QUANDO ERANO I NOSTRI NONNI, UN SECOLO FA, A SOGNARE UN FUTURO LONTANO DAL LORO PAESE
FURONO 15 MILIONI GLI ITALIANI A CERCARE FORTUNA IN AMERICA CON LE VALIGIE DI CARTONE SULLE CARRETTE DEL MARE
Farebbe bene a tutti, in questa Italia inedita dei porti chiusi in faccia ai migranti un ripasso di storia Patria, un recupero di memoria perduta della nostra emigrazione.
Per i tanti che non sanno o fingono di non sapere o dimenticano facilmente chi siamo e da dove veniamo, ritrovare la memoria vale più di tanti appelli al soccorso, all’ospitalità , al senso di umanità
Servirebbe a tutti una visita nei gironi infernali di Ellis Island, il terribile museo dell’emigrazione dall’Italia verso gli Stati Uniti, o nei piccoli musei degli emigranti nei tanti Comuni italiani, soprattutto del Sud.
Guardare i volti degli italiani di un secolo o mezzo secolo fa, poveri cristi ammassati a poppa e a prua e nelle stive delle navi salpate da Napoli o Genova o Palermo, i tre porti di imbarco autorizzati dalla legge 23 sull’emigrazione del 31 gennaio 1901. Sbarcati nella terra promessa di New York dopo quasi due mesi di terribile navigazione, venivano schiavizzati dai boss aguzzini che li smistavano nei lavori più duri, oppure subivano l’onta del respingimento dagli States.
Mai come oggi è bene ricordare le impressionanti stragi di nostri migranti sepolti nella tomba più grande del mondo, il mare, quando eravamo noi i figli della miseria più nera, della fame e delle epidemie, con migliaia in fuga dalle guerre, da persecuzioni e schiavitù di baroni e capibastone.
Eravamo noi quelli che salpavano con la valigia di cartone, salutati dalle lacrime dei parenti dalle banchine dei porti più tristi del mondo.
Tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, nel solo arco di tempo che va dal 1876 al 1915, ben 14 milioni di nostri connazionali, una cifra impressionante che ridicolizza gli sbarchi di oggi, si imbarcarono su navi e piroscafi obsoleti e fatiscenti con rotta verso le Americhe.
Erano contadini e braccianti poveri e analfabeti e in gran parte delle regioni disperate del Sud.
In quelle traversate molti pagarono con la vita il sogno di una esistenza dignitosa. Salpavano in condizioni simili a quelle che oggi indignano e atterriscono.
Ecco cosa si legge nei documenti del Museo nazionale dell’emigrazione italiana: “Al trasporto dei migranti venivano assegnate le carrette del mare, con in media 23 anni di navigazione. Si trattava di piroscafi in disarmo, chiamati “vascelli della morte”, che non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano oltre 1.000, che partivano senza la certezza di arrivare a destinazione.
Nei “vascelli fantasma” la “merce” a bordo arrivava anche priva di vita a causa delle pessime condizioni igieniche e sanitarie”.
Le navi erano un inferno, stipate all’inverosimile, con terribili condizioni igieniche, pessimo vitto, spazi personali ridottissimi, niente aria, sporcizia, la promiscuità che spesso sfociava in violenze e epidemie. E furono molte le stragi non solo per i naufragi.
Sul piroscafo “Città di Torino” nel novembre 1905 contarono 45 morti su un totale di 600 imbarcati; sul “Matteo Brazzo” nel 1884 una ventina di morti per colera vennero gettati in mare e la nave fu respinta a cannonate a Montevideo per il timore di contagio; sul “Carlo Raggio” furono 18 i morti “per fame” nel 1888 e 206 “per malattia” nel 1894; sul “Cachar” segnarono 34 morti “per fame e asfissia” nel 1888; sul “Frisia” nel 1889 riportarono sul diario di bordo altri 27 morti “per asfissia” ma più di 300 quando sbarcarono erano in fin di vita; sul “Parà ” nel 1889 altri 34 morti; sul “Remo” 96 deceduti “per colera e difterite” nel 1893; sull'”Andrea Doria” 159 uccisi da malattie nel 1894; sul “Vincenzo Florio” 20 morti sempre nel 1894.
Le carrette degli oceani con a bordo la “tonnellata umana”, come definivano il carico di emigranti italiani, spesso affondavano. Ci fu la strage del 17 marzo 1891 con 576 italiani annegati, quasi tutti meridionali, per il naufragio dell'”Utopia” davanti al porto di Gibilterra.
Altri 549 colarono a picco con la “Bourgogne” al largo della Nuova Scozia il 4 luglio 1898, e 550 il 4 agosto 1906 annegarono del naufragio della “Sirio” in Spagna. Altri 600 connazionali affondarono con la “Principessa Mafalda” il 25 ottobre 1927 al largo del Brasile e erano piemontesi, liguri e veneti a bordo di una nave talmente usurata che aveva subito 11 guasti ai motori, alla pompa, all’asse dell’elica di sinistra che quando si sfilò ruotando per inerzia squarciò lo scafo e le porte stagne non funzionavano e i migranti e l’equipaggio furono inghiottiti dal mare.
Ellis Island era il centro di smistamento e di quarantena per i figli dell’Italia povera in attesa di metter piede a New York.
Era stato progettato e costruito per accogliere 500.000 immigrati all’anno, ma ne arrivavano il doppio. Le famiglie italiane venivano divise, uomini da una parte e donne e bambini dall’altra.
Gli “indesiderabili” e i malati li portavamo al secondo piano dove i medici dopo aver certificato alla buona la presenza di “malattie ripugnanti e contagiose” e “manifestazioni di pazzia” li contrassegnavano con una croce bianca sulla schiena e poi venivano reimbarcati verso il porto di origine.
Molti si tuffavano in mare e morivano finiti dagli squali mentre cercavano alla disperata di nuotare verso Manhattan, o si suicidavano piuttosto che ritornare a casa. Ellis Island prese così il nome di “Isola delle lacrime”.
Tanti superavano i controlli e la maggior parte degli immigrati italiani fece grande il New Jersey e gli Usa.
Nelle stive di un secolo dopo, ci sono altri migranti che sognano un futuro.
Ne hanno tutto il diritto, esattamente come i nostri nonni un secolo fa.
I migranti di ogni epoca sanno cosa li aspetta. Ci provano e ci riproveranno sempre a raggiungerlo perchè voltarsi indietro significa guardare le guerre e la fame e la sconfitta dei loro sogni.
(da “Huffingtonpost”)
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