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CASO ALMASRI FONTI DELL’INTELLIGENCE RIVELANO: “SULLA SUA LIBERAZIONE I MIGRANTI NON C’ENTRANO NULLA, C’ERANO IN BALLO INTERESSI ECONOMICI, IN PRIMIS DELL’ENI”

Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile

“LA PROCURA GENERALE LIBICA SI ERA MOSSA CHIEDENDO LA SUA SCARCERAZIONE IMMEDIATA AL GOVERNO ITALIANO, E’ STATA UNA SCELTA PER “INTERESSI DI STATO”… I SERVIZI DI ALTRI PAESI CI HANNO DETTO “VOI ITALIANI SIETE SEMPRE I PRIMI…”

Un discorso diverso riguarda la vicenda del generale libico Almasri, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini di guerra e contro l’umanità, arrestato a Torino su mandato internazionale, lasciato libero e rimpatriato. Qui la faccenda diventa complicata. E i vari livelli – d’intelligence, politici, giudiziari – un po’ si intrecciano, un po’ vanno in cortocircuito.
Sulla scarcerazione dell’alto militare è polemica. In procura a Roma arriva un esposto e il procuratore capo indaga il governo e trasmette il fascicolo al tribunale dei ministri. Gli 007 italiani sono stupiti «dalla velocità e dalla semplicità» con cui si è mossa la magistratura capitolina. Le agenzie di intelligence all’estero, sostengono, hanno trovato l’iniziativa bizzarra. «Voi italiani siete sempre davanti a tutti», scherzano.
Certo è che la comunicazione del caso è stata farraginosa.
Quando l’aereo dei servizi segreti era in volo verso la Libia, ancora si diceva che il ministero della Giustizia stesse valutando. A fare chiarezza arrivano fonti attendibili degli 007, che forse hanno “peccato” di eccessiva «trasparenza». In gioco c’erano «interessi di Stato».
«Se non fosse stato riportato a casa Almasri, sarebbero stati messi a rischio gli interessi degli italiani, compresi quelli dell’Eni.
La questione dei clandestini?
Non c’entra nulla».
Almasri viene arrestato, la procura generale libica invia una nota verbale «al ministro degli Esteri e alla procura generale di Roma». Chiede la scarcerazione del generale, già sottoposto a una loro indagine. I servizi italiani avrebbero potuto portarlo a Cipro o a Malta, «ma avrebbe voluto dire coinvolgere un altro Stato». A decidere cosa fare in Italia è stato il sottosegretario di Palazzo Chigi Mantovano, che ha ovviamente informato la premier. Dall’intelligence ribadiscono: «C’era in gioco la sicurezza dello Stato».
(da La Stampa”)

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“L’ITALIA DI GIORGIA MELONI ASSOMIGLIA A UNA REPUBBLICA DELLE BANANE: LE SORELLE D’ITALIA GOVERNANO IL PAESE COME FOSSE UNA SEZIONE DI FDI”: RENZI RANDELLA LA PREMIER SULLO SCANDALO “PARAGON”

Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile

“IL GOVERNO DEVE CHIARIRE CHI HA USATO IN MODO ILLEGALE QUESTO TROJAN POTENTISSIMO. È PEGGIO DELLE SPIE DELLA DDR, ENTRANO NEI TELEFONINI DI GIORNALISTI E POLITICI” … LA BORDATA CONTRO MANTOVANO (“VUOLE REGOLARE I CONTI CON LO VOI: USANO LE ISTITUZIONI PER FARSI LA GUERRA”), NORDIO E PIANTEDOSI IN MERITO AL RILASCIO DI ALMASRI: “HANNO FATTO UNA FIGURA INDECOROSA. IL POSTO DI QUEL KILLER È IL CARCERE”

