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DA STING A SEAN PENN, LA LETTERA APERTA CONTRO GLI ORRORI SUI BAMBINI UCRAINI: “DEPORTATI E COSTRETTI A DIMENTICARE IL PROPRIO NOME”

Giugno 29th, 2025 Riccardo Fucile

LA DENUNCIA DELLA TRAGEDIA IN CORSO

Sting, Sean Penn, Marina Abramović: sono solo alcuni dei firmatari di una lettera aperta pubblicata in esclusiva da L’Express, che denuncia con forza la «deportazione sistematica di migliaia di bambini ucraini» nei territori controllati dalla Russia. Nel documento, sottoscritto anche dal capo dell’ufficio presidenziale ucraino Andriy Yermak e la nota avvocata Oleksandra Matviichuk, i firmatari si rivolgono all’opinione pubblica internazionale per sensibilizzare e mobilitare contro quello che definiscono «un crimine deliberato contro un’intera generazione».
I bambini deportati e rinchiusi
«Dal 24 febbraio 2022, migliaia di bambini ucraini non sono semplicemente scomparsi a causa della guerra: sono stati presi con la forza dalle loro case nelle regioni di Cherson, Zaporizhzhia, Donetsk e Lugansk. Strappati alle loro case, alle famiglie, alla lingua e alla vita che conoscevano», inizia così la lettera aperta. Secondo indagini indipendenti citate nel documento, «molti dei bambini deportati vengono rinchiusi in istituti chiusi, inseriti in famiglie sconosciute o costretti a frequentare campi in stile militare».
Campi, rieducazione, cancellazione dell’identità
In questi ambienti, si legge nel testo, la loro identità ucraina viene sistematicamente cancellata: «A qualcuno viene detto di dimenticare il proprio nome. A qualcuno viene detto che l’Ucraina non è mai esistita». Alcuni verrebbero anche preparati all’arruolamento nelle file dell’esercito russo, in un processo che i firmatari paragonano al reclutamento di minori da parte dell’Isis.
«Questo atto non è solo una violazione del diritto internazionale. È un’offesa all’umanità», si legge nella lettera. Oltre a Sting e Sean Peann, tra i firmatari ci sono anche la cantante britannica Charlotte Gainsbourg, il giornalista Bernard-Henri Lévy e lo scrittore Salman Rushdie. L’appello è quello di unirsi per denunciare la tragedia in corso e fare quindi pressione a livello internazionale.
(da Open)

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DAZI AMARI PER L’ITALIA: CON LE TARIFFE USA AL 10 PER CENTO PER L’ITALIA SONO IN BILICO 27 MILA POSTI DI LAVORO

Giugno 29th, 2025 Riccardo Fucile

NEL SETTORE DELLA MECCANICA I NUOVI DAZI RISCHIANO DI INTERROMPERE LE PROSPETTIVE DI RIPRESA. GROSSI PROBLEMI PER LE IMPRESE DEL VINO, CHE DESTINANO VERSO GLI STATI UNITI IL 24% DEL PROPRIO EXPORT: LE PICCOLE IMPRESE RISCHIANO DI RIMANERE IN GINOCCHIO

Nel braccio di ferro tra Usa ed Europa sui dazi, dunque, si torna alla casella di partenza, a quel 10% di sovrattassa ipotizzata a inizio anno. Uno scenario certamente meno impattante per la nostra economia tra i tanti elaborati in questi mesi dai vari centri studi, tant’è che Giorgia Meloni ha avuto buon gioco nell’affermare che quella del 10% è «una soglia gestibile» per l’Italia.
A scanso di equivoci, comunque, la premier nei giorni scorsi si è anche preoccupata di chiamare il presidente di Confindustria Emanuele Orsini per rassicuralo sul fatto che il governo manterrà la promessa di mettere in campo nuovi sostegni per le nostre imprese.
Stando alle stime della Svimez, a fronte di un totale di circa 67 miliardi di euro di esportazioni, un ricarico del 10% sui prezzi ridurrebbe del 4,3% le nostre vendite verso gli Usa per un valore complessivo di 2,9 miliardi di euro. In questo modo perderemmo «solo» lo 0,1% di Pil (1,9 miliardi di euro e 27 mila posti di lavoro. Sempre tanti, ma molti meno dei 70 mila ipotizzati coi dazi al 25%.
Se dai dati macro si passa ad analizzare i singoli settori però la situazione cambia. Se ad esempio si guarda al comparto della meccanica, che è appena uscito da 25 mesi ininterrotti di calo di produzione, si vede che i nuovi dazi per quanto «attenuati» rischiano comunque di interrompere le prospettive di ripresa. Secondo Prometeia l’applicazione generalizzata su tutte le esportazioni italiane di dazi del 10% comporterebbe infatti per le nostre merci un costo aggiuntivo di circa 7 miliardi di euro. Un ricarico che andrebbe a colpire proprio la meccanica, i cui prodotti verrebbero gravati da quasi 2 miliardi di euro di sovrattasse. A ruota ci sarebbero poi il comparto della moda (1,4 miliardi) e l’alimentare (poco più di un miliardo), quindi a seguire farmaceutica, automotive, elettronica, mobili, e chimica di consumo.
Il Sud, il cui export verso gli Usa è essenzialmente concentrato in due settori (agroalimentare e automotive) secondo la Svimez subirebbe un calo maggiore dell’export (-4,7% contro il – 4,2% del Centro Nord). Stando a Prometeia le regioni più esposte all’impatto dei dazi Usa sarebbero Liguria, Molise, Basilicata e Sardegna ed in parte anche Emilia Romagna.
Secondo il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino nuovi dazi andrebbero sempre evitati, ma attestarsi sul 10% sarebbe comunque «un compromesso sostenibile, in quanto potrebbe essere assorbito in tutto o in parte da produttori e importatori limitando i rischi di riduzione della domanda». Non la pensa così l’Unione italiana vini. «Nessun brindisi al possibile accordo sui dazi al 10% per le imprese del vino italiano, che destinano verso gli Stati Uniti il 24% del proprio export per un valore, nel 2024, di 1,94 miliardi», sostiene l’Uiv che associa le principali aziende del paese che operano in questo settore. Secondo un sondaggio del suo Osservatorio, per questo comparto il danno stimato sul fatturato d’Oltreoceano si attesterebbe in una forchetta compresa tra il 10 e il 12%.
Per il 90% delle imprese intervistate (il cui giro d’affari aggregato supera i 3,2 miliardi di euro), infatti, i consumatori non sarebbero in grado di assorbire l’extra-costo allo scaffale determinato dal dazio al 10%.
«Il settore del vino – ricorda il presidente di Uiv, Lamberto Frescobaldi – è tra i più esposti all’aumento delle barriere, in primo luogo perché la quota export Usa arriva al 24%, contro una media del Made in Italy poco sopra il 10% e poi perché il vino è un bene voluttuario e quindi soggetto ad una maggior propensione alla rinuncia all’acquisto. E ad essere penalizzate saranno in particolare le piccole imprese, visto che molte di esse destinano oltreoceano fino al 50% del proprio fatturato, o le denominazioni bandiera negli Usa, come il Moscato d’Asti, il Pinot grigio, il Chianti, il Prosecco e il Lambrusco».
(da agenzie)

