliamo, così se suona la sirena posso aiutarli. E ogni tanto vado a leggere per i bambini dei kibbutz evacuati. Mi trovo seduto in un angolo con una bimba di cinque anni che magari ha visto sparire metà dei suoi compagni il giorno prima, a scherzare. Non credo sia molto utile ai fini pratici, ma mi fa sentire come se non fossi una delle vedette sui palloni».
Mi sembra tutto molto utile, in realtà…
«Lo è a livello personale, non comunitario. È come se aiutassi una persona alla volta a estraniarsi per un momento. E aiuta me a fare lo stesso».
Non le sembra importante?
«Se si sommano molte di queste esperienze, lo diventa. Sono cresciuto in una comunità composta soprattutto di immigrati recenti. I miei genitori, entrambi sopravvissuti all’Olocausto, erano tra i pochi europei; quindi, continuavano a chiedere a mia madre di andare a parlare della sua esperienza. Lei ha sempre rifiutato. Diceva: “Ho vissuto l’Olocausto, non lavoro per l’Olocausto”. Immagino che distrarsi serva a questo, a scrollarsi di dosso la tragedia».
Ha anche a che fare con l’identità personale?
«Indubbiamente. Dal momento in cui ci si comincia a identificare sempre con le vittime in cerca di vendetta, si trasfigura come esseri umani. È questo il sentimento che in larga parte affligge Israele: l’idea che si debba lavare col sangue un torto subito. Per questo sono così preziosi i momenti di normalità. Sono ricordi alternativi, che esulano dal vittimismo».
Immagino che di scrivere non se ne parli…
«No, per niente. In questo momento sono un po’ meno di un essere umano. Quasi un essere umano, ma non un essere umano completo».
E per scrivere ha bisogno di tutta la sua umanità?
«Per scrivere c’è bisogno di tempo e di concentrazione. Il tempo ci sarebbe anche, ma la concentrazione è tutta un’altra cosa. Dovrei potermi sedere e riflettere, elaborare, avere la mente sgombra da fatti che non hanno nulla a che vedere con il mio lavoro. In questo momento posso contare solo su brevi attimi, utili a prendere fiato».
Cos’è che fraziona il tempo?
«Tutto. La necessità di avere notizie, la consapevolezza costante che tra cinque minuti potrei dover svegliare mio figlio perché suona la sirena, che tra dieci qualcuno potrebbe chiamarmi per andare a donare il sangue. È come vivere costantemente nel presente, che fa sì che il presente non esista più. E per scrivere bisogna essere presenti al presente, in un certo senso».
A volte si dice che l’umorismo sia un’arma per esorcizzare la tragedia…
«C’è una cosa che penso, in particolar modo riguardo all’umorismo ebraico, e che spero emerga bene dal mio lavoro: l’umorismo è l’arma dei deboli. I forti, coloro che hanno il potere, non ne hanno bisogno. Perché possono cambiare arbitrariamente ciò che non gli piace, possono piegare la realtà a loro discrezione. Se non si ha questo potere ci sono due cose che si possono fare: arrendersi o scherzarci sopra».
E cosa si ottiene?
«È un modo per affermare che anche se la realtà è avversa, non ne siamo assoggettati. Pensi a quante battute esistono sulla morte: se sconfiggessimo la morte non ci sarebbe più la necessità di scherzarci. Gli studenti prendono in giro i propri insegnanti, perché sono loro a giudicarli, ma gli insegnanti non hanno alcun motivo per prendere in giro gli studenti».
È un modo per trascendere la violenza?
«È la più valida alternativa. Il mio scrittore umoristico preferito è Sayed Kashua, un ebreo palestinese, perché lui è due volte dalla parte sbagliata. È una minoranza per i palestinesi, essendo ebreo, e un nemico per gli israeliani, essendo palestinese. Non ha altro mezzo per proteggersi se non il suo umorismo».
Che notoriamente scivola sotto la cieca arroganza…
«C’è una storiella che mi piace molto, non è divertente, ma credo che confermi la mia teoria. Siamo ai tempi dei pogrom in Russia. Un ebreo sta camminando su un marciapiede stretto e incrocia un cosacco. Il cosacco lo aggredisce: “Non scenderò dal marciapiede e camminerò nel fango per cedere il passo a un insignificante pezzo di merda”. L’ebreo allora scende dal marciapiede, nel fango. Lo guarda e risponde: “Strano, io lo faccio sempre!”».
Non è vero che non è divertente…