Matteo Renzi, sposando la linea Trump sulla Corte penale internazionale l’Italia rischia l’isolamento in Europa?
«Sì. Ma più che l’isolamento internazionale temo l’impazzimento istituzionale interno. L’Italia di Meloni assomiglia a una Repubblica delle banane».
Non sta esagerando?
«Non ho mai usato certi toni. Se lo faccio adesso, ho le mie ragioni».
Quali sono?
«Solo nell’ultima settimana i servizi segreti denunciano la procura di Roma. Il governo compra un software che viene usato contro giornalisti. Il sottosegretario Mantovano manda pizzini alla Rai sui voli di Stato per attaccare il procuratore di Roma Lo Voi. Bruno Vespa fa il portavoce del governo, senza ritegno, in prima serata, ma la Vigilanza Rai è bloccata dall’ostruzionismo della maggioranza. E poi la vergogna morale e politica della Meloni su Almasri».
Lei da premier cosa avrebbe fatto?
«Il posto di quel killer è il carcere: è un torturatore, un violentatore di bambini. Se però c’è un interesse nazionale, la premier deve dirlo in Aula. O mettere il segreto di Stato. Lei invece è scappata».
C’è stato un dibattito parlamentare.
«Nel quale Piantedosi ha negato che Almasri sia collegato all’immigrazione. Nordio ha scelto il latinorum dei cavilli. Hanno fatto una figura indecorosa».
Pensa che questa vicenda la danneggerà?
«Lei è una influencer, non una statista. Non ha voluto sporcare la sua immagine: aveva dichiarato guerra ai trafficanti di uomini dal palco di Atreju. E invece i trafficanti li scarcera col volo di Stato».
Ha mandato il ministro della giustizia e quello dell’Interno.
«Una statista viene in aula, lei non lo è. Ma per tutti gli influencer c’è un pandoro che prima o poi fa svanire l’incantesimo, come dimostra il caso di Chiara Ferragni».
Come valuta l’allineamento a Trump sulle sanzioni alla Corte penale internazionale?
«È un errore politico. Strizza l’occhio a Trump offrendosi come suo scendiletto. Minare l’unità europea fa solo danni all’Italia, anche sulla partita dazi».
Casini teme che i sovranisti nostrani legati a Musk ci porteranno nelle braccia di Putin.
«Meloni e Salvini sono stati putiniani per anni, poi hanno cambiato idea. Non hanno bandiere, sono banderuole. Putin e Trump faranno la pace a breve. È più facile che si separino le strade di Musk e Trump. Una poltrona per due va bene al cinema, non alla Casa Bianca».
Chi ha utilizzato Paragon, lo spyware israeliano?
«Il governo deve chiarire chi ha usato in modo illegale questo trojan potentissimo. Tra tutte le vicende questa mi pare la più preoccupante. È peggio delle spie della Ddr, perché entrano nei telefonini di giornalisti e politici».
Non esclude che possa essere stata una Procura?
«Ma in quel caso il governo deve dirci chi ha dato a quella procura il trojan. La polizia, i carabinieri, la Finanza o la penitenziaria? Da queste quattro non si scappa. Il governo è reticente. È una vicenda che non può finire a tarallucci e vino».
Salvini lo spiega come un regolamento di conti tra servizi.
«Sì, ma è tutta colpa di chi gestisce i servizi, cioè di Palazzo Chigi. Hanno creato un clima di guerriglia interna. C’è una caccia all’uomo senza precedenti. Hanno infettato anche le agenzie di sicurezza con la loro concezione privatistica delle istituzioni».
Cosa pensa della denuncia del Dis contro la Procura di Roma?
«Mai vista una cosa del genere. I servizi e le procure devono collaborare, non denunciarsi. Ma c’è la mano di Mantovano che vuole regolare i conti con Lo Voi: usano le istituzioni per farsi la guerra».
Ma accludere quell’atto riservato sull’intercettazione dei servizi nel caso Caputi non è stato un errore da parte del procuratore Lo Voi?
«Non tocca a me dirlo. Io so che nei paesi civili servizi e giudici collaborano, anche quando ci sono errori. Nella Repubblica delle Banane si fanno la guerra».
Quindi teme rischi per la nostra democrazia?
«Temo la maionese impazzita. Le sorelle d’Italia governano il Paese come fosse una sezione di Fratelli d’Italia, ma le istituzioni meritano più rispetto».
(da La Repubblica”)

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FALSE ACCUSE AL PROCURATORE LO VOI PER NON PARLARE DEL TORTURATORE LIBERATO

Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile

I MAGGIORI GIURISTI DIFENDONO LO VOI DALLE ACCUSE PRETESTUOSE… AZZARITI: “ERA UN PASSAGGIO OBBLIGATO IMPOSTO DALLA LEGGE”… LO SCONCIO DI UN PARLAMENTO CHE PUO’ FERMARE I PROCESSI AI POLITICI

