OTTOCENTOMILA PER FRANCESCO E GLI “UOMINI CORAGGIOSI”
I DUE SANTI
Dinanzi ad una folla sterminata, composta e commossa, papa Francesco eleva alla gloria degli altari Angelo Roncalli e Karol Wojtyla.
“Uomini coraggiosi”, li chiama. Sottolineando l’autenticità del loro parlare e credere, riconducendo le loro diversità nel solco della testimonianza appassionata che ognuno è riuscito a dare.
È la giornata dei quattro papi, evento straordinario per la Chiesa. Lo spirito dei romani, impassibile dinanzi a qualsiasi inedito della storia, twitta ironicamente: “Oggi a Roma più papi che linee della metropolitana”.
Quattro papi all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, ma la giornata non diventa l’esaltazione del papato.
Una regia precisa, voluta da Francesco, imprime al rito di massa il sigillo della sobrietà , della non-retorica.
Non si sentono urla entusiaste, non si sentono slogan ritmati. La passione per Giovanni Paolo II che anima larga parte della platea, stretta fra il colonnato del Bernini e che si prolunga fino a Castel Sant’Angelo in una fiumana di fedeli di ogni nazione, non esplode in manifestazioni di tifo.
Francesco ha voluto una celebrazione che sia una messa, non una parata trionfale, e il filo del suo discorso è lontano da ogni apologia del ruolo papale.
Centro e capo della Chiesa — fa intendere nella sua predica — è il Cristo con le sue “piaghe”.
Gli uomini, anche i papi, valgono in quanto sono capaci di confrontarsi con le ferite del Cristo e di “vedere in ogni persona sofferente Gesù”. È uno spostamento di accento, che demitizza le figure papali ed era già presente nel discorso di addio di Benedetto XVI, quando accennò che chi guida la Chiesa non è il pontefice, ma Cristo. Impressionante, ancora una volta, è la lunga preghiera silenziosa praticata in piazza San Pietro da centinaia di migliaia di persone seguendo Francesco.
È una giornata particolare questo 27 aprile 2014. Punto di arrivo e di partenza per la Chiesa cattolica. Giovanni XXIII, così spesso sabotato in vita, riceve il massimo riconoscimento che le forze ecclesiastiche conservatrici vollero negargli, impedendo che fosse acclamato santo al termine del Concilio.
E vengono finalmente soddisfatti tutti coloro — polacchi in testa — che reclamarono la santificazione di Giovanni Paolo II già durante il suo funerale.
I polacchi rappresentano la massa d’urto dei pellegrini stranieri giunti a Roma. Per loro Wojtyla è un eroe nazionale. Un grande sovrano, simbolo di religione e di patria. Bandiere e striscioni polacchi straripano in piazza rispetto ai vessilli di altri paesi.
Ma non sfugge che la folla in questa occasione è calata a confronto con giornate passate. Il primo maggio 2011, quando fu beatificato Wojtyla, i pellegrini erano un milione. Tra il 4 e il 7 aprile 2005, quando una massa infinita di fedeli e uomini e donne di ogni religione e visione del mondo si mise in file per via della Conciliazione per entrare in basilica e dare un ultimo saluto a Karol, i partecipanti erano tre milioni. Questa volta sono mezzo milione intorno a San Pietro e altri trecentomila sparsi nelle piazza romane davanti ai teleschermi.
Per tutti, però, è un’esperienza indimenticabile, a cui — ripetono — “dovevano prendere parte” . Molti arrivano in piazza san Pietro già con le valige, pronti per partire dopo la cerimonia. Molti hanno bivaccato la notte alla bell’e meglio per poter conquistare i posti più vicini al sagrato. Molti hanno pregato nella veglia notturna organizzata nelle chiese romane.
È una giornata particolare, perchè di fronte a due miliardi di telespettatori (tanti ne calcola il Vaticano sul pianeta) Francesco ha invitato Benedetto XVI a prendere parte al rito e va ad abbracciarlo due volte, all’inizio e alla fine.
Ratzinger, il viso più disteso e rasserenato rispetto ai mesi scorsi, è arrivato per primo sul sagrato. Tutto bianco nei paramenti e con una grande mitria vescovile bianca in testa. Resta il simbolo di una dedizione assoluta alla Chiesa.
E Francesco, portandolo sotto la luce dei riflettori mondiali, lancia il messaggio che la cattolicità dovrà abituarsi a vedere pontefici in pensione. Forse tra dieci anni sà rà lui — Bergoglio — al medesimo posto, seduto in prima fila accanto all’altare.
L’omelia di Francesco concede poco agli elogi e all’illustrazione delle biografie, è misurata, non c’è spazio per improvvisazioni.
Il papa argentino legge il testo con il volto grave. Se accenna a Roncalli e Wojtyla è per illustrare l’immagine di Chiesa, che sta proponendo da un anno: “testimonianza della bontà di Dio e della sua misericordia”. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, dice, hanno conosciuto le tragedie del Novecento, ma non ne sono stati sopraffatti. Più forte in loro era Dio, era la fede in Cristo Redentore, “più forte in loro era la misericordia di Dio”.
L’essenziale del Vangelo, insiste Francesco, senza paura di ripetersi, è l’amore, la misericordia, in semplicità e fraternità . E qui si è avvertito che il papa argentino si stava rivolgendo con insistenza alla Chiesa, alla Curia, agli episcopati, al clero, ai credenti di oggi. Il Concilio, ha spiegato, è servito per riportare la Chiesa alla sua “fisionomia originaria”.
Diseguale, nella sua breve omelia, è stata la descrizione dei due pontefici.
Francesco è parso più vicino a Giovanni XXIII, definito “docile allo Spirito Santo”, guida-guidata dallo Spirito. Wojtyla è stato definito il “Papa della famiglia”. Appellativo giusto, vista l’insistenza con cui ha trattato i temi familiari, ma limitato se si guarda all’ampiezza del suo pontificato.
Marco Politi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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