«È vecchio stile, diciamo. Però il punto per me è che l’ebreo sarà tornato a casa con i pantaloni sporchi, ma con l’orgoglio intatto di chi ha vinto una battaglia».
E il cosacco?
«Probabilmente non l’ha capita».
Quindi l’umorismo è importante di questi tempi?
«Fondamentale. Soprattutto a livello privato, anche perché spesso le battute che si generano in un periodo difficile possono sembrare sbagliate, irrispettose, e magari lo sono anche. Sarebbe meglio non divulgarle».
Perché?
«Be’, sono modi per tirare avanti individualmente. Per vincere la paura in famiglia, per esempio. C’è una battuta idiota che faccio sempre a mia moglie quando suona la sirena antimissile. Le prendo la mano e le dico: “Non preoccuparti, se non sopravviverai mi rifarò una vita con una donna molto più giovane e daremo il tuo nome alla nostra prima figlia”. Va bene per noi, non per tutti».
Suo figlio ha diciotto anni, vero?
«Quasi. Ha sei mesi di vantaggio sul servizio militare obbligatorio».
Siete preoccupati?
«Da quando è nato. Un’altra battuta stupida che facevo sempre a mia moglie, riferendomi a nostro figlio, era: “Non preoccuparti, per quando avrà l’età per servire il paese, un paese non esisterà più”. Adesso sta cominciando a rinfacciarmela. Quando sono cominciati gli attacchi di questi giorni mi ha fatto: “Ti ho sempre detto che non sei divertente”».
C’è un momento in cui si smette di provare a scherzarci sopra?
«Quando si smette di provarci, si muore. La vita stessa è un tentativo fallimentare: si vive provando a conquistarla e poi si muore. Se non ci si prova nemmeno, si toglie senso a tutto l’esperimento».
Pensa che cambierà qualcosa nella percezione della sinistra e del pacifismo israeliano?
«Penso che sia già cambiato qualcosa, innanzitutto nella definizione di destra e sinistra. Dopo l’escalation di assurdità, di violenza, di arroganza di Netanyahu, quando vado alle manifestazioni mi trovo sempre più spesso in compagnia di persone contro le quali avevo protestato. Persone che avrei senza dubbio definito fascisti. Ministri, membri del parlamento. Quindi non è più una questione di destra o sinistra, si è tutto ridotto al fatto di considerarsi o meno superiori ai palestinesi. È una barbarie».
Mi fa un esempio pratico?
«La sinistra è sempre stata favorevole alla soluzione a due stati per la questione palestinese. Ora, se qualcuno me lo chiede, rispondo che prima di pensare ai due stati mi piacerebbe avere in parlamento qualcuno che non fosse islamofobico o razzista, per cominciare. Perché la convivenza è indubbiamente auspicabile, ma bisognerebbe innanzitutto liberarsi dell’odio».
In tutte le sue forme…
«Esatto. Vorrei vedere della comprensione a livello politico per le ragioni di tutti, per i diritti di tutti. Vorrei che venissero fatte delle leggi contro l’omofobia e che non passassero quelle omofobe, per esempio. È come se fossimo tutti passeggeri di un’auto che sta per uscire di strada e ci chiedessimo se stiamo ancora andando nella direzione giusta. Prima sarebbe il caso di non schiantarci».
Da cosa deriva questo continuo senso di emergenza?
«C’è una cosa che ho scritto tempo fa, durante le proteste anti-coloniali: per tutta la vita ho avuto paura che Israele annettesse i territori occupati e non mi sono accorto quando i territori hanno annesso Israele».
Cosa significa?
«Che la brutalità, la xenofobia, il razzismo che caratterizza il sentimento dei coloni nei confronti dei palestinesi, ora è ovunque. Il linguaggio che veniva riservato dai coloni verso i palestinesi ora viene esteso a chi protesta, dicono che la polizia non è abbastanza violenta nei nostri confronti. Ora, perché la maggior parte di noi non sta con Netanyahu, siamo tutti palestinesi. Tutti traditori».
Come andrà a finire?
«Me lo domando da sempre. Posso concludere con una citazione di mio padre?».
Certamente…
«Quando ero piccolo gli ho chiesto, con l’innocenza dei bambini: “Papà, pensi che l’Olocausto sia stato il periodo peggiore della tua vita?”. Mi ha risposto: “Nella vita non ci sono periodi migliori o peggiori, solo periodi facili e periodi difficili. E ho imparato che i tempi facili sono i più divertenti, ma che purtroppo è dai tempi difficili che si impara qualcosa”. Questi sono tempi difficilissimi, ma noi israeliani stiamo imparando molto di noi stessi».
(da agenzie)