Tutto falso. Non era un avviso di garanzia. Non è stata una scelta arbitraria del procuratore di Roma, tantomeno una manovra politica. La trasmissione degli atti al tribunale dei ministri, per chiamare i giudici competenti a valutare il caso del mancato arresto di un ufficiale libico ricercato dalla giustizia internazionale, non si può considerare nemmeno un atto d’indagine. È solo un passaggio giudiziario obbligato, con la procedura più favorevole alle difese, che è assurdo interpretare come un attacco al governo. Anzi, le probabilità che Giorgia Meloni e i suoi ministri debbano affrontare davvero un processo, secondo vari esperti di diritto costituzionale consultati da L’Espresso, sono «bassissime». E il rischio di una condanna, salvo imprevedibili scoperte future, al momento va ritenuto «praticamente nullo».
I costituzionalisti difendono il procuratore
Ad accettare di chiarire nei dettagli la vicenda legale è il professor Gaetano Azzariti, uno dei massimi giuristi italiani, che insegna diritto costituzionale all’università La Sapienza di Roma.
Il docente parte dall’inizio: l’atto notificato dal procuratore di Roma alla premier e ai ministri coinvolti nel caso di Osama Al Najeem, detto Almasri. «Non è un avviso di garanzia», spiega il professore: «È una comunicazione di una trasmissione degli atti, che è imposta dalle norme costituzionali e che non rappresenta un atto d’indagine. Quando riceve una denuncia di cui non sia a prima vista evidente l’infondatezza, il pubblico ministero è tenuto per prima cosa a inviarla al tribunale dei ministri, senza poter compiere alcuna attività istruttoria. “Omessa ogni indagine”, dice testualmente la legge costituzionale del 1989, che impone al procuratore anche di “darne immediata comunicazione ai soggetti interessati”, cioè ai ministri stessi, a loro beneficio, per metterli in condizione di replicare subito alle accuse con atti difensivi».
Il procuratore Francesco Lo Voi è stato comunque attaccato per la preliminare iscrizione dei ministri nel registro degli indagati: si è parlato di «atto voluto». Azzariti sgombra il campo anche da questa polemica: «Non è una scelta a discrezione del procuratore, è un passaggio procedurale obbligato per poter trasmettere gli atti al tribunale dei ministri, cioè a un collegio di tre giudici estratti a sorte, che una volta investito del caso potrà decidere di indagare, ma anche di archiviare. L’iscrizione è regolata dal codice, che prevede due presupposti davvero minimi: la denuncia deve riguardare un “fatto determinato” e “non inverosimile”. Nel caso in questione, il mancato arresto dell’esponente libico è un fatto certo: e che fatto. Oltretutto, qui c’è stata una formale denuncia di un avvocato, non si tratta di un procedimento aperto dal procuratore d’ufficio».
Strategia della disattenzione
Questo parere è confermato da altri giuristi, milanesi e romani, che preferiscono non esporsi. Ma allora come si spiegano gli attacchi feroci contro un procuratore che notoriamente non ha alcun legame con la sinistra, anzi al Csm fu sostenuto dai consiglieri e dalle correnti di centrodestra? «Viene da pensare a una strategia della disattenzione», risponde Azzariti. «Si parla e magari straparla di diritto, del procuratore che indaga la premier Meloni, per distogliere l’attenzione dal fatto, che è molto grave: non è stato eseguito un ordine d’arresto deliberato dalla Corte penale internazionale, istituita con un trattato firmato a Roma, che l’Italia si è impegnata ad applicare. Ora invece un ricercato per accuse molto gravi, come abusi e torture su detenuti inermi, anziché essere consegnato alla giustizia internazionale, è stato riportato in patria con un volo di Stato».
L’attacco giudiziario non esiste
Il giurista non crede che il procuratore abbia trasmesso gli atti per arrivare a un processo. «Come per ogni altro accusato, è tutto da dimostrare che i ministri coinvolti abbiano commesso reati e personalmente sono convinto che, in questo caso, il procedimento penale finirà per essere archiviato. Ma il fatto va spiegato, motivato: il governo deve dare conto delle proprie azioni, deve giustificare la propria scelta come atto politico. Invece si preferisce attaccare il procuratore e la stessa Corte internazionale. Questo è anomalo. Ma si inserisce in una preoccupante tendenza generale: negli ultimi anni sta crescendo una pressione a livello mondiale, sempre più forte, a non rispettare il diritto e a non riconoscere la giustizia internazionale».
Il fatto certo: il rilascio dell’ufficiale libico ricercato per torture
Il protagonista del caso, Osama Al Najeem, è il capo della polizia giudiziaria, che controlla anche le carceri, del governo di Tripoli, l’unico riconosciuto dall’Italia e dalla Ue. Almasri, che significa l’egiziano, è il suo nome di battaglia: nella guerra civile libica aveva un rango da generale e comandava una potente milizia islamista, chiamata Rada, che ha combattuto contro le truppe di Gheddafi, poi contro l’Isis e ora è schierata contro l’esercito di Haftar. Colpito da un ordine di arresto deliberato il 18 gennaio dalla Corte penale internazionale, è stato fermato a Torino, mai poi liberato dall’Italia e rimpatriato in Libia, quattro giorni dopo, con un aereo di Stato.
Secondo il collegio di magistrati internazionali, Al Najeem avrebbe commesso per anni, a partire dal 2015, crimini di guerra e contro l’umanità: è accusato di aver coordinato, ordinato e in alcuni casi eseguito personalmente omicidi, torture e violenze sessuali anche su minori nelle carceri di Tripoli, in particolare nella famigerata prigione di Mitiga, dove vengono segregati, a migliaia, i migranti che sognano di arrivare in Europa.
La denuncia contro i ministri
L’indagine di Roma nasce da una denuncia presentata dall’avvocato ed ex parlamentare Luigi Li Gotti, che ha ipotizzato due reati: favoreggiamento, a carico della premier Giorgia Meloni e dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, per il rilascio del ricercato; peculato, per il sottosegretario Alfredo Mantovano, per il suo rimpatrio con l’aereo dei servizi segreti, a spese dello Stato italiano.
Il procuratore Lo Voi ha aggiunto un’ulteriore ipotesi di reato, omissione di atti d’ufficio, per il solo ministro della giustizia, Carlo Nordio, come lo stesso ex magistrato ora onorevole di Fratelli d’Italia ha rivelato nell’audizione parlamentare del 5 febbraio. A spiegare questa accusa è la ricostruzione dei fatti diffusa tra gli altri dall’Associazione nazionale magistrati: «Al Masri è stato liberato per l’inerzia del ministro della giustizia, che avrebbe potuto e dovuto, per rispetto degli obblighi internazionali, chiederne la custodia cautelare in vista della consegna alla Corte penale internazionale». Nell’audizione, Nordio ha rivendicato la scelta di ignorare un ordine d’arresto da lui definito contraddittorio e «radicalmente nullo».
Un esposto anche alla Corte internazionale
