LA RIFORMA POLETTI PRODURRA’ OCCUPAZIONE? L’OPINIONE DI IMPRESE E PRECARI
“NON AIUTERA’ AD ASSUMERE, MA A SFRUTTARE”…. “NON CAMBIA NULLA, E ADDIO CAUSE DI LAVORO”
Lo scontro interno alla maggioranza ha distolto l’attenzione dai veri effetti sul campo del decreto lavoro.
Ad oggi, il testo è un ibrido che scontenta tutti (Ncd e Sc in testa), ma non mette di traverso nessuno. “Il decreto creerà occupazione”, si è difeso il ministro Poletti.
La cognizione delle novità arriva più dalle imprese che dai lavoratori. Il motivo è semplice: i destinatari sono i precari, milioni di persone con contratti “atipici”, fuori dalla rappresentanza dei grandi sindacati. Nessuno gliele ha spiegate.
DAL LATO IMPRESA
È un’arma. E come tutte le armi nelle mani sbagliate farà molti danni. Per le aziende serie, diciamo con un’etica, non cambia molto, anzi in parte peggiora la situazione, per le altre… molte imprese non vedevano l’ora di avere mano libera”.
La sintesi del decreto lavoro — lato imprenditori — è di Francesca, 31 anni, che da tre guida le filiali italiane di una grande multinazionale dell’abbigliamento con centinaia di dipendenti.
“Pochi giorni fa ricevo una chiamata dalla direzione — spiega al Fatto — mi avvisano che siamo al 21 per cento di contratti a tempo determinato sul totale dei dipendenti, bisogna scendere al 20 come prevede il testo del governo”.
Cosa comporta? “Che dovrò graziarne qualcuno mettendolo a tempo indeterminato e spremere all’osso tutti gli altri. Detto brutalmente: la riforma non mi aiuterà ad assumere nessuno, ma a sfruttare di più quelli che ho”.
In cambio, il testo introduce limiti al ricorso ai contratti atipici, fissando delle soglie sul totale dell’organico.
“La cosa incredibile è che per compensare la libertà di manovra fino a 36 mesi dei contratti a termine, si sono imposti questi paletti. Da una parte ti do mano libera, dall’altra ti impongo soglie arbitrarie. Come si fa a dire a un’azienda che da un giorno all’altro deve stabilizzare l’80 per cento dei dipendenti? Giustamente non si fidano delle imprese, ma così puniscono chi, come noi, era già vicino alla soglia e comunque non faceva più di 12 mesi di tempo determinato”.
È il paradosso di un testo che scontenta Ncd e Scelta civica che invece lo giudicano troppo blando sulla flessibilità in entrata.
Chiedono di liberalizzare ancora di più i contratti a termine con un numero maggiore di proroghe.
“Da me funziona così: entri con un contratto di 6 mesi, rinnovabile per altri sei. Finiti i due contratti, o scattava l’indeterminato o finiva il rapporto di lavoro — spiega Francesca —. Molte aziende, invece, alla seconda scadenza ti fanno stare a casa venti giorni e poi ti fanno un altro contratto. Il vantaggio è indubbio: perchè prorogano il contratto senza bisogno di motivarlo con la cosiddetta causale e nessuno può impugnarlo davanti al giudice del lavoro”.
“Certo ci fanno un favore — spiega Paolo, proprietario di una piccola azienda torinese che lavora nel campo dell’impiantistica industriale —. Prima potevo fare un solo rinnovo all’anno, adesso arrivo a cinque. È un modo per sfruttare il lavoro temporaneo, uno strumento che andrebbe maneggiato con cura, lo dico da imprenditore”.
La differenza, quindi, la fa soprattutto il fattore umano. “La mia è un’azienda di famiglia con 40 anni di esperienza, c’è tutto l’interesse a stabilizzare e fidelizzare i dipendenti — spiega Paolo —. Ma con la crisi non è facile. Io lavoro con la Fiat, vi lascio immaginare. Abbiamo picchi di lavoro e lunghi tempi morti senza commesse. Ricorrere ai contratti a termine è inevitabile. Assumere costa troppo, e da questo punto di vista il decreto non sposta di una virgola la situazione. È l’Italia del gattopardo”.
Eppure il testo è stato presentato quasi in concomitanza con l’uscita dei dati Istat sulla disoccupazione (al 13 per cento). “Il decreto non precarizza, anzi crea lavoro”, ha spiegato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.