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CASO ALMASRI, ECCO LA LETTERA CHE LA LIBIA HA INVIATO A ROMA PER LA RICONSEGNA DEL TORTURATORE

Giugno 29th, 2025 Riccardo Fucile

CONFERMATE LE PRESSIONI DELLA LIBIA… IL GOVERNO ITALIANO AVREBBE DOVUTO SEMPLICEMENTE APPLICARE IL MANDATO D’ARRESTO E CONSEGNARE IL TORTURATORE DI BAMBINI ALLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE.. IN UN PAESE CIVILE CHI HA DECISO DI RIPORTARLO IN LIBIA CON UN AEREO DI STATO SAREBBE IN GALERA

Due paginette e mezzo, prive di dati e circostanze specifiche, accompagnate da una cordiale lettera dell’ambasciatore libico in Italia Muhanad Seed Younous. Al governo italiano questi documenti sarebbero bastati per decidere di liberare Osama Njeem Almasri e riportarlo a casa su un Falcon di Stato.
I documenti, allegati all’istanza con cui la procura della Corte penale internazionale boccia su tutta la linea l’Italia, chiede una
formale contestazione di inadempimento e il deferimento all’Assemblea degli Stati parte e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni, smascherano il trucco usato da Italia e Libia per dribblare gli obblighi derivanti dal mandato d’arresto. Fondamentali – e nelle 14 pagine di osservazioni la procura della Cpi lo mette ben in chiaro – sono le date.
La lettera dell’ambasciatore libico
Il 20 gennaio, due giorni dopo l’arresto di Almasri, l’ambasciatore libico in Italia, “esprimendo profondo apprezzamento per le solide relazioni bilaterali”, trasmette al ministro Tajani una nota del procuratore capo di Tripoli Siddiq Ahmad Assour indirizzata al suo omologo della Corte d’appello di Roma relativa alla presunta richiesta di estradizione per Almasri. In coda, chiede di trasmetterla alle autorità competenti e “di seguirne l’iter al fine del raggiungimento degli obiettivi comuni”.
La missiva in questione – dice la procura della Cpi – non è e non può essere una richiesta di estradizione per un motivo molto semplice: non si fa riferimento a contestazioni formali, a detta della Libia identiche a quelle mosse dalla Cpi, che renderebbero fondata la richiesta. E sostanzialmente lo “confessa” anche il procuratore libico.
Circostanze inconoscibili, richiesta infondata
Nella nota si fa riferimento alla Red note dell’Interpol, all’epoca l’unica conosciuta e conoscibile, sulla base della quale gli agenti di Torino hanno proceduto all’arresto di Almasri. “L’Ufficio del Procuratore Generale della Libia – si sostiene – aveva avviato indagini penali su fatti che potrebbero corrispondere alle contestazione presentate dalla Corte Penale Internazionale nella sua richiesta a Interpol”. E insiste, contestando alla Cpi di “non aver accertato la volontà dell’Ufficio del Procuratore Generale della Libia di attivare un’azione legale sui fatti attribuiti all’individuo di cui si chiede l’estradizione”.
Ma non solo la procedura in quella fase non prevede alcun tipo di interlocuzione fra la Corte e lo Stato di provenienza del ricercato. Di “fatti” – si spiega nella richiesta di deferimento per l’Italia – la Libia non può tecnicamente parlare. La red note conteneva semplicemente un elenco dei reati violati senza alcun riferimento a circostanze specifiche.
Solo il 24 gennaio – ecco perché le date sono importanti – sono stati resi pubblici fatti, circostanze e contestazioni. Non a caso, nella sua missiva il procuratore capo libico si limita a dire che Almasri “è tra coloro che sono oggetto delle indagini condotte dall’Ufficio del Procuratore Generale della Libia nell’ambito delle indagini sulle cause della morte dei prigionieri, oltre all’esame delle denunce presentate dalle vittime di privazione della libertà, tortura, brutalità e trattamenti degradanti”.
La presunta inchiesta libica e lo strafalcione del procuratore
L’indagine sarebbe iniziata nel 2016 e riguarderebbe “la situazione dei prigionieri nel periodo dal 2011 al 2024, anno in cui è stata presentata l’ultima denuncia”. E qui il procuratore fa un clamoroso strafalcione: nel 2011, la prigione di Mitiga, di cui Almasri sarebbe diventato il padrone incontrastato, non esisteva. Non a caso la Cpi procede contro di lui per i crimini che lì sono stati commessi a partire dal 2015. Per altro, nei tredici anni in cui Almasri sarebbe stato sotto inchiesta ha fatto carriera,
arrivando ai vertici delle massime istituzioni di sicurezza dello Stato libico, con cui la procura attivamente collaborava.
A Roma però va bene così, ma per la procura non avrebbe dovuto “accettare passivamente” la versione di Tripoli, senza per altro disturbarsi “a fare alcuna indagine al riguardo”. E sulla nascita della prigione di Mitiga basta una rapida ricerca su fonti aperte.
L’invasione di campo “confessata” da Mantovano
Secondo punto che la procura della Cpi ha segnato come errore blu. La Libia, che non è Stato parte perché non ha firmato il Trattato di Roma, si avventura in una valutazione sull’ammissibilità del mandato d’arresto. E l’Italia, che sì lo ha firmato dunque è vincolata a regole e procedure, fa lo stesso. E non può. “Solo la Corte ha facoltà di entrare nel merito”, tuona più e più volte la procura.
Per altro, il governo italiano non ha mai trasmesso la richiesta del procuratore libico alla Corte alla Corte d’appello di Roma, ma ha deciso (assai in fretta) e autonomamente. Parola del sottosegretario Mantovano che con una missiva indirizzata alla procura della Cpi, allegata alle memorie difensive, sostiene che: “La presenza di istanze concorrenti e la complessità delle valutazioni affidate al Ministro della Giustizia erano ontologicamente incompatibili con qualsiasi ipotesi di obbligo immediato – che tuttavia non si è verificato – di trasmettere gli atti in questione alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Roma”.
“Mancato sequestro colpa dei giudici”
La decisione è stata politica “per motivi di sicurezza nazionale”. Il provvedimento, spiega Mantovano, “era necessario e urgente a causa di una vasta gamma di fattori. In primo luogo, la pericolosità sociale di Njeem è stata desunta dalla gravità delle accuse formulate nel mandato di arresto della CPI e da quanto rinvenuto dalla polizia giudiziaria italiana al momento del suo arresto, il 19 gennaio 2025, ovvero un’ingente somma di denaro contante e un’ottica da fucile”. Tutto indebitamente restituito, rimprovera la procura della Cpi. “Così hanno deciso i giudici” si limita a rispondere Mantovano.
(da La Repubblica)