Dopo il rilascio dell’ufficiale libico, la Corte penale internazionale ha aperto a sua volta un fascicolo sul governo italiano, dopo aver ricevuto una denuncia da un rifugiato sudanese, dove si ipotizza un’accusa di ostruzione alla giustizia, cioè di aver ostacolato l’inchiesta della stessa Cpi, permettendo al ricercato di sfuggire all’arresto. La notizia è stata rivelata il 6 febbraio dal quotidiano L’Avvenire, precisando che la premier Giorgia Meloni e gli altri ministri coinvolti sono indicati nel fascicolo internazionale come sospettati. La stessa Corte, su richiesta del governo italiano, ha poi chiarito che non sono indagati: i giudici internazionali devono ancora valutare la denuncia.
Reati ministeriali: in 30 anni nessuna condanna
In attesa dei futuri sviluppi giudiziari, per capire se in Italia i ministri indagati a Roma rischino davvero qualcosa, può bastare leggere le norme e contare i precedenti. In tre secoli di processi per reati ministeriali, a memoria di giuristi, si contano solo tre condannati. Per fatti commessi negli ultimi trent’anni, nessuno.
Dallo scandalo Lockheed a Tangentopoli
Il primo fu Mario Tanassi, dichiarato colpevole nel 1979 di corruzione, come ministro socialdemocratico della Difesa, per le tangenti dello storico scandalo Lockheed. Fu l’unico processo celebrato con la procedura originaria prevista dalla Costituzione del 1948: indagini affidate a una commissione parlamentare inquirente, aperta anche all’opposizione; giudizio davanti alla Consulta, che decide con una sentenza inappellabile.
Durante la cosiddetta Prima Repubblica non si ricordano altre condanne. All’epoca il privilegio legale dell’immunità proteggeva tutti i parlamentari anche dai processi: in mancanza dell’autorizzazione a procedere della Camera o del Senato, i magistrati erano obbligati ad archiviare. L’abuso dell’immunità ha spinto il Parlamento a votare a larghissima maggioranza la sua abolizione, nel 1993, sull’onda delle indagini sulla cosiddetta Tangentopoli, un colossale sistema di corruzione e fondi neri che si può riassumere in un dato: solo a Milano, nel biennio 1992-94, ci sono state più di 1.200 condanne definitive di imprenditori e politici, tra cui decine di parlamentari e ministri. In diversi casi, quella storica indagine milanese (che allora veniva chiamata Mani Pulite) ha dimostrato la colpevolezza anche di parlamentari potenti che a suo tempo avevano ottenuto l’immunità, anche se poi è risultato provato che avevano conti esteri segreti con tangenti milionarie, confessate da tutti gli altri accusati.
Obiettivo finale: l’immunità parlamentare
Oggi i vertici di due partiti di governo, Forza Italia e Lega, con l’appoggio di singoli esponenti e ministri di Fdi, propongono di ripristinare l’immunità parlamentare: deputati e senatori, che già ora non possono essere intercettati, perquisiti o fermati, tornerebbero a costituire una casta legale di super privilegiati, in grado di evitare qualsiasi processo penale con un no politico all’autorizzazione a procedere. Per giustificare il ritorno dell’immunità, diversi politici della maggioranza citano proprio il caso dei ministri indagati per il caso Almasri. In realtà, la procedura che regola i reati ministeriali è stata cambiata prima di Tangentopoli, con la legge costituzionale numero 1 del 1989, che ha mantenuto l’autorizzazione a procedere. Da allora a raccogliere le denunce è il procuratore capo, che però fa solo da passacarte. Le indagini vengono svolte dal tribunale dei ministri: un collegio di tre giudici estratti a sorte tra tutti i magistrati del distretto. E dopo i primi 90 giorni, prorogabili fino a 150, i magistrati devono ottenere l’autorizzazione a procedere della Camera o del Senato (che si occupa anche dei non parlamentari). Dunque, qualsiasi caso giudiziario su ipotetici reati ministeriali può essere fermato e annientato con un voto politico della maggioranza. I giudici stessi possono archiviare in anticipo ogni atto ministeriale che risulti realizzato «nel preminente interesse pubblico».
Con le norme attuali, dal 1989 ad oggi, nell’archivio storico dell’Ansa si parla di tribunale dei ministri in almeno 3.275 notizie. Ma di condanne definitive se ne contano solo altre due. Per fatti che risalgono a più di trent’anni fa. Franco Nicolazzi è stato condannato per concussione, come ministro socialdemocratico dei Lavori pubblici, per lo scandalo delle carceri d’oro, aver estorto tangenti a un costruttore milanese, alla fine degli anni ’80. Una sentenza confermata nel 1997 dalla Cassazione, che nel 2011 ha reso definitiva anche la condanna di Francesco De Lorenzo, per corruzione e associazione per delinquere, per le tangenti milionarie versategli fino al 1992 da diversi industriali farmaceutici, quando era ministro liberale della sanità. In entrambi i casi le indagini erano nate dalle confessioni-fiume degli imprenditori, che dopo la fine di Mani Pulite sono diventate merce rara.
Una legge ultra-favorevole alle difese
Negli ultimi trent’anni si sono susseguiti i procedimenti e le polemiche su decine di ipotesi di reati ministeriali, anche in vicende clamorose, da Gladio ai fondi neri del Sisde, dalla Tangentopoli di Roma al Mose di Venezia. Ma i tribunali dei ministri hanno continuati a funzionare come fabbriche di archiviazioni e proscioglimenti, con qualche episodica sentenza di prescrizione. Passando in rassegna i singoli casi, si trovano pochissime indagini che abbiano fatto emergere fatti nuovi, in precedenza sconosciuti: quasi tutti i procedimenti riguardano atti pubblici, visibili, dai voli di Stato alle nomine ministeriali, dalle consulenze agli sbarchi delle navi delle ong. Fatti notori, di cui si discute solo l’eventuale rilevanza penale, come nel caso della recente assoluzione a Palermo del ministro Matteo Salvini.
A spiegare la scarsità di condanne, secondo magistrati molto esperti, è anche la procedura ultra-garantista ora rinfacciata al procuratore di Roma. Appena riceve una denuncia, come si è visto, il pubblico ministero ha il dovere di avvisare subito l’accusato, «omessa ogni indagine». È una norma che contrasta con il comune senso del pudore investigativo, soprattutto in casi di corruzione, fondi neri o altri reati che vengono tenuti nascosti: avvertire l’indagato significa permettere a lui e ai suoi possibili complici di far sparire le prove, nascondere i soldi, fare pressioni sui testimoni. È un privilegio legale che sembra studiato da furbissimi scienziati del diritto per ridurre al minimo il rischio di veder condannare qualche ministro.
Alla luce di tutto questo, la durissima reazione della premier in persona e dei maggiori esponenti della sua maggioranza contro l’avvio di un’indagine soltanto preliminare, anzi embrionale, può nascondere motivazioni e intenzioni diverse da quelle dichiarate: delegittimare ancora una volta la magistratura, con l’obiettivo finale di sottrarre il governo a qualsiasi controllo giudiziario. E magari screditare in anticipo inchieste non ancora emerse della Procura di Roma.
(da lespresso.it)

