Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
LA SALVEZZA DEL PIANETA NON INTERESSA AGLI AMICI DEGLI INQUINATORI… SCHLEIN: “I VOTO DEL PD NON SONO PIU’ GARANTITI”
I passi indietro della Commissione europea sul Green Deal fanno traballare la maggioranza
europea che sostiene Ursula von der Leyen. Durante un incontro a Palazzo Berlaymont, la presidente del gruppo dei Socialisti & democratici, Iratxe García Perez, ha consegnato alla presidente dell’esecutivo Ue un ultimatum sulla permanenza del suo gruppo politico dentro la maggioranza. Lo rivelano all’Ansa fonti della dirigenza socialista, che si aspettano una «immediata dimostrazione di fiducia nei confronti della coalizione europeista» che ha sostenuto il rinnovo della coalizione von der Leyen. Il riferimento è al patto sottoscritto lo scorso anno da Popolari (centrodestra), Socialisti (centrosinistra) e Liberali (centro), con l’appoggio esterno dei Verdi. Se questa dimostrazione di fiducia non dovesse arrivare, spiegano le stesse fonti, il gruppo socialista è pronto a ritirare la fiducia all’esecutivo di von der
Leyen e scatenare un vero e proprio terremoto politico.
La “rottura” politica sulla direttiva «green claims»
L’ultimatum della componente progressista della maggioranza europea è una diretta conseguenza della querelle politica sulla direttiva europea «green claims», una proposta di legge che punta a combattere il fenomeno del greenwashing e su cui le istituzioni Ue lavorano da oltre due anni. La scorsa settimana, la Commissione europea ha annunciato che avrebbe ritirato la proposta di legge, cedendo agli appelli dei popolari e dei gruppi di destra ed estrema destra. Socialisti e liberali sono andati su tutte le furie, accusando von der Leyen di voler smantellare il Green Deal – da lei stessa promosso e sostenuto nella scorsa legislatura – e strizzare l’occhio ai partiti nazionalisti e sovranisti.
Schlein e i voti del Pd in Europa
A far trasparire una certa insofferenza nei confronti di Ursula von der Leyen è anche il Pd, che a Strasburgo conta la delegazione più numerosa all’interno della famiglia politica socialista. «Il nostro gruppo in questo momento è fortemente critico nei confronti di questa Commissione. Più tardi parleremo di quale strategia adottare», ha detto la segretaria Elly Schlein a margine della summer school del Pd a Bruxelles. E a proposito del rischio che la maggioranza Ursula possa cadere a causa delle continua retromarce sul Green Deal, Schlein ha aggiunto: «I nostri voti non sono garantiti e vi assicuro che i nostri voti contano». E poi ancora: «È grave che qualcuno pensi di poter continuare con una politica dei due forni, per cui quando serve c’è la maggioranza che ha fatto un patto, mentre quando non
serve si fa un accordo con l’estrema destra conservatrice e nazionalista».
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
LA SUA CARRIERA POLITICA E’ INCENTRATA SULL’AGGIRAMENTO DEGLI SCANDALI
Al netto dei 60 mila cadaveri accatastati sulle macerie di Gaza e dell’intero Medio Oriente, l’immagine più oscena di queste ore è quella di Benjamin Netanyahu che prega davanti al Muro del Pianto, nella Città vecchia di Gerusalemme, per “la buona salute” del suo vecchio amico Donald Trump, mentre i loro missili, i jet, le bombe, eseguono gli assalti da Khan Younis a Teheran, dal Golan a Damasco, dallo Yemen all’Iraq.
Tutto il rosso del sangue che si porta addosso, tutto l’odore di morte che lo circonda, Netanyahu ha provato a infilarlo dentro l’azzurro-cielo della kippah che indossava in quella oltraggiosa messa in scena nella quale incoronava il massacro di Gaza e l’aggressione a Teheran con l’eterno inganno che nutre di furore ogni religione maneggiata per la conquista del potere.