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LA DESTRA DELLA ILLEGALITA’: DOPO LO SCHIAFFONE IN MERITO AL DECRETO SICUREZZA, LA CORTE CASSAZIONE ASSESTA UN ALTRO CEFFONE A GIORGIA MELONI, CI SONO DUBBI SULLA COSTITUZIONALITÀ DEL PROTOCOLLO D’INTESA TRA ITALIA E ALBANIA

Giugno 29th, 2025 Riccardo Fucile

GLI ERMELLINI CREDONO CHE L’ACCORDO SIA IN CONTRASTO ANCHE CON IL DIRITTO INTERNAZIONALE … I CENTRI PER I RIMPATRI IN ALBANIA INTACCANO I DIRITTI ALLA SALUTE E ALLA DIFESA DI MIGRANTI

In una corposa relazione sul trattenimento dei cittadini stranieri, con focus sul protocollo Italia-Albania, la Cassazione evidenzia numerose criticità dell’accordo spiegando anche che “la dottrina ha espresso numerosi dubbi di compatibilità con la Costituzione e con il Diritto internazionale, soffermandosi poi specificamente sul rapporto tra il Protocollo e il diritto dell’Unione”.
Nella relazione redatta dall’ufficio del massimario e del ruolo – di cui scrive oggi il Manifesto – la Suprema Corte analizza il protocollo evidenziandone le criticità non solo con la Costituzione, ma anche con il diritto internazionale e quello dell’Unione Europea.
Nel paragrafo dedicato al rapporto tra il protocollo Italia-Albania e la Costituzione, la relazione dell’ufficio del massimario della Cassazione evidenzia numerosi possibili violazioni dei diritti costituzionali, da quello alla salute a quello di difesa.
L’intesa, per esempio, – scrive la Suprema Corte – omette di “individuare con precisione la categoria di persone cui l’accordo si riferisce e limitandosi ad individuarli come ‘migranti’…ingenera una complessiva disparità di trattamento tra gli stranieri da condurre in Italia e i ‘migranti’ da trasferire in Albania”.
Secondo la Cassazione, poi, l’accordo sarebbe d’ostacolo al diritto di asilo mancando una “disciplina analitica degli aspetti procedurali”. Indicazioni che sarebbero necessarie – secondo i giudici – per neutralizzare “il dislivello giuridico derivante dalla extraterritorialità, assicurando ai migranti condotti nei siti albanesi eguali garanzie rispetto ai migranti in territorio italiano”.
È stato inoltre osservato che, secondo quanto indicato dal Protocollo, “il trattenimento non è più previsto come l’extrema ratio, come previsto dalla disciplina europea” ma costituisce “l’unica alternativa indicata dal legislatore, in violazione delle garanzie a tutela della libertà personale”. Un’ulteriore criticità “è stata ravvisata nella materiale impossibilità, in caso di detenzione all’estero, di rimettere in libertà l’individuo, una volta che siano cessati gli effetti del titolo del trattenimento.
In base al protocollo, infatti, lo straniero non può essere rilasciato in Albania e deve essere ricondotto in Italia, con la conseguenza che, considerati i tempi tecnici necessari per il trasferimento su una nave o per via aerea, appare oltremodo probabile che si verifichi un trattenimento dello straniero sine titulo della durata di diverse ore, se non addirittura di alcuni giorni”.
Riguardo al diritto di difesa, la Corte sottolinea “come le modalità di esercizio del diritto di difesa delle persone straniere trattenute in Albania non risultano disciplinate da norme legislative, ma affidate alla discrezionalità del ‘responsabile italiano del centro'”. Infine, è stato osservato come il protocollo – “nello stabilire che ‘in caso di esigenze sanitarie alle quali le autorità italiane non possono far fronte …le autorità albanesi collaborano con le autorità italiane responsabili delle medesime strutture per assicurare le cure mediche indispensabili e indifferibili ai migranti ivi trattenuti’ – possa comportare un grave pregiudizio per il diritto alla salute dei ‘migranti’, protetto dall’art. 32 della Costituzione, atteso che il livello di assistenza sanitaria albanese non è comparabile con quello italiano”.
(da agenzie)