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TUTTI GLI AFFARI ITALIANI IN LIBIA: COMANDANO PETROLIO E GAS DI ENI (MA C’E’ MOLTO ALTRO)

Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile

WEBUILD, SAIPEM E ORA CI VOLA ITA

La storia delle relazioni tra l’Italia e la Libia, dallo “scatolone di sabbia” di Salvemini al maresciallo Graziani, è lunghissima e non certo commendevole. La storia ha un peso, ma qui non ci si occupa di antichi accadimenti, né dei tanto burrascosi quanto proficui scambi col regime di Gheddafi, bensì dell’oggi e l’oggi parte nel 2017, sei anni dopo i bombardamenti (“contro l’Italia”, li definì Prodi) di Francia e Gran Bretagna sulla Libia: è in quell’anno che il ministro dell’Interno di Gentiloni, Marco Minniti, definisce il nuovo rapporto tra Roma, Tripoli e Bengasi, le sedi dei due governi che, litigando, si spartiscono l’attuale Libia. Governi di gente non proprio per bene, che gestisce per nostro conto i flussi migratori e grazie ai quali abbiamo ripreso a fare affari nel Paese africano: Eni, Saipem, Webuild, ma anche tante Pmi fanno soldi laggiù, affari sempre in bilico, legati alla pericolante vita dei “politici” locali, che poi sono spesso capi clan o signori della guerra, tipo il torturatore-generale Almasri.
A non voler tenere conto dei migranti, è l’energia che rende Tripoli e Bengasi fondamentali per l’Italia, specie da quando la Russia è quasi uscita dal nostro mercato: nei primi sette mesi del 2024 la Libia è tornata la prima fonte di petrolio per l’Italia dopo un quindicennio (il 22,3% di tutto il greggio importato). Poi i due governi libici hanno iniziato a litigare sulle nomine nella Banca centrale libica – che peraltro gestisce anche i soldi dell’export di petrolio – e la produzione è stata bloccata per qualche tempo. La ritorsione energetica è un classico della nuova Libia: sempre l’anno scorso era toccato a un impianto dell’iberica Repsol, dopo che la Spagna aveva emesso un “avviso di sorveglianza” per traffico d’armi nei confronti di Saddam Haftar, figlio del generale che comanda a Bengasi (gli era peraltro stato notificato in Italia…).
La nostra Eni, fin dal 1959, è una delle principali società Oil&Gas nel Paese, cui fornisce peraltro gran parte dell’energia per uso interno, dove opera in joint venture paritaria con la libica National Oil Corporation (Noc): nel bilancio 2023, l’ultimo disponibile, Eni dichiara ricavi in Libia per 4,3 miliardi con circa un miliardo di utile netto. E sono cifre destinate a salire visto che Noc ha l’obiettivo di più che raddoppiare la produzione di fossili entro il 2027. Dopo una pausa decennale, per dire, a ottobre sono riprese le esplorazioni Eni di nuovi giacimenti a Ghadames e altre partiranno a breve in mare nella zona di Sirte, mentre a 60 chilometri da Tripoli è previsto un impianto per la cattura e stoccaggio della CO2 (Ccs) sul modello di quello che il cane a sei zampe vuol costruire a Ravenna.
L’industria energetica non è solo Eni. Ci sono i fornitori di pezzi o macchinari o i grandi gestori infrastrutturali. Saipem, ad esempio, ha costruito, e l’anno scorso vinto il contratto di gestione, il gasdotto GreenStream che dalla stazione di compressione di Mellitah in Libia porta il metano a Gela. Altro grosso affare è la cosiddetta Autostrada della pace da 1.800 km, parte dell’accordo stretto tra Berlusconi e Gheddafi nell’agosto 2008 per cui l’Italia s’è impegnata a stanziare 3,6 miliardi di euro: Webuild costruirà il “lotto 1”, ma un altro pezzo di autostrada è stato assegnato alla Todini costruzioni.
Più in generale l’Italia è il primo partner commerciale della Libia: l’import è soprattutto energetico, ma nel 2023 le esportazioni italiane – dall’agroalimentare ai macchinari alla farmaceutica – hanno fruttato 1,7 miliardi di euro e nei primi otto mesi del 2024 altri 1,5 miliardi (+34,5% rispetto allo stesso periodo del 2023). All’Italia serve la Libia, è un fatto e a testimoniarlo bastino le quattro visite di Giorgia Meloni nel Paese, l’ultima a ottobre scorso: dal 12 gennaio, chi volesse imitarla ha a disposizione anche il volo diretto di Ita da Roma a Tripoli, ripristinato dopo oltre un decennio.
(da ilfattoquotidiano.it)

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L’EX PROCURATRICE DELL’AJA CARLA DEL PONTE: “ALMASRI ANDAVA CONSEGNATO, NORDIO IGNORA LO STATUTO DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE”

Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile

LA MAGISTRATA: “DALL’ITALIA UN IMPERDONABILE ERRORE. INCREDIBILE CHE UN EX MAGISTRATO SI SIA COMPORTATO COSI’

