Giugno 10th, 2012 Riccardo Fucile
IN EUROPA LA DISOCCUPAZIONE SFIORA L’11%… ENERGIE RINNOVABILI ED EFFICIENZA ENERGETICA POTREBBERO RAPPRESENTARE LA SVOLTA: “UNA MIGLIORE GESTIONE DEI RIFIUTI PUO’ PORTARE 400.000 NUOVI POSTI DI LAVORO”
La soluzione alla disoccupazione galoppante in Europa non è mai stata così verde. 
Secondo l’Ocse puntare sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica vuol dire creare 5 milioni di posti di lavoro in più.
Possibile?
Secondo l’organismo internazionale con sede a Parigi, dal momento che per produrre energia in modo pulito e consumarla in modo efficiente ci vuole tecnologia e professionalità , bisogna investire in capitali e personale.
Il rapporto Ocse “The Jobs Potential of a Shift towards a low-carbon Economy”, presentato a Bruxelles, riprende quanto già detto lo scorso aprile dalla Commissione europea con il pacchetto impiego.
Adesso basta iniziare a crederci davvero.
Con il tasso di disoccupazione nell’Eurozona salito all’11% nel mese di aprile (+ 0,1% rispetto a marzo e +1,1% rispetto ad aprile 2011) una simile prospettiva fa a dir poco sperare.
Secondo Eurostat in un mese in Europa sono andati in fumo 110mila posti di lavoro, ovvero 1.797 lavoratori a casa in un anno.
Questo vuol dire che nell’Eurozona i disoccupati ad aprile erano 17.405 milioni (17.295 a marzo e 15.608 nell’aprile 2011).
Va leggermente meglio se prendiamo in considerazione tutti i Paesi Ue (compresa la miracolosa Polonia), con “solo” 24.667 milioni di senza lavoro (un tasso di disoccupazione al 10,3%).
Cifre da capogiro soprattutto nei Paesi del Sud: a guidare la la classifica ci pensa la Spagna con il 24,3% di disoccupati (+0,2% rispetto al mese precedente) e il 51,5% di senza lavoro tra i giovani sotto i 25 anni.
Ma anche l’insospettabile Francia non se la cava benissimo, con un 10,2% di senza lavoro (+0,1% in un mese).
Ed è proprio in un contesto come questo che le stime contenute dal rapporto dell’Ocse sembrano la luce fuori dal tunnel.
Secondo il prestigioso organismo internazionale, infatti, lo sviluppo delle energie rinnovabili e l’applicazione di singole misure per una maggiore efficienza energetica avrebbero il potenziale di creare fino a cinque milioni di nuovi posti di lavoro nella green economy entro il 2020.
A crederci primo fra tutti è Laszlo Andor, Commissario Ue all’Occupazione, che ieri ha presentato il rapporto insieme al Segretario generale Ocse, Yves Leterme.
“Abbiamo stimato che il potenziale occupazionale legato allo sviluppo delle energie rinnovabili è di tre milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2020 e quello legato all’attuazione di singole misure di efficienza energetica è di ulteriori due milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2020”, ha detto il commissario.
Partiamo dai rifiuti.
Secondo Andor, “solo una migliore gestione dei rifiuti potrebbe creare oltre 400mila posti di lavoro entro il 2020”.
Difficile non pensare all’Italia, visto che solo il 31 maggio la Commissione europea ha intimato al nostro Paese di “conformarsi entro due mesi” alle norme Ue per un adeguato pretrattamento dei rifiuti collocati nella discarica di Malagrotta (tra le più grandi d’Europa) e in altre nel Lazio. Questione che, dopo il caso Corcolle-Villa Adriana, sta ora creando scompiglio ad Anzio, località designata per i nuovi sversamenti. Insomma, mentre l’Ue stima che riciclaggio e compostaggio oltre che all’ambiente fanno bene anche all’impiego, l’Italia rischia di finire di fronte alla Corte di Giustizia visto che la discarica di Malagrotta “contiene rifiuti che non hanno subito il pretrattamento prescritto”.