E a ben vedere, tutta la sua storia sta in quella passeggiata insieme crudele e grottesca che ha voluto offrire al mondo insieme con la nuova guerra contro la teocrazia sciita, sempre la penultima da combattere, prima della prossima. Lo ha fatto camminando in quello spazio simbolico per celebrare il trionfo del suo potere assoluto di re della guerra perpetua e del perpetuo sterminio. Usando gli abissi di Gaza e della Cisgiordania per replicare, sui palestinesi, la tragedia della cancellazione del popolo ebraico, riproducendola a specchio nei 360 chilometri quadrati della Striscia, che l’Occidente guarda e tollera in forza del suo superiore cinismo, proprio come accadde ottant’anni fa quando solo a guerra vinta, oltrepassò il filo spinato di Auschwitz per inaugurare un po’ di commozione. E insieme prepararsi a scaricare l’Olocausto, fabbricato dall’Europa dei nazionalismi, sulle spalle dei lontanissimi palestinesi
Tragica e trionfante è la storia di Benjamin Netanyahu, detto Bibi, nato nell’anno 1949, padrone di Israele e insieme nemico di Israele. Eroe ai suoi occhi fu il padre Benzion, polacco, professore di Storia, militante sionista radicale, emigrato a Gerusalemme negli anni 20, dove cambiò il proprio cognome da Milejkowski, “uomo del mulino”, in Netanyahu, “dono di Dio”, e che per insegnare emigrò di nuovo negli Usa, dove coltivò i suoi studi sull’antisemitismo, al quale era possibile opporsi solo creando uno Stato più armato e più forte dei suoi nemici da battere e terrorizzare nella battaglia, prima di trattare. Insegnamento che trasmise all’altro eroe di Bibi, il fratello maggiore Yonathan, arruolato nei reparti speciali dell’esercito, ucciso durante il blitz per la liberazione degli ostaggi israeliani a Entebbe, anno 1976. Anche lui icona venerata dal fratello minore che a 18 anni, si arruola nell’esercito, partecipa alla Guerra del Kippur, anno 1973, guidando incursioni in Egitto e in Siria. Dopo il congedo, aderisce al partito di destra del Likud, fondato da Menachem Begin, il futuro premier, che inizia la carriera politica guidando l’Irgun, l’organizzazione terroristica che nel 1946 fece esplodere il King David Hotel, sede del quartiere generale britannico, 90 vittime. E due anni dopo guidò il massacro di Deyr Yassin, villaggio palestinese a ridosso di Gerusalemme, dove l’Irgun e la Banda Stern entrarono e uccisero 250 tra uomini inermi, donne e bambini, presi casa per casa, radunati nelle strade, spogliati, seviziati, macellati, bruciati, proprio come un 7 ottobre capovolto, che segnò l’inizio della Nakba, l’esodo di 700 mila palestinesi dalle loro terre.
Bibi viene da quel sangue, da quella determinazione per lo Stato
forte che ha gonfiato la marcia elettorale del Likud fino alla storica vittoria del 1977, dopo 28 anni di predominio laburista, con Begin che da premier apre all’Egitto di Anwar Sadat, invitandolo addirittura a Gerusalemme per la riconciliazione. E che, dopo il Nobel per la Pace (condiviso con Begin) costerà la vita al leader egiziano, ucciso da un estremista islamico, anno 1981.
Finito il servizio militare, Bibi torna negli Usa, si laurea in Business Administration al Mit di Boston e conclude un dottorato in Scienze politiche a Harvard. Il suo primo incarico di rilievo è rappresentante permanente di Israele all’Onu, dal 1984 al 1988, anni in cui conosce e frequenta Donald Trump, la sua scia di controversi affari immobiliari, ma specialmente di stelline da jet set e scandali in formato tabloid. I quali diventeranno anche una costante della vita privata, tre mogli in una trentina d’anni, divorzi dirompenti, accuse di tradimenti, scandali, amanti, ricatti sessuali.
Tormentata è anche la sua avventura politica, giocata sempre sulla direttrice della intransigenza. Nel 1993 diventa leader del Likud che fa opposizione al processo di pace voluto da Yitzhak Rabin, assassinato da un colono ebreo a Tel Aviv, anno 1995, alla fine di una manifestazione pubblica in favore degli accordi di Oslo con il leader palestinese Arafat.
Netanyahu diventa premier subito dopo, blocca gli accordi pace con l’Olp, s’oppone alla nascita di uno Stato palestinese. Le prime accuse di corruzione lo obbligano alle dimissioni un anno dopo. Esce indenne dalle indagini. Diventa ministro delle Finanze con il governo dell’ex generale Sharon, anno 2003, ma
si dimette quando il premier blocca gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania.