Nordio su Almasri? “Mi pare incredibile che un magistrato si sia comportato così”. Meloni e Trump? “Un’amicizia che danneggia la giustizia”. Il torturatore libico libero? “Dall’Italia un imperdonabile errore blu”. L’ex procuratore dell’Aja Carla Del Ponte si dice “esterrefatta” dal comportamento dell’Italia.
Settantanove Paesi sottoscrivono il pieno appoggio alla Cpi contro Trump, l’Italia dice no con Ungheria, Austria e Repubblica Ceca. Che segnale è?
È un messaggio bruttissimo, per giunta proprio dall’Italia che è stata uno dei Paesi fondatori della Corte, tant’è che lo Statuto si chiama Statuto di Roma.
“Giorgia Washington” titola in apertura il quotidiano di destra Libero…
Spero non sia così. Perché il rifiuto di sottoscrivere la posizione europea sulle sanzioni di Trump contro la Corte penale internazionale è un incomprensibile vassallaggio.
Meglio stare con Trump che vuole trasformare Gaza in Mar-a-Gaza?
Mi auguro solo che l’Italia rifiuti una simile ipotesi che giudico inaccettabile a fronte non solo delle vittime palestinesi, ma anche dei sopravvissuti che tornano cercando di ricostruire la loro vita.
L’attacco alla Corte accomuna tutta la destra italiana. Per il ministro degli Esteri Tajani i giudici dell’Aja “non sono la bocca della verità”. E ipotizza perfino che “l’Italia dovrebbe aprire un’inchiesta sulla Cpi”.
Sono davvero esterrefatta. Non riesco neppure a concepire quale possa essere l’eventuale reato commesso dalla Cpi per cui, secondo il diritto italiano, si potrebbe aprire un’inchiesta. Sono solo slogan che non hanno alcun fondamento nel diritto.
Lei, da procuratore del Tribunale per la ex Jugoslavia, ha potuto arrestare, processare e condannare Miloševic e Karadžic. Oggi, in questo clima, sarebbe in difficoltà?
Assolutamente no. Devo ricordarle che noi siamo riusciti a ottenere l’arresto da uno Stato che non aveva sottoscritto lo Statuto di Roma. Oggi andrei avanti spedita senza farmi condizionare da posizioni politiche che non hanno nulla a che vedere con il diritto internazionale.
Il Guardasigilli Nordio si scaglia contro la Cpi sul generale libico Almasri facendo le pulci alla richiesta d’arresto, che ha definito contraddittoria, imprecisa e contestata da uno dei giudici della stessa Corte che esercitava la dissenting opinion.
Nordio evidentemente non ha letto neppure gli articoli dello Statuto di Roma. In particolare quello che regola la consegna di un criminale ricercato con un mandato d’arresto internazionale della Corte, che viene richiesto dal procuratore ed è deciso dai tre giudici che fanno parte della Camera della Cpi a cui è stato assegnato il caso.
Una decisione collettiva?
Certo, i giudici esaminano attentamente le prove presentate e alcune volte possono chiedere dei supplementi d’inchiesta, per cui può anche intercorrere qualche tempo fino all’emanazione del provvedimento.
Ma ha visto che Nordio ironizza sulla dissenting opinion di una giudice?
E ha sbagliato. Perché tutti i vizi di forma che lui evoca non erano di sua competenza, bensì dei difensori dell’accusato una volta consegnato all’Aja. Quella di Almasri non era una procedura di estradizione, bensì una semplice consegna immediata che l’Italia avrebbe dovuto eseguire dopo aver ricevuto la notifica del mandato.
Quel volo di Stato italiano anziché in Libia lo doveva depositare all’Aja?
Proprio così, perché l’Italia aveva solo la responsabilità di trasferirlo il più presto possibile. Ricordo bene che Miloševic fu arrestato e subito dopo portato all’Aja con un volo privato.
Volo giusto e destinazione sbagliata?
Purtroppo è andata così e da ex procuratore mi dispiace immensamente che l’Italia abbia commesso un simile errore.
Nordio cosa avrebbe dovuto fare?
Non avrebbe dovuto fare proprio niente. Il suo ruolo era solo quello di un passacarte, doveva far eseguire immediatamente il mandato di arresto internazionale.
Cioè non doveva entrare nel merito del provvedimento?
Esattamente, perché non c’era motivo secondo lo Statuto di Roma per rifiutare la consegna.
Eppure lui tuttora insiste e vuole contestare per iscritto quelli che considera gli “errori” della Corte.
Lo faccia pure, ma la Corte non potrà dare alcun seguito alle sue richieste a meno che il vostro ministro non decida di assumere il mandato di difensore di fiducia dell’accusato.
Il ministro dell’Interno Piantedosi ha detto che Almasri è stato rimandato in Libia in quanto soggetto “pericoloso” per l’Italia.
A maggior ragione, se lo era, all’arresto doveva seguire la sua immediata consegna all’Aja.
E perché non è andata così? C’è un patto con la Libia per bloccare i migranti? Ci sono interessi economici sul petrolio?
Non voglio neanche saperlo. Ma qualsiasi scopo recondito non ha nulla a che vedere con il diritto internazionale e i relativi obblighi dell’Italia”.
Sarebbe stato più semplice porre il segreto di Stato?
Ma stiamo scherzando? Quale segreto di Stato? Su cosa? Su un criminale ricercato per orrendi crimini? Purtroppo, e mi dispiace molto dirlo, l’Italia ha perso un occasione d’oro per dimostrare concretamente cosa significhi il rispetto dei diritti umani.
(da ilfattoquotidiano.it)

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BRAMBILLA E GLI STRANI AFFARI CON I SALMONI

Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile

STASERA A REPORT: DOPO L’ASSOCIAZIONE ANUMALISTA USATA COME BANCA, EMERGE IL CIRCUITO DI CREDITI E FIDUCIARIE LEGATI AL CIBO ANIMALE

