Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
“IL CESSATE IL FUOCO TRA IRAN E ISRAELE È IMPORTANTE MA NON BASTA, SERVE UNA NUOVA LEADERSHIP POLITICA. NON CE NE È UNA CAPACE DI FARE QUESTO ADESSO, DA NESSUNO DEI LATI”
Il Patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, 60 anni, ci riceve nel giorno in
cui per la prima volta da due settimane in questa regione si intravede uno spiraglio di speranza, con l’annuncio del cessate il fuoco fra Israele e l’Iran.
Ma anche nel giorno in cui a Gaza decine di persone sono state uccise nell’ennesima strage del cibo. Naturale che la conversazione con lui parta da qui: dal dramma della Striscia, dalla speranza, dal futuro e dal sogno della pace.
Cardinale Pizzaballa, lei conosce molto bene questa zona di mondo: vive a Gerusalemme dal 1990, è stato Custode di Terra Santa, oggi è la guida spirituale dei cattolici della regione e si confronta spesso con i leader politici israeliani, palestinesi e non solo. Crede che questo cessate il fuoco possa essere un primo passo per la pace?
«Pace è una parola impegnativa. Il cessate il fuoco è importante perché evita che le tensioni si espandano a tutta la regione, ma la pace richiederà tempi lunghi e sarà molto difficile. E comunque ogni speranza di pace sarà fragile e instabile finché non si affronterà la questione palestinese».
Il grande tema al centro della regione. Che però, in questi giorni di scontro diretto fra Israele e Iran, è stato di nuovo dimenticato: nonostante ciò che accade a Gaza, e anche in Cisgiordania….
«Esatto. Ma fino a quando non si affronterà in maniera seria e radicale la questione palestinese, qualsiasi futuro assetto regionale — e chissà se sarà necessario avere un nuovo assetto — resterà incompleto. Il mondo arabo è collegato: ci sono i confini fra i vari Stati, ma ci sono anche legami molto forti che vanno al di là dei confini. La questione palestinese è uno di questi legami. Non è la prima volta che viene messa da parte: succede, ci sono alti e bassi. Purtroppo manca una visione
politica».
E cosa serve, per rilanciare questa visione?
«Abbiamo bisogno di una nuova leadership politica. Non ce ne è una capace di fare questo adesso, da nessuno dei due lati».
I cristiani in questa situazione che posizione hanno?
«Noi siamo pochi. Inutile dire che la nostra preoccupazione principale ora è per la piccola comunità di Gaza: 541 persone che sono diventate un simbolo di resilienza in tutto il mondo. Sono grato della testimonianza che danno, perché sono in condizioni estremamente difficili ma continuano a vivere nella fede.
Ma la situazione è molto complicata anche in Cisgiordania: c’è un continuo deterioramento delle condizioni di vita, posti di blocco, permessi di lavoro cancellati, villaggi continuamente sottoposti alla violenza dei coloni senza che nessuno intervenga. È difficile avere una vita normale, lavorare, andare in ospedale, spostarsi: e non si capisce fino a quando durerà, se e come se finirà.
Tutto questo crea un senso di insicurezza, di sfiducia, di disorientamento, complesso da descrivere. Si parla molto della fame di Gaza: ma anche in Cisgiordania c’è fame, perché la gente non ha soldi per comprare da mangiare. Pensi solo alle famiglie, e sono migliaia, che dipendevano dall’industria del turismo».
Papa Leone cosa pensa di tutto questo? Ha avuto occasione di confrontarsi con lui sulla situazione?
«Il Papa ha citato Gaza già nel suo discorso inaugurale e ripete la parola pace continuamente: la situazione gli sta sicuramente a
cuore. Insiste molto sulla diplomazia e sulla necessità dei cristiani e delle chiese del mondo di diventare avvocati della pace».