Vince di nuovo nel 2009 e resterà primo ministro fino a oggi, con sei mandati consecutivi, incoronati, nel 2018, dalla legge identitaria dello “Stato-Nazione” che detta: “Israele è del popolo ebraico e di nessun altro”. Sancendo che gli arabi sono cittadini di serie B.
Governa nella tempesta, sempre inseguito da scandali finanziari, accuse di corruzione, assalti alla Corte costituzionale per indebolirne i poteri di controllo. Sempre assediato da imponenti manifestazioni di massa che chiedono le sue dimissioni. Sempre salvato dalle provvidenziali emergenze militari.
A fronte delle esitazioni della sinistra, e alla fatica di proporre una soluzione mediana tra i due popoli, lui va dritto per dritto, cavalcando la parola d’ordine della Grande Israele “dal Giordano al mare”, speculare a quella dei palestinesi di Hamas, talmente perfetti come nemici permanenti, da averne consentito il finanziamento e la crescita nella Striscia a scapito dell’Autorità palestinese: “Chiunque voglia contrastare la creazione di uno Stato palestinese – dirà in Parlamento – deve sostenere il rafforzamento di Hamas, questo fa parte della nostra strategia”. Era il marzo 2019. L’eccidio del 7 ottobre 2023 non ha cambiato le carte in tavola, ma ha distribuito, insieme con i morti del massacro, proprio le carte che voleva lui.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
L’ADULATORE SENZA RITEGNO
Ammetto di avere un debole per il segretario generale della Nato, l’olandese Mark Rutte. In
un mondo di ipocriti che ti attaccano in pubblico e ti lisciano in privato, o viceversa, egli brilla per la sua cristallina coerenza.
Nei giorni scorsi aveva inviato a Trump un sms di elogi sperticati. Al confronto, Fantozzi che biascica «come è umano lei» mentre il megadirettore galattico lo fa fustigare in sala-mensa sembra il Gladiatore. L’oggetto del gorgheggiare di Rutte era il trasferimento degli oneri della difesa comune dalle tasche degli americani a quelle dei contribuenti europei.
Per questi ultimi non si tratta di una splendida notizia. Invece Rutte l’ha trasformata in una festa, attribuendone il merito a Trump e ringraziandolo per averci offerto questa straordinaria opportunità di impoverirci.
Trump ha reso pubblico il messaggio: per narcisismo e anche per quella sottile forma di disprezzo che i potenti dispettosi nutrono verso chiunque superi i livelli consentiti di servilismo.
Ma è qui che Rutte ha sbalordito persino noi ammiratori. Incontrando Trump ieri all’Aia, avrebbe potuto mantenere un contegno dignitoso. E invece, proprio quando il bauscia d’oltreoceano bacchettava israeliani e iraniani, lui lo ha interrotto per incensarlo. «Paparino a volte deve esser duro!», ha detto, sottolineando la battutona con una risatina convulsa.
Perché almeno questo gli va riconosciuto: in pubblico come in privato, Rutte ha una sola faccia. E una sola lingua.
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
PIU’ SICUREZZA E MENO LIBERTA’
Più sicurezza, meno libertà. Mettiamocelo bene in testa, questo è il futuro del mondo secondo i croupier che danno le carte e conducono il gioco. Del ventilato “cambio di regime in Iran”, che sarebbe stato l’unico evidente salto di qualità democratico e umanitario in grado di giustificare l’ingiustificato attacco
israeliano e americano, non importa nulla a nessuno. Non a Trump, non a Netanyahu, men che meno a Putin che appoggia quella tirannia di vecchi maschi misogini perché tutto ciò che declassa i diritti umani a inutile illusione gli è familiare.
Ayatollah e pasdaran festeggiano in piazza l’ennesima finta vittoria e ne approfittano per stringere i ceppi ai polsi e alle caviglie dell’opposizione, ovviamente (come in tutti i regimi autoritari) accusata di intelligenza con il nemico.
Le iraniane fuggite, non si sa in quale ordine, alle bombe esterne e all’oppressione interna, sorridono allo scampato pericolo e piangono per chi è rimasto in quella galera. Nelle loro parole e nei loro volti, la felicità di essere al sicuro non riesce a prevalere sulla pena per chi è rimasto.