Lei finora non ha aperto bocca, se non per prendersela (via chat) per quello che ritiene “un volgare attacco politico” orchestrato ai suoi danni con la complicità di giornalisti “camerieri”.
Non una parola invece dall’onorevole Micaela Brambilla sulla onlus per il benessere degli animali di cui è presidente usata come suo bancomat per alberghi di lusso e per altre spese.
Comprese quelle sostenute per finanziare la campagna elettorale che le ha fruttato la rielezione in Parlamento, come rivelato da Giulia Innocenzi di Report che stasera torna a occuparsi di lei. Mostrando le fatture pagate dalla onlus Leidaa che poco hanno a che fare con gli animali, ma anche sugli affari di Brambilla con il commercio di salmoni e gamberetti alla faccia dei suoi proclami vegani.
Dopo il servizio di Report di domenica scorsa una serie di parlamentari hanno chiesto a Brambilla di dimettersi dalla presidenza dell’intergruppo per il benessere degli animali e, di fronte alla sua resistenza, hanno deciso di sfilarsi loro stessi. In compenso la deputata può contare sulla difesa di Maurizio Lupi, a capo del partito con cui oggi si è apparentata dopo una lunga militanza in Forza Italia, che sulle sue battaglie animaliste ci mette la mano sul fuoco: “Su questi temi l’onorevole Brambilla ha sempre agito con serietà e autorevolezza”. Epperò la trasmissione di Sigfrido Ranucci ha già dato conto – fatture alla mano – che la Leidaa, l’associazione di volontariato finanziata da enti pubblici ma anche grazie al 5xmille e altre donazioni di benefattori privati, in realtà impiega il grosso delle risorse non per la cura di animali in difficoltà, ma per il benessere della stessa Brambilla: è stata proprio la onlus a finanziare il Movimento ambientalista messo su dalla deputata, così come i pullman per portare i sostenitori in piazza o per saldare le fatture delle kermesse politiche in giro per l’Italia. E poi le spese per luci, allestimenti, bandiere, tessere di partito, domini di siti riconducibili alla galassia forzista che nulla hanno a che vedere con l’associazione degli animali: sempre Leidaa ha saldato il fotografo che aveva immortalato l’apertura della campagna elettorale con ospite d’onore il presidente Berlusconi, la presentazione della nuova sede di Forza Italia a Lecco, la conferenza stampa con Galliani e l’aperitivo con l’attuale presidente della Regione Lombardia Fontana. E non solo: anche le auto blu al servizio di Brambilla, le potature degli alberi nella sua dimora di Lecco oltre che eventi e pernotto in un albergo extralusso di Milano, sempre per la deputata.
Nei giorni scorsi, parlando in chat con i dirigenti di Leidaa, non è sembrata farsi un cruccio delle rivelazioni che la riguardano: “Ma di cosa parliamo? Dovremmo muoverci solo in bicicletta?”. Sulle fatture stellari al Principe di Savoia di Milano con cena in camera per la modica cifra di 3.290 euro, risponde: “Dovremmo fare gli eventi alla pensione Mariuccia?”. E ancora, sulla sede dell’associazione animalista, che si trova in pieno centro e il cui affitto si aggira intorno ai 3 mila euro al mese, chiede: dovremmo “prendere la sede nelle periferie bronx di Milano” o “in un centro sociale?”. Sulle fatture pagate dalla Leidaa per il giardino privato rilancia negando che si tratti del suo “prato di casa”, ma piuttosto di potature degli alberi del Cras, il Centro recupero animali selvatici, che cadevano sui recinti. Peccato che il Cras abbia visto la luce nel 2021 mentre le fatture per la potatura piante risalgano al 2019 e una persino al 2017. Brambilla insomma più che tentare di giustificarsi rivendica ogni singola spesa: difende pure le bottiglie acquistate per 140 euro l’una, perché è meglio “regalare ai nostri una bottiglia di vino buono invece del Tavernello”.
Disponibilità quasi infinite per spese di lusso che però fanno a cazzotti con quelle per gli animali, come nel caso della convenzione per assicurare rifugio ai cani terminata nel gennaio 2023, perché – come racconta Report – negli ultimi due anni l’associazione della Brambilla non pagava più le fatture. Le priorità insomma erano altre come ad esempio pagare l’albergo al personale della onlus animalista per promuovere l’azienda che si occupa di prodotti alimentari esclusivamente vegetariani e vegani: la “Io Veg” di proprietà del marito di Brambilla, oggi nelle mani di una fiduciaria. E qui la faccenda si complica in un giro vorticoso di altre fiduciarie che portano dritto al business del commercio all’ingrosso di pesce e in particolare alla Blue Line, azienda finita in anni recenti nei guai.
“La Brambilla è la regina delle scatole cinesi, chi ci lavora dentro lo sa che a gestire l’azienda c’era lei” dice un imprenditore di settore intervistato da Giulia Innocenzi, evidenziando intrecci e annessi sospetti: fra le società che hanno aiutato Blue Line, azienda del salmone affumicato e dei gamberetti, c’è la Lion Project, riferibile alla deputata. La stessa “Io Veg” è tra i creditori dell’azienda andata in crisi anche nel tentativo di salvare un’altra società del gruppo. Ossia Prime group, il gioiellino della famiglia Brambilla per salvare il quale Silvio Berlusconi concesse una fideiussione da due milioni e mezzo di euro: il patto era che la fideiussione non venisse mai incassata, ma poi finì diversamente e questo spiegherebbe anche un’altra storia, quella della rottura con Forza Italia di Brambilla. Comunque rieletta deputata dalla parte degli animali. Sempre che non siano salmoni e gamberetti.
(da ilfattoquotidiano.it)

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UMANITA’ CONTRO NAZIONE

Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile

MA CHE PATRIOTI, SONO AL SOLDO DELLO STRANIERO… EUROPEI SENZA EUROPA, CRISTIANI SENZA IL VANGELO, SONO SOLO DEGLI IMBROGLIONI

I “patrioti europei” che si sono incontrati a Madrid di europeo non hanno niente. Mai nome fu più usurpato: un vero e proprio falso ideologico. Sono nazionalisti uniti tra loro solo dall’ostilità per l’unità europea. Dunque, antieuropeisti. Per giunta alleati di Trump e di Musk, un tempo si sarebbe detto “al soldo dello straniero” (non metaforicamente, visto che Musk li foraggia apertamente).
Sono portatori insani di un nazionalismo vecchio come il Novecento, reazionari in purezza. Sono europei senza l’Europa e cristiani senza Cristo (senza il Vangelo). Sono dunque, alla fin fine, imbroglioni.
Prendono molti voti, segno che l’imbroglio è efficace. Così efficace che magari ci credono loro per primi, di essere europei e cristiani: un auto-imbroglio, una falsa coscienza. Ma non hanno abbastanza voti per vincere ovunque, e ovunque scassare l’Europa.
Nella levata di scudi contro le sanzioni di Trump alla Corte dell’Aia, manca l’Italia di Giorgia Meloni, e si capisce bene perché: i governi nazionalisti considerano nemica qualunque autorità o istituzione sovranazionale (vedi il caso Almasri). Ma c’è l’Inghilterra, sebbene uscita dall’Unione e tradizionalmente molto legata all’America.
Questa chiave di lettura (difendere o attaccare le istituzioni sovranazionali) forse è la sola maniera di leggere il nostro evo. Nazionalismo contro internazionalismo.
Prima ancora di capirlo razionalmente, “sentiamo” che il punto di vista umanistico, e forse il punto di vista umano, è sovranazionale. Poi, come tradurlo in politica, e in voti, non è facile. Ma esiste un’altra strada?
(da repubblica.it)