Non ha paura che il mondo si abitui a tanta violenza, e che di conseguenza si dimentichi delle piccole comunità che lei guida? Di Gaza, dei cristiani e dei cattolici della Cisgiordania, di quelli della regione…
«Io credo che in mezzo a questa guerra atroce, a questa situazione assolutamente drammatica, quello che dobbiamo fare è resistere: ma non in maniera passiva. Va molto di moda la parola “resilienza” oggi: non la userò direttamente, ma voglio dire che il nostro sforzo è continuare a fare di tutto per esserci. E anche per parlare: noi di fronte al male abbiamo il dovere di dire qualcosa.
Le immagini di Gaza sono immagini che toccano l’umanità: e in un contesto in cui c’è la tendenza a deumanizzare l’altro, credo che sia importante tutto questo desiderio di solidarietà che vediamo verso la gente di Gaza.
Noi, come Chiesa, a parte i pochi aiuti monetari che possiamo dare, abbiamo solo un’arma: la parola. E dunque, continueremo a parlare. Senza vergogna e senza paura. Anche se l’attenzione del mondo andrà da un’altra parte».
(da La Repubblica)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
NEI PRIMI SEI MESI DEL 2025 GLI EUROPEI, PIÙ IL CANADA, HANNO GIÀ TRASFERITO CIRCA 35 MILIARDI DI EURO A KIEV. LO SCORSO ANNO LE RISORSE AMMONTARONO A 50 MILIARDI – DAL 2022, GLI USA HANNO DATO A KIEV 119 MILIARDI DI AIUTI
Zelensky sapeva che cosa lo aspettasse all’Aia, ma alla fine ha deciso di venire ugualmente. Il leader ucraino ha preso atto che con Trump è iniziata una fase diversa, molto complicata. Ma, pragmaticamente, sta cercando di ottenere comunque dei risultati utili per il suo Paese. […] Zelensky ha deciso di non mollare la presa su Trump. Prima di presentarsi all’Aia, ha chiesto un incontro bilaterale. Accordato. I due si sono visti per una quarantina di minuti.
Il leader ucraino, come ha poi scritto sui social, ha iniziato lconversazione «congratulandosi per il successo dell’operazione in Medio Oriente». Non sono complimenti di maniera. Per Kiev è molto importante che l’Iran venga indebolito il più possibile. Negli ultimi anni il regime degli ayatollah ha fornito armi a Mosca con continuità. […] «Putin non sta vincendo la guerra — scrive ancora Zelensky — ho illustrato al presidente Trump i fatti e ciò che sta realmente accadendo sul campo».
Gli ucraini, dunque, sono tuttora convinti di poter difendere il loro territorio. Ma servono con urgenza mezzi militari. In particolare i missili per la contraerea. Zelensky ha chiarito che non chiede regali: «Siamo pronti a comprarli». Il presidente Usa ha risposto che il Pentagono non è per ora in condizione di inviare altri missili Patriot a Kiev: «Ne abbiamo dati molti a Israele e ci vorrà del tempo per fabbricarne altri». In ogni caso le industrie americane e ucraine collaboreranno per la costruzione di droni sempre più sofisticati.
Zelensky, comunque, ha messo a segno due punti positivi. Primo: l’intelligence americana ha ripreso a fornire agli ucraini informazioni complete sui movimenti delle forze armate russe.
Secondo: nel 2025 il deficit dello Stato ucraino ammonterà a 38 miliardi di dollari; il Tesoro Usa si è impegnato a versare circa la metà dei fondi mancanti, più o meno 16 miliardi, quindi. Per il prossimo anno si vedrà: il ministero delle Finanze di Kiev prevede un ammanco intorno ai 20 miliardi.
Nei primi sei mesi del 2025 gli europei, più il Canada, hanno già trasferito circa 35 miliardi di euro a Kiev. Lo scorso anno le risorse ammontarono a 50 miliardi. I Paesi Nato potranno conteggiare anche il valore delle armi consegnate agli ucraini per raggiungere l’obiettivo di spesa per la difesa, che dovrà essere pari al 5% sul Prodotto interno lordo.