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“GLI ORGANI DI STAMPA ISRAELIANI NON RACCONTANO CIÒ CHE ACCADE A GAZA”: L’INTERVISTA AD ALUF BENN, DIRETTORE DI “HAARETZ”, IL GIORNALE PIÙ PROGRESSISTA DELLO STATO EBRAICO

Giugno 29th, 2025 Riccardo Fucile

“I NOSTRI MEDIA RACCONTANO SOLO LA CRESCITA DELL’ANTISEMITISMO NEL MONDO SENZA INQUADRARLA NELLA FOTOGRAFIA PIÙ GRANDE: COSÌ LA GENTE NON CAPISCE” … “LA GUERRA IN IRAN HA RINFORZATO NETANYAHU. L’OPPOSIZIONE SI È SCHIERATA CON LUI” …”ISRAELE NON PUÒ DIRE CHE STA VINCENDO A GAZA, I SOLDATI CONTINUANO A MORIRE E NON C’È NIENTE DA GUADAGNARE A RIMANERE IMPANTANATI NELLA STRISCIA”

Aluf Benn vive da anni al centro delle notizie: è il direttore di Haaretz, il giornale progressista di Israele. Un giornale che, nonostante le vendite in calo, resta un punto di riferimento fondamentale per chi vuole capire questo Paese.
Dal 7 ottobre 2023 l’influenza della testata è cresciuta in maniera esponenziale: la diretta web che il sito ha inaugurato quel giorno non si è mai fermata e ha registrato milioni di accessi. Sin dalle settimane successive alla strage di Hamas e all’inizio della guerra a Gaza, Benn si è dato una regola, che rispetta anche in questa intervista: nessun commento su come Haaretz ha seguito quei fatti, sui singoli articoli e sulla reazione che hanno suscitato in Israele.
Direttore, proviamo a mettere qualche punto fermo nel grande caos di questi giorni. In che posizione la guerra all’Iran ha lasciato Benjamin Netanyahu e il governo?
«Li ha rafforzati: non soltanto perché l’America si è schierata con lui e perché militarmente Israele è uscito vincitore dall’offensiva. Ma perché la decisione di fare la guerra all’Iran ha dato a Netanyahu l’opportunità di colpire al cuore il campo dell’opposizione: Bennett, Lieberman, Gantz e Lapid si sono tutti schierati con lui e ora faticheranno a dire che non è legittimato a guidare il Paese. Il fronte del “tutto tranne che Bibi” si è indebolito».
Ci sono segnali concreti del fatto che potrebbe usare questo spazio per arrivare a una svolta su Gaza?
«I segnali ci sono: Israele non può dire che sta vincendo a Gaza oggi, i soldati continuano a morire e non c’è niente da guadagnare a rimanere impantanati nella Striscia. Ho speranza che le cose cambino. Anche perché è sotto gli occhi di tutti la differenza fra il successo di una campagna militare condotta a migliaia di chilometri di distanza per sconfiggere l’Iran e l’impossibilità di fermare Hamas e riportare a casa gli ostaggi a pochi chilometri da Tel Aviv. Questo peserà».
E Donald Trump? E’ davvero il migliore amico di Israele come da giorni ci sentiamo ripetere?
«Non mi piace parlare di amicizia. Qui quello che conta è l’interesse: Trump ha seguito la strada di tutti i presidenti americani dal ’48, appoggiando Israele. Cosa altro verrà, lo vedremo. Quello che è diverso dal passato non è Trump: è il rapporto fra i due Paesi. Non solo da venti mesi la dipendenza di Israele dall’appoggio americano è aumentata moltissimo in termini di rifornimento di armi, di informazioni di intelligence, di sostegno internazionale. Ma ora, per la prima volta, Israele ha chiesto agli Usa di combattere in suo nome. Non era mai successo».
Lei segue Benjamin Netanyahu da moltissimo tempo: una cosa che molti in Europa non capiscono è come è possibile che in venti anni non sia mai emerso un leader alternativo a lui. Perché Netanyahu è diventato il volto stesso di Israele?
«Non è questione di leader ma di idee. Bennett, Lieberman e Gantz non hanno un’idea di Israele diversa da quella di Netanyahu: lo abbiamo visto quando lo hanno lodato per aver colpito l’Iran. Anche sulla questione palestinese la pensano come lui: e allora, lui è più bravo di loro nella narrazione, in ciò che ha raccontato al Paese. Poi c’è l’economia: a partire dagli anni ’90 è iniziata qui una nuova era dal punto di vista economico. Le start up e la tecnologia hanno fatto di Israele un Paese ricco, almeno in parte e di questo molte persone sono
riconoscenti. La domanda da farsi per capire il successo di Netanyahu è: c’è qualcuno oggi con una visione diversa dalla sua? Io non lo vedo».
C’è un’altra cosa che la gente in Europa non capisce: come è possibile che Israele lamenti tanto di essere isolato e non veda da dove nasce questo isolamento? E con questo intendo Gaza..
«Perché non vede Gaza. Gli organi di stampa israeliani, in media, non raccontano ciò che accade lì. Raccontano la crescita dell’antisemitismo nel mondo senza inquadrarla nella fotografia più grande: così la gente non capisce».
Che eredità crede che tutto questo lascerà sul futuro?
«Questa è una domanda molto difficile. Credo che il peso di quello che accade qui si stia facendo sentire ben oltre i nostri confini: la vittoria di Mamdani nelle primarie per il sindaco di New York è un segno. Il fatto che alcuni elettori musulmani non abbiano votato per Harris e così abbiano aiutato Trump è un altro segno. Per quanto riguarda noi israeliani, forse se nei prossimi mesi ci saranno gli accordi di pace di cui si parla in questi giorni, il sentimento di ostilità che c’è nei nostri confronti scenderà, almeno in parte. Ma è presto per dirlo».
(da Repubblica)