Dell’atomica iraniana si parlerà tra poco tempo, non appena il regime si sarà riorganizzato: fu Trump, del resto, durante il suo primo mandato, a espellere l’Iran da ogni possibile concertazione sul nucleare, con quale faccia può lamentare la situazione attuale, della quale egli stesso fu artefice?
Dei dissidenti in galera, delle donne perseguitate e picchiate perché osano pensarsi libere, si parlerà con comodo ma senza esagerare, perché la libertà e l’incolumità dei popoli non è certo ai primi posti dell’agenda politica mondiale. Vedi Gaza. Al primo posto c’è il dominio, e i dominatori solo di quello si preoccupano.
(da repubblica.it)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
“BEZOS E’ QUI PER CONFERMARE CHE SI AIUTA VENEZIA A PATTO CHE ACCETTI DI ESSERE IL PALCOSCENICO DI CHI CERCA VISIBILITA’ E OSTENTA IL PROPRIO POTERE”
Mio nipote Tommaso ha ragione: di questo matrimonio non me ne frega niente. Per il resto,
come gli altri No Bezos, dice e fa sciocchezze. Se fossi ancora sindaco ignorerei mister Amazon e non l’avrei invitato, come assicura l’attuale primo cittadino Brugnaro. Detto questo, tutti gli aspetti laterali dell’evento sono illuminanti».
Il filoso Massimo Cacciari ha guidato Venezia per 12 anni. Da sempre è critico verso chi dichiara di conoscere origine e rimedi dei mali lagunari. «Leggo che il matrimonio ha il merito di accendere i fari del mondo sull’agonia dell’ex Serenissima: falso, sono sicuro che nessuna luce brilli e che del nostro destino non interessi nulla a nessuno. Il problema però non è questo».
E qual è?
«È la montagna di sciocchezze che si dicono per confondere le acque. Se si infilano in un frullatore Bezos, Venezia, le guerre, Trump, le ingiustizie, la distruzione del pianeta, il capitalismo, l’evasione fiscale, l’overtourism, il lusso e via elencando, esce un liquido in cui nulla è più distinguibile. La confusione mira a
impedire la comprensione dei problemi».
Può fare un esempio?
«Il più patetico è quello del presidente del Veneto Luca Zaia. Ha attaccato l’Anpi, critica verso Bezos, ponendo sullo stesso piano mister Amazon, i suoi ospiti e lo sbarco degli americani che hanno liberato Europa e Italia dal nazifascismo. Sarebbe una barzelletta, o la conferma che all’idiozia non ci sono più limiti. Zaia però conosce la storia e dunque le sue parole da una parte segnalano che la classe dirigente dell’Occidente si è bruciata il cervello: dall’altra sono la prova dell’esistenza di un disegno deciso a smantellare i valori e i diritti democratici fondati sulla resistenza alle dittature».
E Bezos cosa c’entra con il frullatore della verità azionato da chi difende ciò che lui rappresenta?
«Nulla, però è cruciale distinguere e capire che non viene a liberare Venezia, o a salvarla con donazioni e promozione. È qui per confermare che la si aiuta solo a patto che accetti di essere il palcoscenico a disposizione di chi ha bisogno di visibilità, o di ostentare il proprio potere. Chi falsifica questa realtà ricorda i folli proclami sull’Europa».
Quali?
«Meloni sostiene il riarmo preteso da Trump e assicura che altrimenti la Russia invaderà l’intero continente. Cita il Si vis pacem para bellum: dallo sbarco americano del 1943 a Vegezio nel quarto secolo, da Bezos a Putin: la confusione come metodo serve a generare ignoranza e legittimare autoritarismo».
Dà ragione ai No Bezos?
«Per niente. Da decenni la sinistra lascia via libera ai neo
liberisti. Scopre a Venezia il loro disastro? Mille persone possiedono il doppio del Pil italiano: ai No Bezos voglio bene, ma le loro manifestazioni sono impotenti. Alla fine li contesta proprio chi è vittima del sistema che loro denunciano: quello che oggi permette la sopravvivenza a chi si era invece sempre sentito protetto dalla solidarietà».
Bezos ha promesso 3 milioni di donazioni: aiuteranno a salvare Venezia?