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
IN GERMANIA IL PROBLEMA NON È IL BUDGET DA DESTINARE ALLA DIFESA, MA IL FATTO CHE MANCANO 50-60 MILA SOLDATI PER FRONTEGGIARE UNA EVENTUALE INVASIONE
La Germania spinge sul riarmo e viola il tabù dei debiti per aumentare drasticamente e in
tempi record il budget dedicato alla difesa, ma “i soldi non bastano”: all’esercito tedesco mancano innanzitutto soldati, per fronteggiare l’eventualità del cosiddetto “Ernstfall”, il “caso serio”, e cioè una guerra nel territorio stesso della Repubblica. Un “worst case” con cui si confrontano quasi quotidianamente politica e società civile.
Ed è quindi sulla leva obbligatoria che si è spostato il dibattito a Berlino, dove il cancelliere Friedrich Merz, nei giorni scorsi, si è
spinto a chiedere aiuto perfino alle imprese, sollecitando la disponibilità dei manager a svincolare i dipendenti, per rendere possibili gli addestramenti militari. La Bundeswehr ha bisogno di riservisti, ha spiegato il leader della Cdu.
“Credo che siamo tutti dell’avviso che valga la pena difendere questa democrazia e questa libertà – ha scandito parlando alla giornata della Confidustria tedesca, la Bdi -. Ma questo ha delle conseguenze anche per le imprese. I soldi non sono il tema decisivo. La questione fondamentale è avere del personale qualificato. È necessaria una riserva”, ha continuato.
“Dovrete essere disposti a permettere ai vostri dipendenti di esercitarsi di nuovo nelle truppe”, ha aggiunto, sottolineando di riferirsi a periodi di qualche settimana di addestramenti. L’uscita del Kanzler era stata preceduta da un intervento del ministro della Difesa socialdemocratico, Boris Pistorius, che nel weekend aveva affermato di voler procurare 10 mila soldati e 1000 impiegati civili all’esercito, già entro la fine di quest’anno.
Affermazione che trova riscontro nel bilancio approvato ieri dal gabinetto, dove compaiono le risorse per altrettante assunzioni. Il fabbisogno è in realtà anche superiore: si parla di circa 50-60 mila soldati mancanti per rispondere alle necessità dell’Alleanza transatlantica. Un “buco” non semplice da riempire. La Bundeswehr conta attualmente 183 mila militari e 81 mila civili.
Per promuovere l’ingresso di nuove reclute si è riaperto da tempo il dibattito sul servizio militare obbligatorio abolito nel 2011 dai conservatori di Angela Merkel. Un errore, ha sentenziato Merz, che ha già tirato fuori la necessità di prevedere “elementi di obbligatorietà” in materia. “Se si punta
sulla volontarietà non ce la faremo.
Dovremmo riattivare la leva obbligatoria”, gli ha fatto eco il presidente dell’associazione dei riservisti Patrik Sensburg parlando alla Rnd. I tedeschi potrebbero poi pronunciarsi sull’obbligatorietà per le donne: “Se ci fosse una volontà della maggioranza su questo – è la sua proposta – non saprei chi potrebbe defilarsi nel Bundestag”.
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
E ORA CONTE DIVENTA UN PROBLEMA PER IL “CAMPO LARGO”: SI PUO’ GOVERNARE CON UNO CHE VA A MANIFESTARE CONTRO L’UE?
Guardavano le immagini di Giuseppe Conte tra i suoi nuovi compañeros grillini. All’Aia. In sit-in contro la Nato. Più a sinistra di tutti. Frullata via la pochette a cinque punte (che sfoggiava quando firmava i decreti sicurezza di Matteo Salvini), il prossimo inverno ce lo ritroviamo con l’eskimo? No, sul serio: pazzesco. E quelli di Avs, adesso?
Flashback, qualcosa di simile a un piano sequenza sfocato.
Provate a immaginare una mattina livida, la stazione di Pisa, era il febbraio del 2003. I carabinieri con i manganelli e la visiera del casco abbassata e un ragazzo con la giacca a vento nera e la sciarpa sul viso che salta sui binari, incitando il corteo a non indietreggiare e a bloccare un convoglio di armamenti americani diretti nel Golfo: sotto la sciarpa, Fratoianni aveva la barba lunga, era tosto e spavaldo e con lo sguardo elettrico, le compagne erano pazze di quel rivoluzionario con i fiocchi.