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REGIONALI IN CAMPANIA, I DUBBI A SINISTRA E GLI EQUILIBRI A DESTRA

Giugno 29th, 2025 Riccardo Fucile

TUTTI I NOMI IN CAMPO

Bocciato il terzo mandato, anche in Campania si apre ufficialmente la corsa per la scelta dei nuovi candidati. Giovedì 27 giugno, la Commissione Affari costituzionali del Senato ha affossato l’emendamento presentato in extremis dalla Lega all’interno del disegno di legge sugli assessori regionali, che avrebbe permesso ai presidenti uscenti di ricandidarsi per la terza volta. Quello era l’unico spiraglio utile per intervenire prima della pausa estiva. E tutte le Regioni chiamate al voto tra l’autunno 2024 e la primavera 2026 – con la prima ipotesi ormai più probabile – attendevano quel voto con il fiato sospeso per
comprendere il da farsi. In particolare Campania e Veneto, dove i governatori uscenti, Vincenzo De Luca e Luca Zaia, avrebbero voluto restare in campo per un altro giro. Ma ora quel capitolo è chiuso. E la partita per la successione è già iniziata. Guardando alla Campania, nel centrosinistra un candidato sembra già esserci, nonostante i malumori espressi da De Luca: è Roberto Fico. E anche nel centrodestra, un nome comincia a farsi strada con sempre maggiore insistenza.
Una Regione al M5S
Le regioni chiamate al voto in autunno sono sei, e almeno tre di queste – Puglia, Marche e Toscana – vedono il centrosinistra favorito. In Puglia, Antonio Decaro, europarlamentare ed ex sindaco di Bari, non ha ancora ufficializzato la candidatura, ma ha lasciato aperta la porta. Nelle Marche, Matteo Ricci, eurodeputato ed ex sindaco di Pesaro, si è già reso disponibile; mentre in Toscana Eugenio Giani, che sta per chiudere il suo primo mandato, punta al secondo. Tre profili solidi, tutti del Pd, tutti riformisti (ovvero appartenenti all’ala più distante dalla segretaria Elly Schlein) e con una lunga esperienza amministrativa alle spalle. Dunque, nella corsa verso la Campania, una regione dovrà essere lasciata al Movimento 5 Stelle, per questioni di equilibrio interno al centrosinistra. E anche nel Partito democratico sembrano in gran parte d’accordo su questo punto. O quasi.
Il nome di Fico
E così, già da diversi mesi – ben prima che si chiarisse l’impossibilità di una ricandidatura per De Luca – ha iniziato a prendere corpo l’ipotesi di schierare Roberto Fico. Nato a
Napoli, classe ’74, Fico vanta una lunga esperienza istituzionale: è stato deputato per i 5 Stelle, presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza Rai e, dal 24 marzo 2018 al 12 ottobre 2022, presidente della Camera dei deputati. La sua candidatura alla presidenza della Regione Campania non è stata ancora ufficializzata, ma fonti del centrosinistra campano assicurano che l’annuncio arriverà entro fine luglio, sicuramente prima della pausa estiva dei lavori parlamentari.
A detta di molti, non c’è mai stato un vero “piano B”: il nome di Fico è sempre stato quello dominante sul tavolo. Solo in una primissima fase era circolata l’ipotesi di Sergio Costa, ma è stata presto archiviata: «Un’idea già morta e sepolta», tagliano corto. «Siamo tutti allineati su Fico», raccontano da ambienti dem. Convinti anche i riformisti. Nulla di cui stupirsi: i rapporti tra Pd e Movimento 5 Stelle in Campania sono molto buoni, governano insieme in numerosi comuni.
Le richieste di De Luca
Ma gli attriti non mancano. Perché Vincenzo De Luca – che, vale la pena ricordarlo, è espressione del Partito democratico – non sembra affatto intenzionato a uscire di scena in punta di piedi. E soprattutto non vuole Roberto Fico. Perché? chiediamo a un dem. «De Luca non vuole nessuno che non sia lui», racconta, oppure, quantomeno, «vuole qualcuno che scelga lui». Il presidente campano vorrebbe avere voce in capitolo sulla successione, se non addirittura dettarne tempi e nomi. E infatti, tra i profili che circolano nel suo entourage, spuntano quelli di Lucia Fortini, attuale assessora alla Scuola, Politiche sociali e Giovanili, e Fulvio Bonavitacola, vicepresidente in Regione e suo fedelissimo.
Un Terzo polo? Non conviene
Ed ecco che, a prima vista, la soluzione più semplice potrebbe sembrare quella di ipotizzare la nascita di un Terzo polo, in cui far confluire l’area più vicina a De Luca. Una sorta di spazio politico autonomo, che consentirebbe al presidente uscente di mantenere un proprio “baricentro” nella partita. Ma non è così: la legge elettorale campana penalizza pesantemente le coalizioni dal terzo posto in poi. Solo le prime due hanno una possibilità concreta di ottenere seggi in Consiglio, e per un candidato presidente dalla terza coalizione in poi è obbligatorio candidarsi anche in lista. Dei pochi posti disponibili, dunque, uno sarebbe riservato proprio a lui. Un sistema che scoraggia molti dal candidarsi in una terza coalizione, rendendo quasi impossibile avere un peso politico senza aderire a uno dei due schieramenti principali. Così, un Terzo polo “alla De Luca” rischia di rivelarsi per il governatore uscente un boomerang, e di indebolirlo, spingendo tutti a concentrarsi sulle due coalizioni principali.
Effetto domino
Per questo motivo, spiegano i dem, «ora inizierà un effetto domino». L’area centrista che oggi governa con De Luca si sposterà verso il campo largo, per garantirsi la sopravvivenza a un nuovo mandato. A coordinare questa fase, dicono dalla Campania, ci sarà una figura chiave: Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli e presidente dell’Anci, considerato il vero kingmaker dell’operazione.
E il centrodestra?
Una cosa è certa: Fratelli d’Italia, e quindi Giorgia Meloni, rivendica la possibilità di esprimere un proprio candidato. Anche perché – lo ammettono con una certa sincerità perfino dentro Forza Italia – gli azzurri sono già ampiamente rappresentati nelle regioni: guidano il Piemonte con Alberto Cirio, il Molise con Francesco Roberti, la Basilicata con Vito Bardi, la Calabria con Roberto Occhiuto e la Sicilia con Renato Schifani. Al contrario, Fratelli d’Italia non ha lo stesso radicamento a livello locale e, anzi, rischia di perdere anche le Marche, dove il governatore uscente Francesco Acquaroli dovrà vedersela con Matteo Ricci, candidato del centrosinistra (e dato per favorito). È per questo che Meloni punta tutto su Campania e Puglia: due regioni considerate strategiche per riequilibrare il peso territoriale del partito all’interno della coalizione.
Chi schierare?
Il nome più probabile, al momento, è quello di Edmondo Cirielli, viceministro agli Esteri nel governo Meloni. Un candidato pienamente politico. Esponente di Fratelli d’Italia, nato a Nocera Inferiore, Cirielli non ha mai nascosto la sua disponibilità a candidarsi in Campania, e potrebbe essere questa la carta su cui Giorgia Meloni sceglierà di puntare. Ma un altro nome continua a circolare con insistenza: quello di Giosy Romano, avvocato ed esperto di politiche per lo sviluppo industriale, oggi coordinatore unico della Zes Unica per il Sud Italia, e figura vicina a Raffaele Fitto. Un profilo più tecnico e civico, che si avvicina alle preferenze di Forza Italia, da tempo favorevole a candidati meno politicizzati. Tuttavia, c’è chi giudica questa ipotesi poco percorribile. Il centrodestra, infatti,
ha già sperimentato – senza successo – la strada del civismo in Campania: alle comunali di Napoli fu proprio un candidato civico, il magistrato Catello Maresca, a rappresentare la coalizione. Il risultato fu disastroso: appena il 21,9% dei consensi contro il 65% ottenuto da Gaetano Manfredi. Una sconfitta netta, che Fratelli d’Italia non sembra intenzionata a ripetere.
(da Open)