«Briciole sparse perché detraibili dalle tasse grazie alle Fondazioni. Venezia nemmeno se ne accorge».
Non ci sono più limiti, nemmeno in laguna, per chi è ricco?
«Il denaro è l’ultimo dio dell’umanità e se parliamo di oro Venezia non è un’isola. Ma se l’oro è dio, il muro della democrazia crolla. Il matrimonio veneziano di Bezos non può essere aperto e democratico: per questo dimostra che mattone dopo mattone il muro sociale dell’Occidente viene giù».
(da repubblica.it)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
L’ALLARME DEL COLLEGIO SINDACALE: LA GRATUITA’ DEL SERVIZIO E I MANCATI INCASSI DELLE MULTE SOTTOVALUTATI DALLA GIUNTA PRECEDENTE… PER NON PERDERE CONSENSI IN VISTA DELLE ELEZIONI HANNO CREATO UN BUCO MILIONARIO
È spietata l’analisi del collegio sindacale inviata con una nota, in questi giorni, al consiglio di amministrazione di Amt Genova, l’azienda di trasporto pubblico di città e provincia.
§Il timore di un buco di bilancio e della conseguente crisi di liquidità che possa garantire pagamento di stipendi e creditori – ventilata già da sindacati e dalla nuova amministrazione comunale – è stato di fatto confermato dall’attività di vigilanza dello stesso collegio sindacale che, si legge nel documento pervenuto alla redazione di Genova24, “elementi sintomatici di una situazione di crisi d’impresa“. Il collegio invita quindi il cda a “predisporre entro 30 giorni un piano di intervento idoneo ad affrontare tempestivamente la situazione in atto”.
Nel testo si parla di possibili cause e possibili effetti e non di cifre – ma d’altronde il bilancio di esercizio 2024 non è stato ancora chiuso – tuttavia indiscrezioni parlano di un buco che si aggira tra i 10 e i 20 milioni di euro.
Secondo il collegio sindacale le criticità principali sono due: il sistema di esazione delle sanzioni e la politica commerciale di gratuità del servizio per under 14 e over 70.
Per quanto riguarda il primo punto, nonostante sia ritenuto congruo il fondo rischi accantonato, è presente nella procedura adottata una condizione di incertezza rappresentata dalla lentezza del recupero crediti, caratteristica del procedimento giudiziario alla base dello stesso, tale da suggerire un livello di prudenza superiore alla previsione degli incassi. Tradotto: sono state ipotizzate molte più entrate da multe rispetto a quelle che potrebbero effettivamente essere riscosse.
L’altro elemento – fonte anche di scontri politici in campagna elettorale, con da una parte l’amministrazione di centrodestra uscente che ha deciso di confermare le gratuità fino a fine anno e dall’altra le “mani avanti” del centrosinistra che poi ha vinto le elezioni – è definito dal collegio quello a cui “riservare la massima attenzione”.
“La contrazione dei ricavi registrati in chiusura del bilancio 2024 – scrive l’organismo interno – è ben al di sotto di quanto previsto dal budget e tale da non garantire l’equilibrio economico“. Secondo il collegio sindacale la situazione comporta un’ipotesi di capitalizzazione dei costi che, tuttavia,
dovrà essere affrontata rispettando tutti i principi contabili di legge.
Ci sono altre concause per la crisi d’impresa che si affaccia per Amt Genova, secondo il documento inviato al cda, e nella fattispecie si parla del peso di contenziosi passivi, con riferimento alle “sorprese” che potrebbe riservare la disputa con Trenitalia in merito alla card Citypass e all’applicazione delle gratuità al trasporto ferroviario urbano.
Inoltre una grande incognita è rappresentata dall’ammontare delle contribuzioni pubbliche con circa 13 milioni di euro attesi dal ministero dell’Ambiente oppure dai trasferimenti statali attraverso la Regione Liguria, ad esempio, ma per cui la governance – scrive il collegio sindacale – ha presentato “giustificazioni che non difettano di fantasia” come “non pagano da Roma“, “c’è un problema alla Spezia”, “l’importo non è stato approvato dalla giunta”.