Ritrovarsi scavalcato a sinistra da Conte è stato, perciò, un autentico, comprensibile trauma . Che fare? Certo: la speranza di Fratoianni, e del suo compagno di partito Bonelli, è che magari domattina l’avvocato di Volturara Appula si svegli e, senza imbarazzi, cambi idea.
Le domande che ora si pongono con apprensione Fratoianni&Bonelli — chi è davvero Conte? che spazio intende prendersi a sinistra? che progetto ha in testa? Sono un po’ le stesse che, da mesi, rimbombano nel Pd. Nessuno s’è lasciato ingannare per la firma che, anche lui, ha posto sotto la mozione comune in cui si proponeva d’interrompere qualsiasi cooperazione militare con Israele. Chissà perché l’ha fatto, si sono chiesti in molti. Non si fidano.
C’è tutta l’area riformista che lo osserva come si osserva un camaleonte allo zoo. Aspetta, guarda, adesso è sparito. No, che dici, è sempre lì, ha solo cambiato colore. Elly Schlein, si sa, non è però d’accordo con questo tipo di approccio, polemico e ruvido. Lei, a Conte, dà corda (fingendo, eh), lo segue e subito precisa, pone dei distinguo, e di nuovo lo lascia fare.
Strategia probabile: spera di cucinarselo a fuoco lento.
Poi, sì: la sua delegazione, guidata dall’eroico Francesco Boccia, torna dal corteo dei 5 Stelle e tutti le riferiscono degli sguardi torvi, dei fischi, di certi sberleffi. Di un clima profondamente ostile nei confronti dei dem.
E pure lei, chiaro, s’accorge di tutte le trappolette, le frecciatine che lui le spedisce a giorni alterni (la stessa stucchevole tecnica che Salvini usa con la Meloni). Elly sa bene persino un’altra cosa: e cioè che l’avvocato s’immagina, si percepisce come
l’unico possibile candidato premier dell’eventuale coalizione di centrosinistra. È già stato due volte a Palazzo Chigi, e ambisce ad un terzo giro: come Aldo Moro (vietato sorridere).
Conte è un problema: Elly sa tutto. Matteo Renzi sapeva, da tempo, tutto. E adesso sanno tutto anche Fratoianni&Bonelli.
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
LA SALVEZZA DEL PIANETA NON INTERESSA AGLI AMICI DEGLI INQUINATORI… SCHLEIN: “I VOTO DEL PD NON SONO PIU’ GARANTITI”
I passi indietro della Commissione europea sul Green Deal fanno traballare la maggioranza
europea che sostiene Ursula von der Leyen. Durante un incontro a Palazzo Berlaymont, la presidente del gruppo dei Socialisti & democratici, Iratxe García Perez, ha consegnato alla presidente dell’esecutivo Ue un ultimatum sulla permanenza del suo gruppo politico dentro la maggioranza. Lo rivelano all’Ansa fonti della dirigenza socialista, che si aspettano una «immediata dimostrazione di fiducia nei confronti della coalizione europeista» che ha sostenuto il rinnovo della coalizione von der Leyen. Il riferimento è al patto sottoscritto lo scorso anno da Popolari (centrodestra), Socialisti (centrosinistra) e Liberali (centro), con l’appoggio esterno dei Verdi. Se questa dimostrazione di fiducia non dovesse arrivare, spiegano le stesse fonti, il gruppo socialista è pronto a ritirare la fiducia all’esecutivo di von der
Leyen e scatenare un vero e proprio terremoto politico.