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GLI IMMIGRATI SERVONO, MA CHE NON SI SAPPIA IN GIRO

Giugno 29th, 2025 Riccardo Fucile

MELONI VARA UN NUOVO DECRETO FLUSSI: VIA LIBERA ALL’INGRESSO DI MEZZO MILIONE DI IMMIGRATI NEI PROSSIMI TRE ANNI

Il governo Meloni è pronto a varare già lunedì un nuovo decreto flussi triennale che prevederà l’ingresso in Italia di oltre mezzo milione di lavoratori immigrati non comunitari tra stagionali e fissi.
In queste ore i ministeri del Lavoro, del Turismo e dell’Agricoltura stanno inviando le quote a Palazzo Chigi e al Viminale per fare in modo che lunedì, giorno del Consiglio dei ministri, sia varato il nuovo dpcm per gli anni 2026-27-28. Se ci fossero ritardi tecnici il dpcm slitterà ai prossimi giorni, comunque prima della pausa estiva.
Non è una sanatoria di immigrati, spiegano al Foglio fonti di governo, bensì la risposta a una domanda di lavoro che in Italia è molto presente a fronte di una risposta carente.
La cifra esatta del nuovo decreto flussi è considerata, dai ministri interessati al dossier, molto consistente. “Supererà il mezzo milione di persone, compresi però gli stagionali”.
Il dibattito è in evoluzione in queste perché il dicastero del Lavoro di Marina Calderone ha proposto inizialmente di allineare i flussi rispetto ai numeri realmente impiegati l’anno
precedente sulla base dati Inps. “Non è del tutto sbagliato ma c’è la possibilità che sia colpa della burocrazia il mancato completo utilizzo delle quote”, spiegano fonti del governo. Quindi anche dentro Fratelli d’Italia, a partire dal ministro Francesco Lollobrigida, c’è chi è per tenere il parametro vicino alle richieste delle associazioni di categoria. Trattative ancora in corso,
(da agenzie)

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EVASIONE FISCALE, LA CORTE DEI CONTI SVELA IL BLUFF DIETRO I “RISULTATI MIGLIORI DELLA STORIA” VANTATI DA MELONI