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TRAVAGLIO: “MELONI HA MANDATO IN AULA NORDIO-TOTO’ E PIANTEDOSI-PEPPINO A FARE FIGURACCE, BASTAVA DIRE LA VERITA'”

Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile

“LA COMUNICATRICE MELONI STA INIZIANDO A PERDERE COLPI”

“Perché Meloni non si è presentata in Aula? Perché formalmente le decisioni sono state affidate a Totò e Peppino“.
Così Marco Travaglio ad Accordi&Disaccordi, il talk su Nove condotto da Luca Sommi a proposito delle informative sul caso del cittadino libico rilasciato dal governo italiano nonostante il mandato di cattura della Corte penale internazionale.
“Il problema è che lei ha come ministro della Giustizia e come ministro dell’Interno, Totò e Peppino e quindi, sapendolo, avrebbe dovuto prevedere che avrebbero fatto una figuraccia. – ha detto il giornalista – Io ho l’impressione che per la prima volta in due anni e mezzo la comunicatrice Meloni abbia cominciato a perdere colpi. Ci sono delle fasi nelle quali tutto ti va bene, anche a prescindere dalla tua abilità. E’ il periodo d’oro della fase Re Mida. Poi c’è il periodo Re M che dove tutto ti va male, dove tutto quello che tocchi si trasforma in sterco e questo è il momento che sta attraversando la Meloni. – ha proseguito il direttore del Fatto – Mi ricorda un po’ il momento Papeete di Salvini. Fino a quel momento gli andava tutto bene, dopo, non ne ha più azzeccata una. La Meloni non ha calcolato ed è un suo errore che i due avrebbero fatto una figuraccia perché la storia della lingua inglese è una delle cose più incredibili del mondo da tirare fuori visto che il ministero degli Esteri e della Giustizia sono quelli che maneggiano ogni giorno documenti in inglese, ma non in inglese, perché smistano rogatorie e richieste di estradizione. Se c’è un posto dove puoi tradurre qualunque lingua, anche il sanscrito, è proprio il ministero della Giustizia”.
E poi, secondo Travaglio c’è un altro punto importante: “Non puoi dire contemporaneamente ‘maestra non ho fatto il compito perché è morta mia zia’ e poi dire ‘me l’ha rubato il gatto’. Cioè o non l’hai fatto o te l’ha rubato il gatto. Delle due l’una. Loro si sono contraddetti dal punto di vista logico, dicendo che non si riusciva a capire perché era in inglese. Poi c’erano gli allegati in arabo, però poi hanno capito che era nullo. Come hai fatto capire che era nullo se era scritto in inglese, in arabo? Cioè è evidente che quando si sceglie una bugia, non si può tornare ad altre bugie che contraddicono la prima. Insisti su quella bugia e persegui solo quella. Oppure dici la verità: abbiamo deciso così (di estradare Almasri con un volo di Stato, ndr) perché abbiamo paura che ci inondino di migranti e che i libici ci rapiscano pure qualcuno che lavora in Libia all’Eni, come ha fatto l’Iran con Cecilia Sala. Allora lo dici, metti il segreto di Stato e secondo me ti applaudono pure, i tuoi”, ha concluso Travaglio.
(da ilfattoquotidiano.it)

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CESARE PARODI E’ IL NUOVO PRESIDENTE DELL’ANM: IL PROCURATORE AGGIUNTO DI TORINO E’ ESPONENTE DELLA CORRENTE CONSERVATRICE DI “MAGISTRATURA INDIPENDENTE”

Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile

SEGRETARIO SARA’ ROCCO MARUOTTI, ESPONENTE DI “AREA”, CORRENTE PROGRESSISTA

Cesare Parodi, 62 anni, procuratore aggiunto a Torino è il nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Eletto, come settimo, nella lista conservatrice di Magistratura indipendente, Parodi ha sbaragliato i due concorrenti della sua stessa corrente che si contendevano l’incarico alla guida dell’Anm.§
Da una prima intesa sarebbero dovuti diventare presidente Giuseppe Tango, giudice del lavoro a Palermo, o Antonio D’Amato, procuratore capo a Messina rispettivamente primo e secondo eletto di Mi (che è la corrente che ha preso più voti in assoluto).
Ma alla fine non è stato raggiunto un accordo con le altre correnti più progressiste e di centro (Area, Magistratura democratica e UniCost ) ed è stato deciso di optare per Parodi.§
In magistratura dal marzo 1990, in Mi da aprile 1990 , Parodi, da maggio 1991 è stato sostituto, prima alla Procura Circondariale di Torino e poi dal 1999 alla Procura Tribunale.
Attualmente è procuratore aggiunto nel pool fasce deboli. Ha due figlie ed è sposato ad una collega, Nicoletta Quaglino, sostituto procuratore aggiunto alla procura generale di Torino.
Durante il comitato direttivo centrale ha fatto un intervento appassionato per richiamare all’unità dell’Anm. «La trattativa con il governo sulla Riforma non esiste, perché non veniamo meno alle nostre idee, ma ben venga il dialogo – ha detto -. Dobbiamo portare battaglia uniti tutti insieme su tanti temi, anche sui disservizi della giustizia. Lo sciopero del 27 febbraio non può essere revocato. Lo revochiamo solo se il governo congela la riforma della giustizia».
Segretario dell’Anm è stato eletto Rocco Maruotti, di Area, giovane pm di Rieti.
(da agenzie)

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