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SCUOLA SENZA VOTI, LE SPERIMENTAZIONI IN TUTTA ITALIA

Ottobre 14th, 2023 Riccardo Fucile

“COMBATTE L’ANSIA DA PRESTAZIONE E FUNZIONA”

C’è un fenomeno che, passo dopo passo, sta prendendo piede anche in Italia. È la scuola senza voti, un modello che sempre più istituti superiori stanno scegliendo di abbracciare con risultati spesso incoraggianti.
Da mesi le principali associazioni studentesche protestano contro un modello didattico ritenuto ormai obsoleto, nonché corresponsabile dell’aumento dei disturbi psicologici e dei problemi d’ansia fra i giovani. Ad oggi sono diverse le scuole che hanno abbracciato la sperimentazione, abolendo la suddivisione in quadrimestri e pubblicando i voti degli studenti solo alla fine dell’anno.
Tra gli istituti che hanno accolto le richieste degli studenti sull’abolizione dei voti, racconta oggi la Repubblica, ci sono il Marco Polo di Firenze, il Volta di Piacenza, lo scientifico Bottoni a Milano e, ultimo arrivato, lo scientifico Cannizzaro di Palermo, che ha oscurato ai genitori i voti delle verifiche quotidiane.
L’apertura del capo dei presidi
Si tratta ancora di una piccola minoranza delle scuole, ma testimonia la sempre maggiore apertura del mondo scolastico verso il superamento dei voti.
A essere favorevoli a questi esperimenti non sono solo gli alunni, ma anche molti dirigenti scolastici. «Ben vengano le sperimentazioni sull’abolizione dei voti, ma prima occorre aprire un dibattito», spiega Antonello Giannelli, a capo dell’Associazione nazionale presidi. «Ritengo – aggiunge – che valga la pena tentare la vita dell’innovazione anche perché la situazione attuale non è oggettivamente soddisfacente». La strada da seguire potrebbe essere quella intrapresa da altri Paesi. In Finlandia, per esempio, non ci sono più né voti né bocciature. Mentre in Corea del Sud i voti ci sono ancora, ma non è più possibile bocciare gli studenti. E secondo Giannelli non è escluso che prima o poi anche in Italia si vada verso questa direzione: «Si deve aprire un dibattito. Non mi sembra praticabile un’abolizione tout court dei voti senza adeguata preparazione, formazione e aggiornamento dei docenti».
La voce di studenti e pedagogisti
Ma cosa ne pensano gli altri soggetti interessati dalla decisione? Gli studenti, come detto, la loro posizione l’hanno resa chiara fin da subito: «Non solo i voti causano stress, ma rappresentano un sistema scolastico non interessato alla formazione di cittadini consapevoli quanto all’introduzione nel mondo del lavoro», spiega Bianca Chiesa, dell’Unione degli Studenti, a Repubblica. Una presa di posizione che trova una sponda anche tra molti pedagogisti. I voti a scuola? «Sono retaggi del passato, antiquati e agghiaccianti», sostiene Daniele Novara, alla guida del Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.
(da agenzie)