Gli elementi alla base dei rilievi che hanno indotto il collegio sindacale di Amt Genova a richiedere chiarimenti sono di carattere oggettivo e riguardano sia “la consistenza numerica della forza lavoro” e la “inimmaginabile portata delle conseguenze derivanti da una crisi aziendale sul servizio reso all’utenza” – ciò significa che in mancanza di liquidità non si potrebbe garantire il pagamento di tutti i turni necessari – ma anche le conseguenze sul “patrimonio netto aziendale” che, secondo il collegio, “risulta insufficiente rispetto agli impegni e alla struttura dell’azienda”.
Ad oggi, insomma, la contrazione della marginalità operativa dell’attività aziendale non appare congrua a “garantire
l’equilibrio economico e finanziario, configurando altresì le caratteristiche di una perdita strutturale”.
La lettera del collegio sindacale sarebbe arrivata a valle di una riunione, convocata la settimana scorsa dalla giunta Salis, in cui la presidente Ilaria Gavuglio avrebbe paventato il rischio che l’azienda non disponga di liquidità per pagare gli stipendi di luglio, dichiarazioni che avrebbero messo in allarme i revisori e, tramite passaparola, anche i dipendenti dell’azienda. Ora spetterà al cda intervenire, in attesa di capire anche quali saranno i margini di manovra dell’amministrazione di Tursi, tenendo conto che eventuali decisioni immediate in tema di gratuità potrebbero non essere sufficienti per far quadrare i conti nell’immediato.
Salis e Terrile: “Crisi nota ma tenuta nascosta, tuteleremo lavoratori e servizio”
“Siamo venuti a conoscenza della comunicazione formale con la quale il collegio sindacale di Amt ha rilevato la sussistenza di una situazione di crisi economico-finanziaria dell’azienda. La notizia non ci stupisce. Da mesi avevamo sollevato forti preoccupazioni sui conti di Amt, sulla mancata analisi delle conseguenze delle politiche di gratuità e di sperimentazione tariffaria, sulle poste a bilancio segnalate come critiche dalla società di revisione. Oggi i dubbi diventano realtà”, scrivono in una nota la sindaca di Genova Silvia Salis e il vicesindaco e assessore al Bilancio Alessandro Terrile.
“Con l’aggravante che le informazioni poste a fondamento dell’odierna attività dei revisori erano già da diversi mesi a piena disposizione e a conoscenza dell’azienda e degli uffici del
Comune di Genova che, lo scorso marzo, avevano considerato non ricevibile la relazione previsionale 2025-2027 elaborata da Amt perché fondata su entrate non certe. Eppure, si è volutamente negata la realtà proseguendo per mesi nell’illusione che non ci fosse alcun problema. Come spesso accade, tocca ai progressisti riparare i danni della finanza creativa del centrodestra. Non ci sottrarremo a questo compito”, aggiungono.
“Siamo al lavoro per garantire il massimo impegno del Comune di Genova per superare la crisi aziendale, all’insegna di tre principi – sottolineano Salis e Terrile – l’azienda rimarrà pubblica, non saranno i lavoratori a pagare il conto, Amt dovrà garantire un servizio pubblico di qualità nei bacini urbano ed extraurbano”.
Sindaca e vicesindaco concludono: “Abbiamo già calendarizzato incontri con l’azienda e i sindacati per individuare le soluzioni percorribili, che dipenderanno anche dall’entità dello squilibrio economico, per accertare il quale affideremo ad una società di revisione indipendente l’incarico di effettuare una due diligence“.
(da Genova24)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
I VARI MINISTERI NON HANNO COMPLETATO L’ELENCO DEGLI INVESTIMENTI CHE NON POTRANNO ESSERE COMPLETATI ENTRO LA DEADLINE DEL 2026, RIBADITA DALL’UE … INEVITABILMENTE UNA PARTE DEI FONDI ANDRA’ PERSA
L’appello a fare presto lo lancia Tommaso Foti. «Non possiamo perdere tempo, sui progetti
da spostare bisogna decidere ora», dice il ministro per il Pnrr quando la riunione della cabina di regia sul Piano nazionale di ripresa e resilienza a palazzo Chigi ha esaurito la discussione sul tagliando ai 40 obiettivi dell’ottava rata. Al tavolo si parla della revisione del Piano. L’ultima possibile.