La “rottura” politica sulla direttiva «green claims»
L’ultimatum della componente progressista della maggioranza europea è una diretta conseguenza della querelle politica sulla direttiva europea «green claims», una proposta di legge che punta a combattere il fenomeno del greenwashing e su cui le istituzioni Ue lavorano da oltre due anni. La scorsa settimana, la Commissione europea ha annunciato che avrebbe ritirato la proposta di legge, cedendo agli appelli dei popolari e dei gruppi di destra ed estrema destra. Socialisti e liberali sono andati su tutte le furie, accusando von der Leyen di voler smantellare il Green Deal – da lei stessa promosso e sostenuto nella scorsa legislatura – e strizzare l’occhio ai partiti nazionalisti e sovranisti.
Schlein e i voti del Pd in Europa
A far trasparire una certa insofferenza nei confronti di Ursula von der Leyen è anche il Pd, che a Strasburgo conta la delegazione più numerosa all’interno della famiglia politica socialista. «Il nostro gruppo in questo momento è fortemente critico nei confronti di questa Commissione. Più tardi parleremo di quale strategia adottare», ha detto la segretaria Elly Schlein a margine della summer school del Pd a Bruxelles. E a proposito del rischio che la maggioranza Ursula possa cadere a causa delle continua retromarce sul Green Deal, Schlein ha aggiunto: «I nostri voti non sono garantiti e vi assicuro che i nostri voti contano». E poi ancora: «È grave che qualcuno pensi di poter continuare con una politica dei due forni, per cui quando serve c’è la maggioranza che ha fatto un patto, mentre quando non
serve si fa un accordo con l’estrema destra conservatrice e nazionalista».
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
LA SUA CARRIERA POLITICA E’ INCENTRATA SULL’AGGIRAMENTO DEGLI SCANDALI
Al netto dei 60 mila cadaveri accatastati sulle macerie di Gaza e dell’intero Medio Oriente, l’immagine più oscena di queste ore è quella di Benjamin Netanyahu che prega davanti al Muro del Pianto, nella Città vecchia di Gerusalemme, per “la buona salute” del suo vecchio amico Donald Trump, mentre i loro missili, i jet, le bombe, eseguono gli assalti da Khan Younis a Teheran, dal Golan a Damasco, dallo Yemen all’Iraq.
Tutto il rosso del sangue che si porta addosso, tutto l’odore di morte che lo circonda, Netanyahu ha provato a infilarlo dentro l’azzurro-cielo della kippah che indossava in quella oltraggiosa messa in scena nella quale incoronava il massacro di Gaza e l’aggressione a Teheran con l’eterno inganno che nutre di furore ogni religione maneggiata per la conquista del potere.
E a ben vedere, tutta la sua storia sta in quella passeggiata insieme crudele e grottesca che ha voluto offrire al mondo insieme con la nuova guerra contro la teocrazia sciita, sempre la penultima da combattere, prima della prossima. Lo ha fatto camminando in quello spazio simbolico per celebrare il trionfo del suo potere assoluto di re della guerra perpetua e del perpetuo sterminio. Usando gli abissi di Gaza e della Cisgiordania per replicare, sui palestinesi, la tragedia della cancellazione del popolo ebraico, riproducendola a specchio nei 360 chilometri quadrati della Striscia, che l’Occidente guarda e tollera in forza del suo superiore cinismo, proprio come accadde ottant’anni fa quando solo a guerra vinta, oltrepassò il filo spinato di Auschwitz per inaugurare un po’ di commozione. E insieme prepararsi a scaricare l’Olocausto, fabbricato dall’Europa dei nazionalismi, sulle spalle dei lontanissimi palestinesi