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“PERCHE’ MOSTRO LA VIOLENZA? PER FAR CAPIRE DI COSA SONO CAPACI GLI ESSERI UMANI”: MARTIN SCORSESE PARLA DEL SUO NUOVO FILM, “KILLERS OF THE FLOWER MOON”, CHE RACCONTA LA STRAGE DELLA TRIBU’ DEGLI OSAGE IN OKLAHOMA, DOPO LA SCOPERTA DEL PETROLIO NELLE LORO TERRE

Ottobre 14th, 2023 Riccardo Fucile

“NEGLI ANNI ’50 GUARDAVO I WESTERN, E PENSAVO CHE LE STORIE DI INDIANI E COWBOY AVESSERO DETTO TUTTO. INVECE NON ERA COSÌ”

In un’epoca in cui se sei maschio e bianco raccontare la storia di una minoranza etnica rischia di vederti accusato di appropriazione culturale, Martin Scorsese è riuscito con Killers of the Flower Moon, il suo nuovo film in uscita il 19 ottobre, a compiere un’impresa: è una delle più limpide e commosse ricostruzioni che il cinema abbia mai fatto del massacro dei nativi americani da parte dei bianchi.
Siamo negli Anni Venti, e gli Osage sono tra le comunità più facoltose d’America, grazie all’abbondanza del petrolio scoperto sul loro territorio a partire dall’inizio del Novecento. Ernest (DiCaprio alla fine si è preso la parte), veterano della Prima guerra mondiale, rientra in Oklahoma sperando che suo zio, l’allevatore Bill Hale (Robert De Niro), gli trovi un lavoro. Lo zio, che ama apparire come un benefattore degli Osage, gli propone di diventare l’autista di una ricca nativa, Mollie Burkhart (Lily Gladstone).
Quindi spinge il nipote, che nel frattempo se ne è innamorato, a sposarla. Coinvolgendolo così nel suo piano: sottrarre, con sotterfugi e vari omicidi, il diritto allo sfruttamento dell’oro nero. Mollie però riesce a coinvolgere l’Fbi, che invia l’agente White (a questo punto interpretato da Jesse Plemons) a indagare.
«Insomma, quando ho incontrato gli Osage i loro discorsi sull’amore e sul rispetto per la Terra mi hanno commosso profondamente, e ho capito che dovevo rivoltare la vicenda come un guanto perché diventassero loro i veri protagonisti», spiega Scorsese. «Solo così questa storia poteva diventare universale, e raccontare come i bianchi hanno colonizzato altri popoli depredandoli barbaramente. In qualche modo ho fatto tesoro di una lezione imparata quando guardavo i film da ragazzino».
Quale?
«Mi sono ricordato di quanto avessi amato Il fiume di Jean Renoir e altre pellicole sull’India di registi britannici e americani. Poi però vidi Il lamento sul sentiero di Satyajit Ray e mi resi conto che quelli che nei film precedenti erano solo comparse diventavano qui i protagonisti. Quella lezione mi ha aperto gli occhi sul cinema di altri Paesi, ma mi ha fatto anche capire che se ti avvicini a culture e tradizioni diverse dalla tua devi farlo con enorme rispetto, accuratezza e passione. Negli anni Cinquanta guardavo i western, e scioccamente pensavo che le storie di indiani e cowboy avessero detto tutto. Invece non era così».
