NETANYAHU, LA GUERRA PER POTER SOPRAVVIVERE
DA GAZA AL LIBANO, FINO ALL’IRAN: LA STRATEGIA PER SALVARE LA POLTRONA
La mano appoggiata sul Muro del Pianto, indosso i colori d’Israele, lo Stato che ha promesso di proteggere fino alla morte ma che gli serve per proteggere se stesso dai guai giudiziari interni e internazionali. Benjamin Netanyahu, di fronte alle pietre sacre della religione ebraica, giura che i suoi pensieri, le sue preghiere, sono tutti per la “salute del presidente degli Stati Uniti Donald Trump“. Perché se si crede alla provvidenza, l’elezione del tycoon ne è stata per lui la più fulgida dimostrazione: in calo di consensi, con le inchieste giudiziarie che non gli danno tregua, con l’onta del non essere riuscito a impedire il massacro di Hamas del 7 ottobre 2023 e raggiunto anche da un mandato d’arresto internazionale, l’arrivo del nuovo inquilino alla Casa Bianca ha rappresentato per il leader del Likud un’ancora di salvezza.
Gli ha tolto di dosso la pressione, seppur molto limitata, della precedente amministrazione, lo ha protetto dalla giustizia internazionale e dalle denunce delle Nazioni Unite e gli ha permesso di portare avanti indisturbato l’unica cosa che può mantenerlo al potere: la guerra.
Quella preghiera, quindi, sembra un atto di riconoscenza. Le guerre compattano i Paesi, leniscono le ferite della battaglia politica e calmano le opposizioni. Lo dice la storia, soprattutto
quella di Israele. E Benjamin Netanyahu è grande sostenitore di questa strategia.
In 16 anni di governo quasi ininterrotto, lo ha dimostrato: quando il consenso era in calo ecco che ogni pretesto, un missile o palloncini incendiari lanciati da Hamas su Israele, rivolte in Cisgiordania o singoli attentati, era buono per lanciare una nuova operazione nei Territori palestinesi e soprattutto nella Striscia di Gaza. Margine di Protezione, Spade di Ferro, Carri di Gedeone, tutte operazioni che hanno riportato i consensi in ascesa al prezzo di migliaia di vite umane. Senza contare i blitz in Cisgiordania e il sostegno alle colonie illegali.
Il lancio dell’operazione Margine di Protezione, ad esempio, fece schizzare i consensi del premier all’82%, salvo poi crollare di 50 punti alla firma del cessate il fuoco, quando in molti ritennero insufficienti i risultati raggiunti. Dopo il 7 ottobre è successo qualcosa di diverso: persone in piazza e commentatori chiedevano le dimissioni di Netanyahu e dei vertici dei servizi di intelligence. Lui, sull’orlo della crisi di governo, ha assecondato le richieste degli estremisti a sostegno del suo esecutivo lanciando una lunga campagna militare. C’è voluto del tempo, però, per vedere i primi risultati: l’entrata in guerra ha giustificato la sua permanenza al potere, pur non riuscendo ad arginare il calo di consensi con migliaia di persone che continuavano a scendere in piazza per chiedere di dare priorità alla liberazione degli ostaggi catturati nel corso dell’attacco del Movimento Islamico di Resistenza. La forza con la quale le Idf hanno travolto Gaza, la guerra a Hezbollah, l’invasione del Libano e le numerose uccisioni di esponenti anche di spicco de
gruppi nemici di Israele hanno contribuito a invertire il trend. A maggio 2024, Netanyahu era di nuovo il premier preferito dal Paese con il 36% dei consensi. Non succedeva da circa un anno.
Pochi mesi dopo, ad agosto, il premier passa di nuovo all’incasso. Le uccisioni pochi giorni prima del comandante delle Brigate Ezzedin al-Qassam, Mohammed Deif, e del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, riportano il Likud a essere primo partito nei sondaggi, cosa che non succedeva dal giorno dell’attacco di Hamas e nonostante fosse chiara la volontà dell’amministrazione Biden di preparare già il Paese al post-Netanyahu, appena si fosse presentata l’occasione. È stato il premier a far sì che quell’occasione non si presentasse mai, fino alle Presidenziali americane che hanno spazzato via il timore israeliano, non si sa quanto fondato, di una vittoria di Kamala Harris. Il 17 settembre 2024 Israele compie una delle operazioni d’intelligence più raffinate degli ultimi decenni: l’attacco ai membri di Hezbollah con esplosioni a distanza di cercapersone e altri apparecchi che mutilano centinaia di membri del Partito di Dio. Una mossa che vale a Netanyahu il 38% dei consensi nei sondaggi. Il 27 settembre verrà ucciso il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, mentre a metà ottobre toccherà al ricercato numero uno: Yahya Sinwar, la mente del 7 ottobre. Parallelamente, il Likud rimaneva ampiamente primo partito con Netanyahu candidato.
L’attacco all’Iran, tra le varie motivazioni che lo hanno mosso, ha anche questo obiettivo: mantenere un alto livello di tensione interno a Israele che permetta al primo ministro non solo di mantenere i consensi a un livello accettabile (il 75% degli
israeliani si è detto a favore dei raid sugli impianti di arricchimento e stoccaggio dell’uranio di Teheran), ma anche di legittimare la propria permanenza al potere nel bel mezzo di una (o più) guerre e, tra le altre cose, di soddisfare gli appetiti colonialisti e ultranazionalisti di alleati di governo come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. L’importanza dei partner è emersa limpidamente il 12 giugno, quando l’esecutivo ha ottenuto la fiducia alla Knesset per un solo voto, proprio sotto minaccia dei partiti ultrareligiosi.
Adesso, a proteggere Netanyahu è arrivato Trump che, a dispetto dell’immagine di uomo forte, sui conflitti israeliani ha dimostrato di essersi fatto coinvolgere almeno quanto il suo predecessore, nonostante sia tornato alla Casa Bianca con la promessa di portare la pace nel mondo. Le guerre in Ucraina e a Gaza, per ora, vanno avanti e lui stesso ha deciso di bombardare l’Iran rischiando di trascinare gli Stati Uniti in un conflitto allargato. A tutto vantaggio di Netanyahu che ha bisogno della guerra per poter sopravvivere.
(da ilfattoquotidiano.it)
Leave a Reply