Tragica e trionfante è la storia di Benjamin Netanyahu, detto Bibi, nato nell’anno 1949, padrone di Israele e insieme nemico di Israele. Eroe ai suoi occhi fu il padre Benzion, polacco, professore di Storia, militante sionista radicale, emigrato a Gerusalemme negli anni 20, dove cambiò il proprio cognome da Milejkowski, “uomo del mulino”, in Netanyahu, “dono di Dio”, e che per insegnare emigrò di nuovo negli Usa, dove coltivò i suoi studi sull’antisemitismo, al quale era possibile opporsi solo creando uno Stato più armato e più forte dei suoi nemici da battere e terrorizzare nella battaglia, prima di trattare. Insegnamento che trasmise all’altro eroe di Bibi, il fratello maggiore Yonathan, arruolato nei reparti speciali dell’esercito, ucciso durante il blitz per la liberazione degli ostaggi israeliani a Entebbe, anno 1976. Anche lui icona venerata dal fratello minore che a 18 anni, si arruola nell’esercito, partecipa alla Guerra del Kippur, anno 1973, guidando incursioni in Egitto e in Siria. Dopo il congedo, aderisce al partito di destra del Likud, fondato da Menachem Begin, il futuro premier, che inizia la carriera politica guidando l’Irgun, l’organizzazione terroristica che nel 1946 fece esplodere il King David Hotel, sede del quartiere generale britannico, 90 vittime. E due anni dopo guidò il massacro di Deyr Yassin, villaggio palestinese a ridosso di Gerusalemme, dove l’Irgun e la Banda Stern entrarono e uccisero 250 tra uomini inermi, donne e bambini, presi casa per casa, radunati nelle strade, spogliati, seviziati, macellati, bruciati, proprio come un 7 ottobre capovolto, che segnò l’inizio della Nakba, l’esodo di 700 mila palestinesi dalle loro terre.
Bibi viene da quel sangue, da quella determinazione per lo Stato
forte che ha gonfiato la marcia elettorale del Likud fino alla storica vittoria del 1977, dopo 28 anni di predominio laburista, con Begin che da premier apre all’Egitto di Anwar Sadat, invitandolo addirittura a Gerusalemme per la riconciliazione. E che, dopo il Nobel per la Pace (condiviso con Begin) costerà la vita al leader egiziano, ucciso da un estremista islamico, anno 1981.
Finito il servizio militare, Bibi torna negli Usa, si laurea in Business Administration al Mit di Boston e conclude un dottorato in Scienze politiche a Harvard. Il suo primo incarico di rilievo è rappresentante permanente di Israele all’Onu, dal 1984 al 1988, anni in cui conosce e frequenta Donald Trump, la sua scia di controversi affari immobiliari, ma specialmente di stelline da jet set e scandali in formato tabloid. I quali diventeranno anche una costante della vita privata, tre mogli in una trentina d’anni, divorzi dirompenti, accuse di tradimenti, scandali, amanti, ricatti sessuali.
Tormentata è anche la sua avventura politica, giocata sempre sulla direttrice della intransigenza. Nel 1993 diventa leader del Likud che fa opposizione al processo di pace voluto da Yitzhak Rabin, assassinato da un colono ebreo a Tel Aviv, anno 1995, alla fine di una manifestazione pubblica in favore degli accordi di Oslo con il leader palestinese Arafat.
Netanyahu diventa premier subito dopo, blocca gli accordi pace con l’Olp, s’oppone alla nascita di uno Stato palestinese. Le prime accuse di corruzione lo obbligano alle dimissioni un anno dopo. Esce indenne dalle indagini. Diventa ministro delle Finanze con il governo dell’ex generale Sharon, anno 2003, ma
si dimette quando il premier blocca gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania.
Vince di nuovo nel 2009 e resterà primo ministro fino a oggi, con sei mandati consecutivi, incoronati, nel 2018, dalla legge identitaria dello “Stato-Nazione” che detta: “Israele è del popolo ebraico e di nessun altro”. Sancendo che gli arabi sono cittadini di serie B.
Governa nella tempesta, sempre inseguito da scandali finanziari, accuse di corruzione, assalti alla Corte costituzionale per indebolirne i poteri di controllo. Sempre assediato da imponenti manifestazioni di massa che chiedono le sue dimissioni. Sempre salvato dalle provvidenziali emergenze militari.
