SE NE VA FRANCO MARINI, IL “LUPO MARSICANO” EX PRESIDENTE DEL SENATO E LEADER CISL
SCOMPARSO ALL’ETA’ DI 87 ANNI
“Io il mare l’ho visto per la prima volta durante una gita dell’Azione cattolica a Silvi Marina. Il primo calcio a un pallone di cuoio l’ho dato nell’oratorio. I primi corteggiamenti li ho fatti nella mia parrocchia. Come potevo non essere democristiano?”.
E lo è stato per tutta la vita Franco Marini, uno degli ultimi cavalli di razza dello Scudocrociato, scomparso stanotte all’età di 87 anni stroncato dal Covid.
Lui stesso si raccontava così su Repubblica a Sebastiano Messina alla vigilia di una delle sue più importanti battaglie, l’elezione alla presidenza del Senato. Che fu anche una vittoria, ottenuta non senza patemi. Ma nella vita del “Lupo Marsicano”, (il soprannome che gli piaceva di più, forse perchè legato ai suoi monti abruzzesi), ci sono state anche pesanti sconfitte.
Nel 2008 per poco non divenne premier, ma la disfatta peggiore fu senz’altro quella che impedì all’alpino Marini di scalare l’ultima vetta, quella del Quirinale. Perchè a sbarrare il passo prima a lui e poi a Romano Prodi, non furono gli avversari ma il fuoco amico. Sarebbe stato, il Colle, il suggello di una vita spesa tutta dentro le istituzioni, la lunga carriera nei palazzi del potere di un uomo del popolo.
Le origini
Primo dei sette figli di Loreto, un operaio della Snia Viscosa, Marini nasce a San Pio Delle Camere, paesino di poche anime in provincia dell’Aquila, nel 1933. Sembra che sia stata la sua professoressa di lettere delle medie, a Rieti, a caldeggiare per lui liceo classico, un tempo riservato solo alle classi più agiate. A 17 anni prende la tessera della Dc, milita nelle Acli e nell’azione cattolica. Poi legge all’università e l’ingresso in Cisl. Il sindacato è la sua prima vera passione, in cui si getta anima e corpo appena finita la leva negli Alpini.
L’ingresso in Cisl
“Nella mia vita più di ogni altra cosa ho voluto diventare leader della Cisl” confidava spesso. Non fu semplice, perchè ci mise 20 anni prima di sedersi su quella poltrona. Un’ambizione nata fin da quando approda a Roma come funzionario dell’ufficio organizzativo: “Ero un giovane arrembante, mi davo da fare fino all’inverosimile, non mi perdevo neanche un’iniziativa, comprese quelle di congiura contro Storti” ammise in seguito. Tanto che l’allora segretario generale, scoperte le manovre, lo licenzia. L’estromissione però dura poco: Marini rientra nella Cisl nel 1965 grazie a uno dei suoi fondatori, Giulio Pastore. Vent’anni all’opposizione, due congressi persi, il Lupo Marsicano già in quegli anni dà prova di tenacia e capacità di mediazione. Stringe con Pierre Carniti un patto per la successione. E così nel 1985 conquista per la Dc il vertice dell’organizzazione.
“In quegli anni – spiegò in una intervista a Gianni Pennacchi – non era facile fare il moderato e il democristiano nel sindacato”. Si spende per ricucire l’unità sindacale con la Cgil dopo la rottura sul taglio della scala mobile, ma è un anticomunista viscerale: “Noi eravamo l’ala più a sinistra della Dc, la più vicina al mondo operaio, ma proprio per questo avevamo un rapporto molto competitivo con i comunisti”.
Non ha mai temuto il conflitto. Alle assise Dc del 1984 in un epica rissa sfidò l’allora leader Ciriaco De Mita. Ma in realtà il Lupo Marsicano si teneva lontano dai clamori, preferiva agire dietro le quinte senza dare neanche il tempo all’avversario di accorgersi che gli aveva dato scacco matto. “Franco è uno che ti uccide col silenziatore” diceva di lui Donat Cattin.
La pipa e le cravatte colorate
Amava andare al sodo, senza tanti giri di parole, mentre non gli piacevano i salotti, da cui si è tenuto sempre alla larga. Con i giornalisti era sbrigativo, minimizzava: “E mo’ vediamo…” rispondeva alle domande più incalzanti. Le sue vacanze frugali per molti anni sono state sempre le stesse: l’isola del Giglio, nella casa comprata con la moglie Luisa, scomparsa nel 2012, dove andava a trovarli il figlio. O le montagne abruzzesi della sua infanzia. Unici vizi la pipa e il toscano. Unico vezzo, negli anni del sindacato, le giacche e le cravatte colorate che gli valsero un altro soprannome, quello di “Scintillone”.