Anche questa è una storia di violenza, come diversi altri suoi film. Perché ha deciso ancora una volta di mostrarla in primo piano, anziché fuori campo?
«Questa domanda me la pongono dal 1972 e rispondo oggi come rispondevo allora. Potrei fare come la tragedia greca, che lasciava immaginare allo spettatore gli omicidi, ma sono convinto che sia necessario far vedere di cosa sono capaci gli esseri umani. Questo non vuol dire che mi diverta farlo, ma credo che nascondere la brutalità sotto un tappeto non sia mai la scelta giusta».
Girare un film costa una fatica enorme. A 81 anni cosa la spinge ancora ad affrontarla?
«Il cinema è la mia vita, e ogni volta che giro un nuovo film trovo sempre qualcosa da imparare. Per esempio, dopo Toro scatenato, che non fu un successo, ho dovuto ricominciare tutto da capo con Re per una notte e Fuori orario. Nella mia carriera ho cercato di non ripetermi e trovare ogni volta nuove forme di narrazione
Cosa ne pensa del trionfo al box office di Oppenheimer e Barbie?
«Non ho visto nessuno dei due, ma sono felice che siano due successi, perché ammiro sia Chris Nolan che Margot Robbie – venne lanciata proprio da Wolf of Wall Street. In generale sono felice se la gente torna al cinema, e spero che film come questi diano respiro a un cinema diverso da quello che ha dominato a Hollywood negli ultimi 20 anni. Non capisco perché i produttori pensano che i film indipendenti debbano interessare solo a poche persone».
Lei è al suo decimo film con De Niro e al sesto con DiCaprio. Cosa rappresentano questi due attori per lei?
«Bob l’ho conosciuto a 16 anni, me lo presentò Brian De Palma: è uno dei pochi a sapere da dove vengo e chi sono veramente. Dopo Mean Streets e Taxi Driver capiì che ci accomunava l’interesse per certe storie e anche certi conflitti psicologici nei personaggi. Tra noi si è costruita una reciproca fiducia, e fu lui a propormi di fare vari film, come Toro scatenato che all’inizio non volevo girare, o New York, New York: […] Le parole chiave per descrivere Bob sono assenza di vanità e mancanza di paura, sia nell’affrontare un ruolo sia nel discutere con gli studios che varie volte volevano sottrarmi il controllo sui miei film. Fu proprio lui a presentarmi Leo. Mi disse: ti consiglio di lavorare con questo ragazzo. E così iniziammo a girare Gangs of New York».
Che cos’hanno in comune?
«L’ho capito quando ho girato The Aviator: entrambi sarebbero pronti a fare qualsiasi cosa per il film. Anche se poi, in realtà, lavorano in modo molto diverso».
In che senso?
«Bob è uno silenzioso, con lui non c’è bisogno di perdersi in chiacchiere, è troppo interessato a trovare il personaggio che deve interpretare nell’azione del momento. Con Leo invece parliamo molto. E proviamo, prima di andare sul set. Ma sono entrambi straordinari. Gran parte della mia fortuna come regista è dovuta al loro talento».
(da La Repubblica)

