L’ALIBI DELL’IMPOLITICO
LA “MONOTONIA DEL POSTO FISSO” E IL VOTO SULLA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI, I PRIMI ERRORI DEL GOVERNO MONTI….PER QUANTO TECNICO, IL GOVERNO HA IL DOVERE DI FARE POLITICA
In due giorni Mario Monti ha intaccato un “tesoretto” di credibilità accumulato in tre mesi.
La battuta sulla “monotonia del posto fisso”, pronunciata sulla pelle di centinaia di migliaia di giovani che non hanno neanche quello variabile, è il primo, serio infortunio mediatico per il premier.
La pessima gestione del voto sulla responsabilità civile dei magistrati, lasciata alle geometrie variabili di una maggioranza erratica e riluttante, è il primo, grave incidente politico per il governo.
Sul “merito” della norma c’è poco da dire. È un revolver puntato alla tempia di qualunque magistrato.
Se un provvedimento del genere diventa legge, nessuna procura aprirà più un’inchiesta, nessun pubblico ministero avrà più il coraggio di istruire un’indagine, perseguire un’ipotesi di reato, scandagliare la “zona grigia” nella quale gli affari si mescolano alla politica.
La magistratura inquirente, prima ancora di quella giudicante, si limiterà a perseguire le “notitiae criminis” già evidenti, i delitti conclamati, i colpevoli colti in flagrante.
Per arginare le pur frequenti istruttorie “sommarie” di qualche procuratore, e gli errori non infrequenti di qualche gip, si introduce nel sistema una minaccia permanente contro le toghe, che di fatto scardina (per altre vie) il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
È la “Del Turco rule”, ed ha effetti potenzialmente devastanti sul nostro ordinamento giudiziario.
È dunque ancora più grave che un colpo di mano di questa portata, già fallito più volte persino nella fase più potente e arrogante del dominio berlusconiano, sia stato possibile nella stagione della discontinuità e della sobrietà montiana.
Non importa nemmeno stabilire se nell’urna, dietro al paravento ipocrita del voto segreto, si sia consumata la “vendetta contro le toghe” anche ad opera di qualche deputato del centrosinistra, magari ispirato dalla consueta attitudine dialogante di Luciano Violante.
Quello che conta è che, a dispetto delle promesse che avevano preceduto il voto, la norma alla fine sia passata contro lo stesso parere del governo, oltre che del Pd e del Terzo Polo. E quello che conta ancora di più è che il blitz, alla fine, è riuscito perchè ancora una volta sui temi della giustizia torna a saldarsi in Parlamento la vecchia maggioranza forzaleghista che si è dissolta nel Paese.
È un doppio smacco, che pone un problema di “metodo” politico gigantesco.
Primo.
Per quanto costruita forzosamente intorno a un “governo strano”, alla Camera e al Senato esiste pur sempre una maggioranza.
Anomala, disomogenea, decisamente preterintenzionale: ma pur sempre una maggioranza.
Riconoscerla come tale, e non come pura convergenza utilitaristica di forze, ha effetti molto precisi.
I partiti che vi aderiscono, anche senza entusiasmo o magari “a loro insaputa”, hanno obblighi reciproci e mutue responsabilità . Se su un determinato argomento si sostiene una linea, quella linea vincola tutti allo stesso modo.
Non possono esserci “ribaltoni” occasionali, e peggio ancora strumentali.
Meno che mai su temi sensibili come i rapporti tra politica e giustizia.
Se ci si allea in nome di un “bene comune” superiore, com’è l’interesse nazionale, non possono esserci alleati coinvolti che cantano e portano la croce, e alleati disinvolti che cantano e basta, addirittura con uno spartito diverso.
Se questo accade, il Parlamento diventa un caos, e il Paese perde la bussola.
Secondo.
Per quanto “tecnico” e dunque apparentemente “impolitico”, questo governo ha il dovere di fare politica.
Dunque, di fronte a un nodo intricato come la responsabilità civile dei magistrati, non può affrontare il dibattito e poi il voto con superficialità e fatalismo, affidandosi e fidandosi delle chiacchiere da buvette dei malmostosi del Pdl.
Il governo deve poter contare sul supporto numerico delle forze che lo hanno battezzato, con una fiducia trasversale che esclude solo Lega e Idv.
Se questo non accade, Catricalà non può cavarsela dicendo che “non ci sono problemi”.
E più in generale, su questioni di principio come l’autonomia del potere giudiziario, lo stesso Monti non può cavarsela rifugiandosi nell’algida alterità del “tecnico”, che finisce per tradursi in estraneità dal “politico”.
Il premier non può limitarsi a dire (come ha fatto a “Matrix” sul diritto di cittadinanza ai figli degli immigrati) “ho opinioni personali, ma non considero questi temi parte della mia missione di governo, così come non ne fanno parte etica, bioetica, legge elettorale, riduzione del numero dei parlamentari”.
È vero che quello di Monti è stato forgiato nel fuoco della battaglia finanziaria, e dunque è nato come “governo di scopo”.
Ma chi ha l’onore di governare, ha anche l’onere di farlo fino in fondo. Senza zone franche.
Ha il dovere di dire ciò che pensa, di proporre soluzioni e di chiedere su queste il sostegno della maggioranza e il consenso dell’opinione pubblica.
La democrazia liberale è il migliore dei mondi possibili. Ma un certo “laissez-faire” non funziona più neanche nell’ingestibile economia globale.
Figuriamoci nell’impalpabile politica italiana.
Massimo Giannini
(da “La Repubblica”)
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