La tabella di marcia immaginata fino a qualche settimana fa non regge più: la proposta di rimodulazione non sarà inviata alla Commissione europea entro fine giugno. Slitta a luglio, ma per centrare il nuovo impegno bisognerà correre. Alle questioni tecniche, legate all’attivazione delle linee guida europee sulla revisione, si sommano i ritardi dei ministri nell’indicare i progetti che dovranno cambiare fonte di finanziamento.
Finiranno fuori dal Pnrr. Dovranno traslocare altrove. Per questo Foti insiste: «Ricordiamoci che dobbiamo fare una riprogrammazione per raggiungere gli obiettivi».
Oltre alla rendicontazione dei target dell’ottava rata, da completare entro venerdì, i ministri dovranno chiudere urgentemente l’elenco degli investimenti che non potranno essere completati entro la deadline ribadita dalla Commissione europea. Anche se il Parlamento europeo ha chiesto una proroga di 18 mesi, il termine – spiega il ministro – resterà invariato.
A disposizione ci sono i fondi di coesione: più tempo per spendere, in alcuni casi fino al 2030, ma anche l’effetto collaterale di una realizzazione tardiva delle opere. In alternativa, i progetti “lumaca” potranno restare formalmente dentro il Piano, affidati a veicoli finanziari che congeleranno le risorse: due anni in più, fino al 2028, per portare a termine gli investimenti, ma anche in questo caso bisognerà mettere in conto il prezzo dello slittamento.
Fin qui i tagli. La revisione prevederà anche una serie di travasi di risorse dai progetti lenti a quelli che procedono secondo i tempi previsti. La traccia è la stessa: investimenti da cestinare, soldi persi. A beneficiare del rimescolamento saranno invece le imprese. Le tensioni internazionali spingono il governo a liberare risorse per aiutarle a fronteggiare il caro energia.
Le misure saranno messe a punto nelle prossime settimane, ma a consapevolezza che bisogna agire in questa direzione – spiegano fonti ministeriali – è stata già acquisita. Prima i dazi, poi l’incertezza legata al Medio Oriente: l’idea è mettere a disposizione incentivi, quindi risorse che possono essere spese con facilità. Nel frattempo Palazzo Chigi si prepara a incassare la settima rata da 18,3 miliardi: il via libera è atteso nei prossimi giorni.
La richiesta di pagamento dell’ottava tranche (12,8 miliardi) sarà inviata a Bruxelles entro fine mese: l’esecutivo punta al disco verde tra novembre e dicembre. A quel punto, il totale delle risorse ottenute dall’Italia salirebbe a circa 150 miliardi, mentre la percentuale degli obiettivi raggiunti passerebbe dal 54% (al 31 dicembre 2024) al 79%.
Ma intanto bisognerà portare avanti il nuovo Piano. L’Europa lo aspetta «al massimo entro l’estate», come rivelano fonti della Commissione Ue. Andare oltre – è il ragionamento – renderebbe impossibile il rispetto della scadenza. Dentro o fuori il Pnrr. L’ora delle scelte è scattata.
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
NATO IN UGANDA NEL 1991 DA UNA FAMIGLIA DI INTELLETTUALI INDIANI, VIVE NELLA “GRANDE MELA” DA QUANDO HA 7 ANNI E NEL 2020 ENTRA IN POLITICA… SUPPORTATO DA SANDERS E OCASIO-CORTEZ, HA RIBALTATO I PRONOSTICI GRAZIE A UNA CAMPAGNA SOCIAL, IL SOSTEGNO DEI GIOVANI E LA SUA BATTAGLIA CONTRO GLI EFFETTI PIÙ DURI DEL CAPITALISMO … LE SUE PROPOSTE? TRASPORTO PUBBLICO GRATUITO, AUMENTO DEL SALARIO MINIMO
A 33 anni, Zohran Mamdani ha compiuto un’impresa che pochi credevano possibile: battere l’ex governatore Andrew Cuomo alle primarie democratiche per la carica di sindaco di New York. Mamdani ha capitalizzato l’energia della sinistra, la frustrazione
della generazione più giovane e la potenza dei social media, diventando il simbolo di una nuova politica.
Zohran Kwame Mamdani nasce in Uganda nel 1991 in una famiglia dalla forte impronta intellettuale. Figlio del noto politologo ugandese Mahmood Mamdani e dell’acclamata regista cinematografica Mira Nair, a sette anni si trasferisce con la famiglia a New York, città che da allora diventa il suo punto di riferimento.