Ma torniamo al rapporto Ocse.
Tre gli strumenti chiave suggeriti per innescare il circolo virtuoso in tutto il continente: supportare il ricollocamento dei lavoratori dalle imprese in crisi a quelle verdi in crescita; incentivare l’eco-innovazione e la diffusione delle tecnologie verdi rafforzando la formazione e impedendo che le normative siano un ostacolo; riformare il sistema fiscale e dei benefici per i lavoratori affinchè il costo delle politiche ambientali non diventi una barriera alle assunzioni.
E poi le previsioni della Commissione europea non si fermano qui.
Secondo Bruxelles, infatti, una riduzione del 17% del fabbisogno di materie prime a livello Ue potrebbe creare tra 1,4 e 2,8 milioni di posti di lavoro entro il 2025, così come il riciclo di “materie chiave” potrebbe aggiungerne altri 560mila.
“Il rapporto Ocse conferma che la crescita verde sarà uno dei motori principali del cambiamento strutturale nella nostra economia”, ha concluso il commissario Andor.
“Il greening dell’economia europea sta già creando dei posti di lavoro in alcuni settori chiave come le energie rinnovabili e la costrizione di impianti di efficienza energetica. E continuerà a farlo nei prossimi decenni”, ha aggiunto Leterme.
Adesso la parola passa ai governi nazionali.
Alessio Pisanò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 10th, 2012 Riccardo Fucile
SIAMO AL PENULTIMO POSTO IN EUROPA PER INVESTIMENTI NELLA RICERCA…MINOR LAVORO, MINORI TUTELE E MINORE ISTRUZIONE PER TUTTI
Si dice che, qualche giorno fa, in visita alla piazza dei Mestieri, a Torino, il ministro del Welfare Elsa Fornero abbia incontrato gli studenti della scuola professionale di via Durandi nei laboratori di panetteria e pasticceria.
E che, con sensibilità e partecipazione, si sia intrattenuta nelle cucine colpita dall’intraprendenza culinaria delle studenti.
Certo, magari non tutti (o tutte) gradiscono l’entusiasmo del tecnico Fornero per l’agilità delle ventenni in cambusa.
Fatto sta che alla fine della visita, mentre la pasta lievitava e le frittate facevano le capriole, il ministro ha incoraggiato le studenti così: “Imparare un mestiere, una professione, oggi è importante”, ha detto. “Non è detto che tutti debbano avere una laurea, magari di malavoglia” […]. “Questa è una scuola che recupera molto in questo senso, […] e quindi tanto di cappello” .
Era da un po’ che non ascoltavamo una frase così.
Come è noto la scarsa commestibilità della cultura era uno dei principali crucci del vecchio governo.
Basta con le lauree inutili, ripeteva Mariastella Gelmini.
I giovani hanno “l’intelligenza nelle mani”, assicurava l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi.
“È meglio un carrozziere che un laureato in nulla”, continuava il sociologo Giuseppe De Rita. “A che serve pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe più belle del mondo?”, cantava sorridente l’ex presidente del Consiglio.
Se l’allergia all’istruzione era un tratto distintivo del vecchio governo, nessuno si sarebbe atteso dal governo dei professori la stessa freddezza.
E invece le parole del ministro Fornero esplicitano ciò che da mesi era chiaro: che vi è un’infelice continuità nelle politiche degli ultimi due governi in tema di istruzione e di investimento in ricerca e sviluppo, al punto che, a meno di un repentino cambio di rotta, il paese rischia di regredire in entrambi i settori a livello del Sud del mondo.
Facciamo un passo indietro.
Basta sfogliare il rapporto Ocse Education at a Glance 2011 e l’ultimo rapporto Almalaurea per convincersi della gravità del problema.
L’Italia è uno dei paesi occidentali con il minor numero di laureati, e quei pochi che ci sono sono già troppi per il mercato italiano.