Giugno 29th, 2025 Riccardo Fucile

PIU’ ENTRATE SOLO DAI CONTROLLI AUTOMATIZZATI SU ERRORI NEI VERSAMENTI, MA IN REALTA’ GLI ACCERTAMENTI VERI SONO MOLTO MENO

I “risultati migliori della storia” nella lotta all’evasione rivendicati ancora poche settimane fa da Giorgia Meloni non dipendono da una concreta azione di contrasto al nero da parte dell’Agenzia delle Entrate. Che, anzi, continua a non avere le forze per condurre un numero di controlli in grado di rendere poco consigliabile frodare il fisco. A svelare il bluff è la Corte dei Conti, che in uno dei tomi della relazione sul rendiconto generale dello Stato 2024 mette ancora una volta nudo la debolezza del sistema che dovrebbe tutelare le entrate pubbliche.
Partiamo dalle cifre riportate nelle casse dello Stato. Lo scorso anno sono ammontate a 26,3 miliardi di cui 22,8 di “recupero ordinario da attività di controllo”, ricordano i magistrati contabili. La fetta più grossa, 12,6 miliardi, è costituita dai versamenti fatti in seguito ad atti emessi dall’Agenzia. Ma si tratta quasi solo (“se ne rileva l’assoluta prevalenza”, si legge) di soldi ottenuti grazie alla liquidazione automatizzata, cioè controlli informatici sui dati dichiarati, senza alcuna attività istruttoria. Introiti che di conseguenza, chiarisce la Corte, “non derivano da una concreta azione di contrasto dell’evasione sostanziale, ma si ricollegano ad errori o omissioni nei versamenti conseguenti alle dichiarazioni presentate”. È un risvolto dell’enorme fenomeno dei contribuenti che dopo aver dichiarato il dovuto si guardano bene dal pagare. Si tratta, come evidente, di entrate tutt’altro che stabili. Esattamente come i 5,7 miliardi di incassi da cartelle di pagamento che contribuiscono ai 22,8 complessivi: 4,3 miliardi derivano a loro volta da controlli automatizzati e, anticipa la relazione, “tenuto conto del progressivo aggiornamento delle annualità da controllare è prevedibile una graduale flessione dei ruoli da emettere e, quindi, degli introiti conseguibili”.
Archiviati i festeggiamenti della maggioranza per un “record” che potrebbe avere vita breve, il quadro resta sconfortante. Le Entrate sono ancora sotto organico perché, nonostante il blocco del turnover sia superato, le nuove assunzioni non tengono il passo con gli oltre 1.000 pensionamenti annui. Lo scorso anno hanno realizzato 189.578 accertamenti ordinari contro gli oltre
260mila del pre pandemia: volumi “modesti, tenuto conto dell’ampiezza e numerosità dei fenomeni evasivi”, commenta la Corte. Ben il 9,5%, peraltro, ha fatto registrare esito negativo o è stato annullato in autotutela. Anche la maggiore imposta accertata è ben sotto i livelli pre Covid: 14,7 miliardi contro quasi 18. Le tabelle sulla percentuale di controlli condotti sulle diverse attività economiche, poi, non richiedono commenti: la frequenza media nel 2024 è stata dell’1,4%. Il fisco, per fare qualche esempio, nonostante gli atti tassi di inaffidabilità di quelle categorie ha bussato a 3 ristoranti e bar ogni 100, all’1,4% degli hotel e b&b e al 2,2% delle società di trasporto e magazzinaggio.
Viste le scarse risorse umane, potrebbe venire in aiuto la tecnologia attraverso il sempre invocato incrocio delle banche dati che – dopo anni di tira e molla con il Garante privacy – ora possono essere utilizzate per una “sistematica analisi del rischio” mirata a stimolare l’adempimento spontaneo e selezionare casi sospetti su cui concentrare l’attenzione. Ma in concreto “persistono ritardi e difficoltà”, nota la relazione. I contenuti delle fatture elettroniche emesse e le movimentazioni dei conti tuttora non vengono sfruttati. L’Agenzia da tre anni ha a disposizione il software di analisi dei dati Ve.r.a. (Verifica Risparmio Accumulato) che assiste gli uffici nella messa a punto di elenchi di contribuenti con “forte incoerenza tra redditi/ricavi dichiarati e movimentazioni finanziarie”. Sull’effettivo utilizzo però è buio fitto e “gli effettivi risultati conseguiti, soprattutto in termini di concreta proficuità dell’attività”, andranno “attentamente monitorati”. Quanto alle
indagini finanziarie sul singolo contribuente sottoposto a controllo fiscale, lo scorso anno ne sono state autorizzate 4.555: una goccia nel mare, ma comunque in aumento del 60% rispetto al 2023. Peccato che alla fine siano stati incassati solo 5 milioni: il 61% in meno.
Del resto le performance della riscossione italiana sono tra le peggiori al mondo. Poco importa se nel 2024 il riscosso complessivo a mezzo ruolo è salito a 15,9 miliardi (+8%): negli ultimi 24 anni l’erario è riuscito a farsi versare solo 201 miliardi su 1.399 dovuti, il 14%. L’abnorme “magazzino” dei crediti non recuperati continua a lievitare nonostante rottamazioni e paci fiscali, che comunque raccolgono puntualmente un gettito molto inferiore al previsto perché i contribuenti a un certo punto smettono di pagare le rate: “Va rilevato come 11,2 miliardi delle rate scadute nel 2023 e 2024”, annota la Corte, “non sono state versate”, e che – ancora peggio – “probabilmente una quota cospicua delle adesioni è finalizzata a ritardare la riscossione coattiva”. L’amministrazione appare particolarmente inefficace nell’esigere gli importi più corposi: tra 2020 e 2024 oltre il 60% dei carichi affidati ha superato i 100mila euro, ma il 60% del riscosso è arrivato da chi aveva debiti ben più piccoli.
La rateazione, che la politica tende a presentare come panacea per favorire la regolarizzazione da parte di chi dichiara e non versa, ha riguardato anche lo scorso anno importi per oltre 9 miliardi e secondo i magistrati contabili ha ormai trasformato l’Agente della riscossione in un “ente di concessione di credito in assenza di garanzie e senza alcuna valutazione preventiva in merito alla solvibilità del debitore”. Per affrontare davvero il
problema ed evitare che in futuro – a valle dello smaltimento dei vecchi ruoli con le modalità che verranno decise da una commissione di esperti guidata da Roberto Benedetti – si proceda a colpi di discarico automatico delle quote non riscosse a distanza di cinque anni, occorrerebbe dotare AdER di poteri più incisivi e rafforzare gli strumenti che si sono dimostrati validi. Come i pignoramenti di beni mobili, che tendono ad essere molto efficaci. In generale se ne fanno pochi: nel 2024 sono stati poco più di 11mila. A sorpresa, invece, quelli di “crediti finanziari” compresi stipendi e pensioni sono saliti a 414mila dai 92mila dell’anno prima, con un incasso di 1,3 miliardi. Nel silenzio di Lega e Forza Italia, che a fine 2023 avevano dichiarato irricevibile una norma ad hoc per facilitarli.