Cresciuto nel quartiere di Astoria, nel Queens, Mamdani si è formato in un ambiente multietnico e popolare che ne ha plasmato la visione politica. Dopo la laurea in African Studies al Bowdoin College, lavora come consulente per la prevenzione dei pignoramenti immobiliari, aiutando proprietari di case a basso reddito – in particolare afroamericani e latini – a non perdere le loro abitazioni. È in questo contesto che nasce la sua vocazione politica.
UNA RAPIDA ASCESA POLITICA
Mamdani entra in politica nel 2020, vincendo un seggio nell’Assemblea statale di New York come rappresentante del 36° distretto, che include Astoria, Ditmars-Steinway e Astoria Heights. Il suo messaggio, radicale ma empatico, comincia a risuonare tra gli elettori, specialmente tra i giovani. Identificandosi come democratico socialista, Mamdani si unisce all’ala sinistra del partito.
Nelle primarie per la carica di sindaco del 2025, molti lo consideravano un outsider. Ma la sua campagna, fondata sui social media, su una mobilitazione porta a porta e sul supporto di big del progressismo come Bernie Sanders e Alexandria
Ocasio-Cortez, ha ribaltato i pronostici.
UN PROGRAMMA PER “LIBERARE NEW YORK”
Il suo slogan ufficioso è diventato “Abolire il costo della vita”. E in effetti il programma di Mamdani punta dritto contro gli effetti più duri del capitalismo urbano. Tra le sue proposte principali figurano il congelamento degli affitti per gli inquilini di case stabilizzate; trasporto pubblico gratuito, in particolare sugli autobus; asili nido pubblici e gratuiti per tutti i bambini sotto i sei anni; supermercati municipali che vendano a prezzi all’ingrosso; e un aumento progressivo del salario minimo, con l’obiettivo di arrivare a 30 dollari l’ora entro il 2030.
Per finanziare queste misure, Mamdani propone una tassazione più incisiva sui redditi alti e sulle aziende: un’aliquota dell’11,5% per le imprese e una tassa del 2% per i cittadini con redditi superiori al milione di dollari annui.
LA FORZA DEI SOCIAL E DEL VOLONTARIATO
Gran parte del successo di Mamdani è attribuibile a una strategia di comunicazione diretta ed efficace, soprattutto sui social. Le sue dirette su Instagram con AOC, i video TikTok virali, le collaborazioni con celebrità come Emily Ratajkowski e Bowen Yang, hanno fatto breccia tra gli elettori più giovani. La campagna è stata interamente finanziata con micro-donazioni, a testimonianza della sua indipendenza dai grandi donatori e da interessi lobbistici.
(da Il Sole 24 Ore)
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Giugno 26th, 2025 Riccardo Fucile
I DUE PROVVEDIMENTI NON SONO PIU’ PRESENTI NEL CALENDARIO DEI LAVORI DI LUGLIO DELL’ASSEMBLEA … IL PD: “È SEGNO DI UNA DIVISIONE NELLA MAGGIORANZA, IL GOVERNO È VITTIMA DI SE STESSO”
I Ddl di riforma costituzionale relativi al ‘premierato’ e alla separazione delle carriere nella
magistratura non figurano nel calendario dei lavori dell’Aula della Camera di luglio. E’ quanto emerso al termine della conferenza dei capigruppo di Montecitorio.
Al termine di una precedente seduta dei presidenti dei gruppi parlamentari era stata preannunciata la discussione dei due provvedimenti, da parte dell’Assemblea, entro il prossimo mese. La commissione Affari costituzionali sta intanto proseguendo le audizioni di esperti accademici sul Ddl relativo al ‘premierato’. “Maggioranza e governo sono vittime di loro stessi, con i decreti che segnano il calendario della Camera, dove non c’è nessuna delle riforme costituzionali, nè madre e nè figlia. Una cosa positiva per noi, la nostra opposizione sarebbe stata durissima, ma che denota una dialettica e una divisione dentro la maggioranza”. Lo ha detto la capogruppo del Pd alla Camera Chiara Braga al termine della conferenza dei capigruppo ce ha definito il canedario di luglio a Montecitorio.
(da agenzie)
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