Pare una contraddizione e invece è un dato importante, perchè la contrazione della quota di occupati ad alta specializzazione in un momento di crisi è non solo in controtendenza rispetto a quanto avviene negli altri paesi occidentali, ma è il sintomo di una struttura produttiva che affida la propria permanenza sul mercato esclusivamente alla compressione dei costi di lavoro.
Oggi i diciannovenni sono quasi il 40 per cento in meno del 1984, e purtuttavia solo il 20 per cento dei giovani tra i 23 e i 34 anni si laurea, contro il 37 per cento dei Paesi Ocse. Non solo, ma il numero degli immatricolati continua a scendere, mentre aumenta il numero dei laureati che emigra. Siamo forse così dinamici da poterci permettere di condannare le nuove generazioni all’esodo?
Ora, la crescente difficoltà occupazionale dei laureati non è un problema solo italiano. Ne parla tutto il mondo, che la definisce “bolla formativa”, il fenomeno per cui la contrazione nel tasso occupazionale è andata di pari passo con la crescita diffusa della generazione più istruita della storia.
Ottima risorsa in un momento di crisi, verrebbe da dire.
Fatto sta che mentre l’unico caposaldo politico condiviso da Washington a Berlino è la necessità d’investire in istruzione come vettore della ripresa sociale, in Italia si è scelta una strada originale.
Se guardiamo ai dati Ocse rielaborati dal Ceris nel rapporto Scienza e tecnologia in cifre, vediamo, infatti, che l’Italia è penultima nella spesa per ricerca e sviluppo rispetto agli altri paesi europei, ultima quanto a personale addetto alla ricerca nelle imprese, penultima quanto a percentuale di ricercatori in rapporto al totale degli occupati, terzultima per personale ricercatore nelle università .
A fronte di una retorica sempre più asfittica di merito e innovazione, i dati Almalaurea ci dicono che nel settore privato lavora in buona parte personale che ha conseguito solo il titolo della scuola dell’obbligo, chi ha una laurea specialistica fa più fatica a trovare lavoro rispetto a chi ha una laurea triennale, e le retribuzioni reali di chi ha una laurea specialistica sono più basse rispetto alle retribuzioni reali di chi ha una laurea triennale, il contrario di ciò che la logica vorrebbe.
In tutto questo, quali sono le soluzioni?
Stando alle ultime novità del ministero del Lavoro e del ministero dell’Istruzione, penso alla riforma del lavoro e alla controversa bozza di decreto sul merito, la risposta è più precarietà e meno tutele nel lavoro, più retorica e meno borse di studio nell’istruzione. Maggiore “sinergia tra l’università e le imprese”, dunque?
Certo, ma al ribasso: minore lavoro, minori tutele e minore istruzione per tutti.
Forse la Fornero ha ragione a cantare le lodi del lavoro manuale.
Spiace solo che sia l’unica prospettiva concreta che è stata in grado di offrire.
Francesca Coin (sociologa, Università di Venezia)
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 10th, 2012 Riccardo Fucile
TORNA L’INCUBO DI UN COLLASSO DEL SISTEMA CREDITIZIO: RIDUZIONE DI 600 MILIARDI DI EURO… IN ITALIA FLESSIONE DI 44 MILIARDI, PARI AL 10%
Ci stiamo di nuovo avvicinando al precipizio. 
A quel collasso del sistema creditizio che è stato sfiorato lo scorso autunno e che solo gli interventi straordinari delle banche centrali sono riusciti a rimandare ma non a scongiurare del tutto.
L’allarme arriva dalla Banca dei regolamenti internazionali, una sorta di “banca centrale delle banche centrali”, che ha ricostruito quanto accaduto nei giorni più incandescenti dell’autunno 2011.
E che, soprattutto, non esclude che a breve possa andare di nuovo in scena lo stesso horror finanziario visto appena 6 mesi fa.
La trama ce la ricordano alcune cifre del Rapporto diffuso da pochi giorni. Assetate di liquidità , in preda ad una crisi di nervi, le banche di tutto il mondo hanno ridotto i loro prestiti internazionali per 799 miliardi di dollari (circa 615 miliardi di euro, ndr). Soprattutto questo prosciugamento del credito è avvenuto ad una velocità tale da avere come unico precedente le settimane immediatamente successive al fallimento di Lehman Brothers.