Dalla Dc al Pd, passando per la Margherita
Il suo esordio in politica fu un successo. Legato alla corrente Forze Nuove, quella che nella Dc era più vicina al mondo del lavoro, Marini ne eredita la guida alla morte di Donat Cattin nel 1991 e diventa ministro del Lavoro dell’ultimo governo Andreotti.
Nel 1992 si candida alla Camera e fa il pieno di voti: è il primo degli eletti con oltre 100 mila preferenze. Dopo Tangentopoli e il crollo del partito si schiera con Buttiglione per la guida del Ppi. Ma quando il politico filosofo stringe il patto con Berlusconi, Marini lo silura per affidare il partito a Gerardo Bianco.
Qualche anno dopo toccata lui guidare i Popolari e ingaggia un braccio di ferro con Romano Prodi resistendo al progetto dell’Ulivo, ma negò sempre l’esistenza di un complotto per far cadere il Professore. Con la stessa tenacia, una volta entrato nella Margherita, osteggia inizialmente la nascita del partito democratico, di cui poi invece divenne uno dei fondatori.
La presidenza del Senato nel 2006
Nel 2006, dopo una votazione notturna al cardiopalma, viene eletto presidente del Senato. È una sfida tra due ex grandi della Dc, perchè a perdere per un pugno di voti è Giulio Andreotti, sostenuto dalla Casa delle Libertà .
Durante quei venti mesi di governo dell’Unione al Senato se ne vedono di tutti i colori. La maggioranza ha solo due voti di vantaggio sul centrodestra, che in aula si scatena. Una volta Marini schiva per un pelo il libro del regolamento lanciatogli da qualche pasdaran della Cdl, spesso deve censurare gli insulti, con tanto di esibizione di pannoloni, contro la senatrice a vita Rita Levi Montalcini. Poi arriva la caduta di Prodi e il centrodestra festeggia in aula con champagne e mortadella. “Colleghi – grida – questa non è una osteria”
L’incarico esplorativo dopo il crollo di Prodi
Tocca proprio a lui poi provare a cercare una soluzione per il dopo Prodi. Alla fine del gennaio 2008 Giorgio Napolitano gli affida un incarico esplorativo per formare un nuovo governo finalizzato alla riforma elettorale. Ma il tentativo naufraga e si va ad elezioni.
La corsa al Quirinale
E arriva l’ultima battaglia. Nell’aprile 2013 Marini entra nella rosa di candidati che Bersani propone a Berlusconi per la presidenza della Repubblica. Il favore del Cavaliere ricade proprio su di lui, che diventa così il candidato di Pd, Pdl e Scelta civica. Ma le cose si mettono male da subito: all’assemblea dei grandi elettori del Pd la corsa del Lupo Marsicano passa con 220 sì, ma si contano ben 90 no e 21 astenuti. Renzi, che lo aveva già inserito tra i big da rottamare, lo ostacola apertamente: “Non lo votiamo, è un uomo del secolo scorso, ve lo immaginate con Obama?”. E così alla prima votazione è fumata è nera: oltre 200 franchi tiratori fermano Marini a quota 521, molto al di sotto della soglia dei 672 voti necessari. Ma più che sufficienti per essere eletti al quarto scrutinio. Al quale però non arrivò, nonostante la sua ostinazione. Il ruolo di nuova vittima sacrificale del centrosinistra toccò a Prodi, impallinato dai famosi 101. La ferita lasciò un segno profondo. Marini si sfogò contro quella operazione “volgare e ingiusta”. A Renzi non gliele mandò a dire: “Ha una ambizione smodata”.
Ma nonostante la disfatta si può dire che insieme a Bertinotti è stato uno dei pochissimi sindacalisti ad avere una carriera politica di primo piano. Marini era a suo agio sia quando doveva placare gli animi in una assemblea in fabbrica che quando doveva cimentarsi in un congresso di partito: “Ero capace di duellare al microfono, dare la caccia ai delegati e tenere le fila dell’organizzazione contemporaneamente. Poi – confidò – quando si cominciava a votare, io avevo già fatto quello che dovevo fare e andavo a dormire”
(da “La Repubblica”)
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