CORONAVIRUS DILAGA IN BRASILE ANCHE NELLE AREE RURALI GRAZIE A UN GOVERNO CRIMINALE
IL NEGAZIONISMO DI UN PRESIDENTE SOVRANISTA STA CAUSANDO MIGLIAIA DI MORTI INNOCENTI
Più che al ritmo leggero di samba, oggi il Brasile sembra muoversi sulle note cupe di un requiem. Secondo Paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, per numero di decessi da Coronavirus (ufficialmente 76.688 al 16 luglio), il Brasile sta pagando un prezzo altissimo per la sconcertante linea negazionista dei rischi imposta dal presidente Bolsonaro.
Il contagio continua a diffondersi minacciosamente non solo al Sud, nelle regioni come San Paolo, dove le capacità del comparto sanitario sono più avanzate.
L’emergenza si manifesta in misura crescente anche nelle aree rurali e negli Stati del Nord-Est, ben meno attrezzati per fronteggiare la pandemia. Gli effetti sono drammatici e la loro portata imprevedibile, se si considera tra l’altro che cinquanta milioni di brasiliani – un quarto della popolazione totale – vivono in abitazioni prive di reti fognarie o di acqua corrente.
Ora Bolsonaro, positivo anche al secondo test, si affida alla benevolenza di Dio e alla discussa terapia a base di idrossiclorochina, al pari dell’amico Trump.
Dal suo isolamento forzato nel palazzo presidenziale dell’Alvorada non appare disposto a cambiare idea. Che le attività proseguano regolarmente, “tanto prima o poi tutti dovremo morire”, ignorando gli appelli dei governatori dei ventisette Stati della Federazione, tutti favorevoli a misure restrittive di prevenzione. Scartata la scienza, preferisce la Provvidenza.
Tradotta in termini politici, l’ostinazione del capo dello Stato brasiliano significa incompetenza, irresponsabilità e ulteriore polarizzazione del Paese. Invece di aggregare e guidare, Bolsonaro divide e destabilizza, all’interno come all’estero. E’ questione di dna, non potrebbe fare altrimenti. Potrà andare avanti così fino alla scadenza del suo mandato, a dicembre 2022?
La disastrosa gestione della crisi del Covid, l’abbandono delle politiche di inclusione sociale e i limiti oggettivi della sua preparazione hanno abbassato, ma non di molto, il consenso dell’elettorato per il presidente.
La sua popolarità è intorno al trenta per cento. Quando Fernando Collor de Mello e Dilma Rousseff furono destituiti dalla presidenza della Repubblica, nel 1992 e nel 2016, il consenso personale di cui entrambi godevano era del quindici per cento.
Anche per questo, l’ipotesi di impeachment non sembra realistica, nonostante più d’una insidiosa accusa pendente a suo carico in un sistema che mantiene in ogni caso una corretta dialettica inter-istituzionale tra esecutivo, legislativo e giudiziario. Il Brasile non è il Venezuela.
Memore della scelta pragmatica di Lula, da presidente, di conquistare i settori più moderati con una serie di misure rassicuranti (“Lulinha paz e amor”), Bolsonaro cerca di allargare la sua base parlamentare ai variegati gruppi centristi, disponibili ad appoggi in cambio di contropartite più o meno esplicite.
Per riuscirvi, dovrà forse alleggerire il suo governo da qualche elemento più ideologico e radicale e dare maggiore spazio ai ministri più ragionevoli, tra cui figurano militari di buona preparazione, paradossalmente più duttili di alcuni colleghi di estrazione civile.
Assorbito da contrapposizioni e convulsioni interne, il Brasile perde colpi nella sua proiezione internazionale, autorevole con Cardoso e Lula, oggi evanescente. Sono lontani i tempi in cui ad esempio l’Egitto chiedeva al Brasile, in virtù della sua influenza sulla scena mondiale, di svolgere i buoni uffici su Shimon Peres in uno dei passaggi cruciali del contenzioso arabo-israeliano.
L’appiattimento prono dell’Itamaraty sulle politiche di Donald Trump ha dirottato il Brasile su un binario morto su scala globale.
Il tradizionale impegno multilaterale di Brasilia e il suo protagonismo sui temi dell’agenda globale hanno ceduto il passo a un isolazionismo compiaciuto e controproducente. Non è certo questo il Paese che possa coltivare l’ambizione, trascinata invano per anni, di ottenere un seggio permanente in Consiglio di Sicurezza.
Per il Brasile e per la sua agguerrita diplomazia, che quasi trenta anni fa a Rio de Janeiro elaborarono per primi l’idea dello sviluppo sostenibile nel quadro dei negoziati Onu sull’ambiente, è un motivo in più di disagio e di insoddisfazione per l’attuale deriva nazionalista, triste e inconcludente.
(da Huffingtonpost”)
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