A fronte delle esitazioni della sinistra, e alla fatica di proporre una soluzione mediana tra i due popoli, lui va dritto per dritto, cavalcando la parola d’ordine della Grande Israele “dal Giordano al mare”, speculare a quella dei palestinesi di Hamas, talmente perfetti come nemici permanenti, da averne consentito il finanziamento e la crescita nella Striscia a scapito dell’Autorità palestinese: “Chiunque voglia contrastare la creazione di uno Stato palestinese – dirà in Parlamento – deve sostenere il rafforzamento di Hamas, questo fa parte della nostra strategia”. Era il marzo 2019. L’eccidio del 7 ottobre 2023 non ha cambiato le carte in tavola, ma ha distribuito, insieme con i morti del massacro, proprio le carte che voleva lui.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
L’ADULATORE SENZA RITEGNO
Ammetto di avere un debole per il segretario generale della Nato, l’olandese Mark Rutte. In
un mondo di ipocriti che ti attaccano in pubblico e ti lisciano in privato, o viceversa, egli brilla per la sua cristallina coerenza.
Nei giorni scorsi aveva inviato a Trump un sms di elogi sperticati. Al confronto, Fantozzi che biascica «come è umano lei» mentre il megadirettore galattico lo fa fustigare in sala-mensa sembra il Gladiatore. L’oggetto del gorgheggiare di Rutte era il trasferimento degli oneri della difesa comune dalle tasche degli americani a quelle dei contribuenti europei.
Per questi ultimi non si tratta di una splendida notizia. Invece Rutte l’ha trasformata in una festa, attribuendone il merito a Trump e ringraziandolo per averci offerto questa straordinaria opportunità di impoverirci.
Trump ha reso pubblico il messaggio: per narcisismo e anche per quella sottile forma di disprezzo che i potenti dispettosi nutrono verso chiunque superi i livelli consentiti di servilismo.
Ma è qui che Rutte ha sbalordito persino noi ammiratori. Incontrando Trump ieri all’Aia, avrebbe potuto mantenere un contegno dignitoso. E invece, proprio quando il bauscia d’oltreoceano bacchettava israeliani e iraniani, lui lo ha interrotto per incensarlo. «Paparino a volte deve esser duro!», ha detto, sottolineando la battutona con una risatina convulsa.
Perché almeno questo gli va riconosciuto: in pubblico come in privato, Rutte ha una sola faccia. E una sola lingua.
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
PIU’ SICUREZZA E MENO LIBERTA’
Più sicurezza, meno libertà. Mettiamocelo bene in testa, questo è il futuro del mondo secondo i croupier che danno le carte e conducono il gioco. Del ventilato “cambio di regime in Iran”, che sarebbe stato l’unico evidente salto di qualità democratico e umanitario in grado di giustificare l’ingiustificato attacco
israeliano e americano, non importa nulla a nessuno. Non a Trump, non a Netanyahu, men che meno a Putin che appoggia quella tirannia di vecchi maschi misogini perché tutto ciò che declassa i diritti umani a inutile illusione gli è familiare.
Ayatollah e pasdaran festeggiano in piazza l’ennesima finta vittoria e ne approfittano per stringere i ceppi ai polsi e alle caviglie dell’opposizione, ovviamente (come in tutti i regimi autoritari) accusata di intelligenza con il nemico.
Le iraniane fuggite, non si sa in quale ordine, alle bombe esterne e all’oppressione interna, sorridono allo scampato pericolo e piangono per chi è rimasto in quella galera. Nelle loro parole e nei loro volti, la felicità di essere al sicuro non riesce a prevalere sulla pena per chi è rimasto.
Dell’atomica iraniana si parlerà tra poco tempo, non appena il regime si sarà riorganizzato: fu Trump, del resto, durante il suo primo mandato, a espellere l’Iran da ogni possibile concertazione sul nucleare, con quale faccia può lamentare la situazione attuale, della quale egli stesso fu artefice?
Dei dissidenti in galera, delle donne perseguitate e picchiate perché osano pensarsi libere, si parlerà con comodo ma senza esagerare, perché la libertà e l’incolumità dei popoli non è certo ai primi posti dell’agenda politica mondiale. Vedi Gaza. Al primo posto c’è il dominio, e i dominatori solo di quello si preoccupano.