(da ilfattoquotidiano.it)

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SPIONAGGIO, LO STORICO GIANNULI: “IL SISTEMA ISTITUZIONALE E’ IMPAZZITO: C’E’ SOLO CAOS”

Giugno 29th, 2025 Riccardo Fucile

“LA NOVITA’ E’ CHE OGGI INFILTRANO SENZA NASCONDERSI”

“Noi, inteso come l’Italia, in uno Stato di polizia ci siamo sempre stati. La novità è un sistema istituzionale impazzito dove regna il caos totale e non solo perché il livello è quel che è”.
Lo storico Aldo Giannuli, esperto di servizi segreti, offre uno spunto promettente: il caso di giornata sono i poliziotti infiltrati in Potere al popolo, ma ci sono anche Paragon e la vicenda ancora misteriosa della Porsche di Gianbruno sotto casa di Giorgia Meloni e finita nel mirino degli 007. O almeno così pare: “La verità è che è saltato il meccanismo dei controlli: nessuno sa cosa fa l’altro. Quand’è così la deriva rischia di essere grottesca ma soprattutto pericolosa”.
Agenti dell’antiterrorismo spacciandosi per studenti avrebbero spiato per diversi mesi Potere al popolo.
Diciamo la verità: in passato i Servizi ne hanno fatte di tutti i colori, a partire dall’infiltrazione nei partiti come il Pci. La novità è che oggi lo fanno praticamente senza nascondersi. Questo è il salto di qualità più evidente anche se non è il solo.
Cioè?
Una premessa: l’intelligence ha avuto l’ultima grande stagione tra gli anni 90 e i primi anni duemila. Poi c’è stata una caduta verticale con una serie di insuccessi clamorosi. Si può ricordare lo scivolone in Libia e soprattutto l’inazione come nel caso Regeni. Del resto l’ultimo personaggio di rilievo dei nostri Servizi è stato Marco Mancini, saltato per la vicenda dei babbi portati in dono a Renzi all’autogrill. E ho detto tutto.
In questi anni hanno tenuto banco vicende poi finite nel nulla o comunque rimaste avvolte nella nebbia. Dossieraggi veri o presunti, logge Ungheria e da ultimo il gruppo Fiore a Milano,
lo spionaggio di giornalisti e le infiltrazioni nei gruppi politici: un quadro inquietante.
Il quadro è quello di un grande caos in cui su ciascun singolo caso si possono fare più ipotesi che è come non averne nessuna.
Ne faccia qualcuna.
Io non posso escludere che dietro gli ultimi fatti a certe slabbrature ci sia una guerra interna ai due apparati magari per la corsa ad accreditarsi con FdI o a restare agganciati al carro della Lega che è stata al governo anche prima di ora
Paragon: i giornalisti intercettati come Cancellato di Fanpage o Roberto D’Agostino. Lei ha detto che viviamo nell’illegalità più sistematica.
L’azienda in questione vende questi software solo ai governi e solo per un impiego di antiterrorismo. C’è qualcuno che considera i giornalisti terroristi?
Squadra Fiore, dossieraggi veri o presunti, giornalisti intercettati, partiti infiltrati. C’è un disegno?
Guardi in uno scenario così confuso non escludo niente. In tutti i casi che lei mi ha citato non escludo una guerra tra apparati, non escludo l’interesse di qualche Stato straniero a mettere in difficoltà il governo, né che dietro alcune vicende possa esserci una questione di concorrenza tra le aziende per gli appalti nell’intelligence. Non escludo neanche che ci siano state iniziative sgangherate frutto dello zelo che facilmente declina in macchietta. Però resta un dato.
Quale?Il decreto Sicurezza è stato piallato dalla Cassazione
Che c’entra?
Normalmente quando un provvedimento rischia rilievi da questa
o quella Corte si attiva un canale ufficioso da parte di Palazzo Chigi o del Viminale. Perché quelle norme rappresentano una volontà politica, ma hanno tutta una filiera dietro che queste bocciature non se le può permettere. Un esito come quello di oggi significa non solo che sono saltati i fondamentali e che i meccanismi non funzionano più. Ma soprattutto che non interessa più farli funzionare.
(da Il Fatto Quotidiano)

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