“L’occupazione si crea abbassando i contributi, cioè il cuneo fiscale, così si aiutano solo gli imprenditori a evitare grane, ma non ad assumere. A me fanno concorrenza le aziende dell’Est, un mio collega paga solo 300 euro di contributi al mese. Non c’è contratto che tenga”.
DAL LATO DI CHI CERCA
So che così è anche peggio di prima, ma, è triste dirlo, la percezione di chi è già precario è che non si possa peggiorare più di così”.
Aldo, romano, 29 anni, da 4 entra e esce da una grande azienda pubblicitaria con sedi in tutto il mondo. Le novità introdotte dal decreto lavoro lo lasciano quasi indifferente. Neanche le proroghe fino a cinque volte senza motivazione lo spaventano. “Lì si usa già di tutto, anche contratti di un mese e mezzo con ritenuta d’acconto. Dovresti lavorare da casa e invece ti chiedono di andare lì tutti i giorni. Se superi il numero di rinnovi o proroghe, ti fanno assumere da un’altra azienda, che però fa sempre parte del gruppo e si ricomincia”.
Una differenza rispetto a prima, però, riesce a intravederla: “Ad oggi ci sono persone che stanno in azienda da nove anni con contratti a termine.
Molte, esauste, alla fine hanno fatto causa. Adesso, senza obbligo di motivare rinnovo del contratto a termine sarà difficile appigliarsi a qualcosa. Ma gli espedienti si erano già trovati”.
Quali sono li spiega dopo essersi assicurato per l’ennesima volta l’anonimato: “Si accordano con il lavoratore, gli danno 500 euro e lui promette di non fare causa quando se ne va. Nello stipendio compare una voce fittizia, tipo ‘consulenza’ e tu te ne stai buono. Certo non possono mettere per iscritto l’accordo ma alla fine accetti e porti a causal’aumento una tantum”.
Aldo non è l’unico che non riesce a leggere le novità del decreto. Eppure gli esempi non mancano, a partire dall’apprendistato.
Il testo uscito dalla camera abbassa dal 30 al 20 per cento il vincolo all’assunzione degli apprendisti già sotto contratto: senza, non è possibile siglarne di nuovi.
“C’erano tre apprendisti nell’ufficio di Roma. Uno l’hanno cacciato, agli altri due hanno fatto un contrattino di sei mesi, mai rinnovato”.
“E’ curioso — spiega Luca, 30 anni di Modena, che lavora in un impresa di macchine agricole — dove lavoravo prima avevo un contratto di apprendistato, ma facevo le stesse cose degli altri impiegati, con le stesse responsabilità . Ce n’erano anche altri come me, ma solo uno è rimasto dentro. Però ci sarebbe la formazione, che da contratto è obbligatoria, e invece non l’ho mai fatta, nè io nè gli altri apprendisti in azienda. Ora il decreto lascia margine di libertà all’azienda se farla interna o affidarsi alla regione. Non so se sia un bene”.
Nella versione del testo uscita dalla Camera, l’impresa, in mancanza di un progetto formativo regionale entro 45 giorni dal contratto, può anche fare a meno della formazione.
Anche se gli sgravi sono legati proprio alla formazione “esterna” (e non sul lavoro). “Quindi è peggio, perchè il contratto verrebbe snaturato. Ma anche così, non mi sembra cambi molto, io non la facevo e gli altri neanche. Col tempo mi sono reso conto che è solo un contratto che gli permette di pagare meno contributi e risparmiare sui costi. In pratica cercano ‘apprendisti con esperienza’”, spiega Luca.
La flessibilità non lo preoccupa. “Ci sono abituato. Quando me ne sono andato in un’altra azienda, mi hanno fatto un contratto di sei mesi, poi uno di due anni mezzo, tutto entro la soglia dei 36 mesi. Alla fine non me l’hanno rinnovato. L’avvocato mi diceva: dai che gli facciamo causa, ma ho rinunciato. Inutile restare dove non ti vogliono. Ma io sono fortunato, vivo a Modena, dove c’è un tessuto produttivo che ti aiuta. Fossi nato in Sicilia o in Campania questo discorso non potrei farlo”.
“È normale che un giovane precario dica che per lui non cambia niente”. Spiega Luigi Marinelli, dell’Unione sindacale di base: “È la conseguenza del fatto che i sindacati li hanno lasciati soli”.
Carlo Di Foggia
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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