(da repubblica.it)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
“BEZOS E’ QUI PER CONFERMARE CHE SI AIUTA VENEZIA A PATTO CHE ACCETTI DI ESSERE IL PALCOSCENICO DI CHI CERCA VISIBILITA’ E OSTENTA IL PROPRIO POTERE”
Mio nipote Tommaso ha ragione: di questo matrimonio non me ne frega niente. Per il resto,
come gli altri No Bezos, dice e fa sciocchezze. Se fossi ancora sindaco ignorerei mister Amazon e non l’avrei invitato, come assicura l’attuale primo cittadino Brugnaro. Detto questo, tutti gli aspetti laterali dell’evento sono illuminanti».
Il filoso Massimo Cacciari ha guidato Venezia per 12 anni. Da sempre è critico verso chi dichiara di conoscere origine e rimedi dei mali lagunari. «Leggo che il matrimonio ha il merito di accendere i fari del mondo sull’agonia dell’ex Serenissima: falso, sono sicuro che nessuna luce brilli e che del nostro destino non interessi nulla a nessuno. Il problema però non è questo».
E qual è?
«È la montagna di sciocchezze che si dicono per confondere le acque. Se si infilano in un frullatore Bezos, Venezia, le guerre, Trump, le ingiustizie, la distruzione del pianeta, il capitalismo, l’evasione fiscale, l’overtourism, il lusso e via elencando, esce un liquido in cui nulla è più distinguibile. La confusione mira a
impedire la comprensione dei problemi».
Può fare un esempio?
«Il più patetico è quello del presidente del Veneto Luca Zaia. Ha attaccato l’Anpi, critica verso Bezos, ponendo sullo stesso piano mister Amazon, i suoi ospiti e lo sbarco degli americani che hanno liberato Europa e Italia dal nazifascismo. Sarebbe una barzelletta, o la conferma che all’idiozia non ci sono più limiti. Zaia però conosce la storia e dunque le sue parole da una parte segnalano che la classe dirigente dell’Occidente si è bruciata il cervello: dall’altra sono la prova dell’esistenza di un disegno deciso a smantellare i valori e i diritti democratici fondati sulla resistenza alle dittature».
E Bezos cosa c’entra con il frullatore della verità azionato da chi difende ciò che lui rappresenta?
«Nulla, però è cruciale distinguere e capire che non viene a liberare Venezia, o a salvarla con donazioni e promozione. È qui per confermare che la si aiuta solo a patto che accetti di essere il palcoscenico a disposizione di chi ha bisogno di visibilità, o di ostentare il proprio potere. Chi falsifica questa realtà ricorda i folli proclami sull’Europa».
Quali?
«Meloni sostiene il riarmo preteso da Trump e assicura che altrimenti la Russia invaderà l’intero continente. Cita il Si vis pacem para bellum: dallo sbarco americano del 1943 a Vegezio nel quarto secolo, da Bezos a Putin: la confusione come metodo serve a generare ignoranza e legittimare autoritarismo».
Dà ragione ai No Bezos?
«Per niente. Da decenni la sinistra lascia via libera ai neo
liberisti. Scopre a Venezia il loro disastro? Mille persone possiedono il doppio del Pil italiano: ai No Bezos voglio bene, ma le loro manifestazioni sono impotenti. Alla fine li contesta proprio chi è vittima del sistema che loro denunciano: quello che oggi permette la sopravvivenza a chi si era invece sempre sentito protetto dalla solidarietà».
Bezos ha promesso 3 milioni di donazioni: aiuteranno a salvare Venezia?
«Briciole sparse perché detraibili dalle tasse grazie alle Fondazioni. Venezia nemmeno se ne accorge».
Non ci sono più limiti, nemmeno in laguna, per chi è ricco?
«Il denaro è l’ultimo dio dell’umanità e se parliamo di oro Venezia non è un’isola. Ma se l’oro è dio, il muro della democrazia crolla. Il matrimonio veneziano di Bezos non può essere aperto e democratico: per questo dimostra che mattone dopo mattone il muro sociale dell’Occidente viene giù».
(da repubblica.it)
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