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DAVVERO QUADRI D’AUTORE DI INESTIMABILE VALORE SONO STATI “SOTTRATTI” A MARGHERITA AGNELLI? È UNA PARTITA CHE LA MADRE DI JOHN, LAPO E GINEVRA ELKANN STA GIOCANDO, CONTRO I FIGLI, NELL’INFINITA DISPUTA SULL’EREDITÀ DI GIANNI AGNELLI

Ottobre 14th, 2023 Riccardo Fucile

L’INCHIESTA DI “REPORT”, TRA ITALIA E SVIZZERA, PER CAPIRE DOVE SONO FINITE LE OPERE E IL GIALLO DI UNA PAGINA RIMOSSA DALL’INVENTARIO DEI BENI

Davvero quadri d’autore di grande valore sono stati sottratti al patrimonio ereditario che spettava a Margherita Agnelli? È una partita che la madre di John, Lapo e Ginevra Elkann sta giocando, contro i figli, all’interno dell’annosa, tortuosa e «sanguinosa» disputa sull’eredità Agnelli, che lei vorrebbe azzerare.
Ma c’è l’altra «campana» da sentire, i figli appunto: una replica dura e puntigliosa, agli atti del procedimento di Torino, ora «congelato» in attesa dei giudici svizzeri. E poi c’è il giallo di una pagina rimossa dall’inventario dei beni contenuti in tre case che furono di Gianni Agnelli (morto nel 2003) e che dopo la scomparsa della moglie Marella Caracciolo (2019), usufruttuaria, sono passate alla figlia Margherita.
Siccome la materia del contendere non è la friggitrice mancante o un set di posate, ma opere d’arte da centinaia di milioni, di artisti come, tra l’altro, Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Jean-Léon Gérôme, Claude Monet, Francis Bacon, cioè un patrimonio culturale anche di interesse pubblico, la questione esce dai confini familiari.
Ed è su questo che Report di Sigfrido Ranucci, in onda domenica 15 ottobre alle 20,55 su Rai Tre, indirizza la sua inchiesta tra Italia e Svizzera per capire, appunto, dove sono finite le opere e se sono uscite dall’Italia (questione, per altro, oggetto di indagine della Procura di Milano).
Noi rimaniamo in Patria e andiamo all’aprile 1999, quando l’Avvocato scrive il terzo testamento stabilendo che alla sua morte gli immobili di Torino (Villa Frescot), Villar Perosa e Roma (un grande attico a due passi dal Quirinale) sarebbero andati «per l’usufrutto vitalizio a mia moglie Marella e per la nuda proprietà ai miei due figli Margherita e Edoardo», poi morto suicida nel 2000 a 46 anni.
Margherita nel 2004 firma a Ginevra l’accordo transattivo sull’eredità del padre e un patto successorio con la madre rinunciando alla sua futura eredità. Tutto compreso porta a casa, in Svizzera, circa 1,4 miliardi. E quando muore anche la madre entra in possesso dei tre immobili, nel frattempo concessi in comodato d’uso o locazione a John Elkann.
Dagli immobili, però, «risultavano ammanchi di beni di ingentissimo valore di proprietà del padre», denuncia al tribunale di Torino Dario Trevisan, legale di Margherita. Nell’elenco di «Opere non rinvenute» ci sono quadri di Balla, De Chirico e Gérôme a Roma; Monet e due Bacon a Villar Perosa e Villa Frescot.
I fratelli Elkann replicano quadro per quadro. I Balla, de Chirico e Gérôme? «L’inventario dei “beni contenuti nell’immobile di Roma”, firmato da Marella e da Margherita, e confluito dell’allegato 2A dell’Accordo Transattivo, non contiene volutamente la pagina 75, espunta, nella quale erano stati indicati tali quadri».
Perché è stata «espunta» pagina 75 dell’inventario? «Perché — secondo i tre figli di Margherita — i dipinti di Balla, de Chirico e Gérôme erano di proprietà di Marella». Dunque fuori dalla rotta ereditaria di Margherita e passati ai tre nipoti. Sul Gérôme in particolare ci sarebbe un’inattaccabile fattura d’acquisto di Marella del 13 novembre ‘91.
Sul Monet la prova che non appartenesse a Gianni è che «non risultava in alcuna lista specificamente dedicata a tutte le opere d’arte appartenutegli». E i due Bacon? «Venduti da Gianni negli anni ‘90».
È alquanto intrigante la circostanza dell’eliminazione di pagina 75 dell’inventario, dove erano elencati alcuni dei quadri più preziosi. In effetti, mettendo insieme le carte in mano al Corriere con quelle che Report mostrerà in esclusiva domenica sera, c’è un «buco» nell’allegato del 2004. Secondo fonti vicine agli Elkann la pagina è stata tolta proprio al momento della firma dell’accordo. Però era un atto di grande importanza, sostanziale e formale: possibile che sia stata tolta una pagina come si fa con i quaderni di scuola?
E perché una volta eliminata pagina 75, il documento non è stato ristampato con la sequenza corretta di pagine? Non risulta — dalle fonti interpellate di entrambe le parti — che sia stato aggiunta una postilla o un verbale controfirmati che dessero conto del taglio. Secondo fonti legali vicino a Margherita è falso che ci fosse l’accordo per eliminare quella pagina in cui, tra l’altro, comparivano proprio i quadri che più interessavano a Marella; se fossero stati davvero suoi — è la tesi — dovevano essere indicati nella lista ad hoc dei beni di Marella, anch’essa allegata all’accordo del 2004.
(da Corriere della Sera)

