LA PREGHIERA DI UNA NOTTE DOVE IL TEMPO NON HA MISURA
LA VEGLIA SUI SAMPIETRINI
Un sacerdote con il breviario, capelli corti, tonaca nera, attraversa una viuzza con i sampietrini malfatti, che ancora non sono le cinque, o forse le quattro. Ha il passo agitato. Ha la fretta di chi s’è segnato un appuntamento da anni e adesso rischia di fare tardi e lo spaventa — l’incedere lo testimonia — la figuraccia che non contempla perdono.
Questa sagoma con il colletto bianco sparisce appena supera le prime statue di ponte Sant’Angelo, per una notte sorvegliate da migliaia di pellegrini, migliaia di coperte, sacchi a pelo, indumenti caldi, che soltanto qualche ora prima, che ancora la notte era fresca, cantavano e ballavano per ingannare la fatica e l’attesa.
Anche senza il sostegno coreografico di una ventina di pastori peruviani che saltavano, battevano le mani e incitavano la folla, e pure quelli che sfidavano il Tevere e bivaccavano ai suoi margini, ignari dei ratti famelici pronti a depredare le provviste.
Una suora col giornale, sdegnata per il vano contributo di tre consorelle, alza la mano con una bottiglietta d’acqua: “Me la apri, per favore? Grazie, questo è un gesto di carità ”.
La suora sfoglia le pagine con timidezza per non fare rumore, per non svegliare una distesa di uomini e donne, tanti ragazzi, che non mollano il posto davanti a un maxischermo ancora spento, ora che sono le cinque esatte, e che presto farà vedere immagini di repertorio.
Un gruppo di amici libanesi, ventenni, punta un varco accessibile fra le mura di Castel Sant’Angelo e il tratto pedonale di lungotevere, che agenti presidiano percorrendo cento metri avanti e indietro senza sosta.
In quel momento, che le cinque sono passate da un po’, un conforto di aurora lo suggerisce, la polizia sta per smantellare le barricate intorno a piazza San Pietro per far entrare i fedeli e sottoporre le carovane ai controlli.
Il gruppo di amici libanesi ha ciccato quel momento, e così avanza a rilento fra i pellegrini che sbadigliano. Uno di loro imbraccia una bandiera libanese, più che altro uno striscione con i colori bianco e rossi e il cedro verde nè chiaro nè scuro, e comincia a intonare una Ave Maria, piano, lento, poi forte, ancora più possente.
Un signore africano rinuncia, non ha voce per cantare e non ha la tempra per seguire i libanesi e allora, cordiale, s’avvicina a un signore italiano che picchetta un quadrato di sampietrini dove c’è spazio per una sediolina pieghevole e, magari, per allungare le gambe.
Il signore africano chiede ospitalità al signore italiano che rivendica il possesso di un amico, che non s’intravede (eppure sono quasi le sei), di quel pezzetto di territorio conquistato con estrema accortezza: “à‰ occupato”.
I volontari non fanno neanche in tempo a dividere via della Conciliazione in due settori, per motivi di sicurezza, che i drappelli polacchi e i ritratti di Wojtyla già troneggiano ovunque e spediscono in minoranza i francesi, gli spagnoli, gli argentini, gli africani, gli asiatici ben rappresentati dai filippini, che con apprezzabile educazione non spingono mai chi li precede e camminano con un’attenzione che sfiora l’apprensione.
Non sono neanche le sei e venti — gli ambulanti già vendono il drappo vaticano a un euro, roba di plastica — che Piazza San Pietro sta per essere circondata: comitive munite di ombrelli e cartelli affluiscono da qualsiasi angolo, non possono indugiare, non c’è spazio per tutti.
E i varchi nascosti dal colonnato (con poliziotti ben visibili) sono l’ultimo ostacolo. La gente protesta con sempre maggiore fastidio, urla “vergogna, vergogna” e in tanti si sentono male perchè la calca è insopportabile e molti, per evitare il peggio, sono costretti a scavalcare le (basse) recinzioni di ferro.
La scalinata di San Pietro è un giardino di fiori, piante e decori. Il tempo sta per scadere, che le otto sono ormai dimenticate.
Ma una compagnia di adolescenti spagnoli s’è arresa a una spietata evidenza, e le fermate di metropolitana chiuse lo certificano: queste piazze (e pure questo articolo) non possono contenere 800.000 pellegrini che vogliono assistere a una domenica con quattro papi, e neanche il coraggio dei polacchi che hanno guadato la Mitteleuropa con macchine scassate.
Gli spagnoli anticipano Francesco e recitano la messa assieme a un sacerdote con un microfono, c’è anche un uomo tanto paziente che regge un altoparlante, ma i ragazzi preferiscono la cuffia.
La celebrazione comincia prima che siano le dieci come previsto. Comincia prima che Francesco proclami santi Roncalli e Wojtyla.
In questi giorni, forse, gli orologi non servivano.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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