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IN GIRO C’E’ TANTA VOGLIA DI ALIENI EPPURE NE ABBIAMO ABBASTANZA

Ottobre 14th, 2023 Riccardo Fucile

NEGLI USA L’AUDIZIONE AL CONGRESSO DI TRE PILOTI DELLA MARINA

C’è in giro una gran voglia di alieni. Negli Stati Uniti c’è stata l’audizione al Congresso di tre piloti della Marina che “hanno sperimentato direttamente fenomeni aerei non identificati”.
In Messico, il Parlamento ha sentito alcuni esperti provenienti da Stati Uniti, Giappone e Brasile, che hanno esposto le loro teorie sull’esistenza degli extraterrestri. In particolare, il giornalista José Maussan ha presentato due scatole con presunte mummie trovate in Perù, che lui e altri considerano “esseri non umani che non fanno parte della nostra evoluzione terrestre”.
L’essere umano vive due drammi. È l’unico animale del Creato a essere lucidamente consapevole della propria fine, l’altro dramma glielo crea lo stesso Creato, cioè il terrore di essere solo in questo inesplicabile Universo. Negli anni Cinquanta c’erano i “marziani”. Poi, con i robot, su Marte ci siamo andati e di marziani non ne abbiamo trovati. L’unico marziano realmente esistito è quello di Ennio Flaiano (Un marziano a Roma).
Ci sono poi dei film che testimoniano questa angoscia. Star Trek che perlomeno era divertente perché faceva vedere gli alieni in forme molto vicine a quelle umane, solo un po’ distorte (grandi orecchie e simili) esseri che facevano cose del tutto improbabili come nei film di Maciste, dove il protagonista solleva pesi impossibili. Il che mi ricorda delle scene che ho visto spesso sulle piazze di Genova e di Torino. C’era un forzuto energumeno con davanti un sasso enorme e diceva agli spettatori: “Scommettete che solleverò questo sasso?”. Intanto si faceva dare l’obolo.
Riusciva a portare le cose talmente per le lunghe che la gente se ne andava e il sasso lui non lo sollevava, però l’obolo l’aveva già intascato. Un genio. Di geni di questo genere, capaci di inventiva, di “creatività” come si dice oggi dove la creatività è scomparsa dalla faccia della terra tranne che nel marketing pubblicitario, ce n’erano altri che operavano però con modalità diverse come quel tale che si era inventato una medicina che guariva tutte le malattie e che aveva chiamato “Turlupindone B12” e il giornale di mio padre, il Corriere Lombardo, titolò “Turlupinati col Turlupindone”.
Insomma il tipo era stato onesto, se uno era così idiota da farsi turlupinare, be’ cazzi suoi. Un predecessore di Wanna Marchi. Spettacolare, nel suo programma, era il mago brasiliano Do Nascimento. I telespettatori lo interpellavano ansiosamente soprattutto sulla salute e lui diceva “non sente un dolore alla spalla?”. “Ma per la verità non sento nulla alla spalla” ma Do Nascimento insisteva finché la tipa, in genere erano donne, si faceva sedurre (il fascino di Do Nascimento era irresistibile) e tornava a casa convinta di essere malata.
Film più sofisticati che si sono occupati degli alieni, in modo per così dire ideologico, sono Star Wars e l’insopportabile E.T di Spielberg.
È possibile che nel Cosmo ci sia stata in passato della vita ed è possibile che ci sarà in futuro. Quel che è impossibile è che in tempi cosmici, che si misurano in miliardi di miliardi di anni, queste vite si siano presentate contemporaneamente.
Intanto qui sulla terra la vita, quella vera, è diventata impossibile. Cambiamenti climatici spaventosi, ghiacciai che si sciolgono, mari che si alzano, specie che si estinguono, eventi di straordinaria e avversa potenza in attesa che la razza umana ritrovi il senno e la smetta di inseguire le crescite esponenziali che esistono in matematica non in natura per cui ci toccherà ricominciare tutto da capo, dando origine, speriamo, a un nuovo Medioevo.
Ma torniamo alla nostra solitudine. Dobbiamo rassegnarci, come canta Don Backy che si sente “una nullità in questa immensità”.
(da Il Fatto Quotidiano)

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