La stretta ha riguardato soprattutto il mercato interbancario, ossia i prestiti tra le stesse banche, dove in men che non si dica sono “spariti” 637 miliardi di dollari (490 mld di euro).
Nell’area euro, in particolare, i finanziamenti tra istituti sono diminuiti di 364 miliardi di dollari (280 miliardi di euro) con un calo di quasi il 6%.
Una specie di corsa agli sportelli tra banche che in Italia è stata ancora più spericolata con un calo di 57 miliardi di dollari (44 mld di euro) pari a quasi il 10% dei prestiti in essere.
E mentre gli istituti italiani facevano rientrare in tutta fretta i loro prestiti, le banche straniere riducevano a loro volta l’esposizione verso l’Italia tagliandola di 55 miliardi di dollari (42 mld di euro) e scaricando sul mercato titoli di Stato per un ammontare pari a 32 miliardi (24 mld di euro).
Angelo Baglioni, economista dell’Università Cattolica di Milano, commenta: “La crisi della liquidità dello scorso è stata effettivamente molto pesante con un mercato interbancario che è arrivato a fermarsi quasi completamente come era accaduto nel 2008”.
“In particolare, spiega Baglioni, l’accesso ai finanziamenti in dollari era del tutto bloccato”.
L’operatività dei mercati è stata mantenuta solo grazie agli interventi coordinati delle banche centrali che hanno messo a disposizione dollari in abbondanza. Poi l’operazione della Bce con il prestito triennale all’1% da 500 miliardi di euro ha ridato ossigeno al sistema.
Un successo che però è solo a metà fa notare il docente della Cattolica visto che “inizialmente le banche hanno faticosamente ripreso a prestarsi soldi tra di loro ma dallo scorso aprile stiamo assistendo ad una nuova paralisi dell’interbancario ”.
Un fenomeno rilevato anche nel rapporto della Bri che mette in luce come i benefici effetti della “cura Draghi” stiano ormai svanendo mentre i mercati sono di nuovo in preda a forte volatilità e nervosismo.
Cosa servirebbe allora adesso per scongiurare il ripetersi di una situazione da allarme rosso?
Secondo Baglioni gli elementi chiave sono due.
Da un lato i governi del Vecchio Continenti dovrebbero smetterla di marciare in ordine sparso ma adottare finalmente una strategia comune che vada in direzione di una maggiore integrazione e che venga chiaramente esposta ai mercati.
Dall’altro la Bce dovrebbe “togliersi i guanti” ed iniziare ad intervenire massicciamente sul mercato dei titoli di Stato mettendo in chiaro l’intenzione di porre un limite all’allargamento degli spread.
Su questo fronte, conclude Baglioni, Francoforte è stata sin qui troppo timida e ha accompagnato ogni azione di acquisto di titoli italiani, spagnoli o, in minor misura, francesi con dichiarazioni tese a sminuire la portata dei suoi interventi.
Ora che però il gioco torna a farsi duro non è più tempo di mezze misure.
Mauro Del Corno
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 10th, 2012 Riccardo Fucile
UN MARE DI SOLDI CHE NON HA GENERATO SVILUPPO… ORA TOCCA ALLE BANCHE SPAGNOLE RICEVERE TRA 40 E 80 MILIARDI
“Tra il 2008 e il 2011 la Commissione europea ha approvato aiuti di Stato a favore delle banche per 4.500 miliardi di euro”.
A rendere pubblica questa cifra impressionante è stato il Commissario Ue al Mercato interno Michel Barnier alla presentazione della proposta della Commissione di prevenzione e gestione delle crisi bancarie.
Una montagna di soldi che equivale al 37% del Pil dell’intera Unione europea.
E dopo tre anni di aiuti a pioggia la crisi bancaria è tutt’altro che risolta.
La prossima sulla lista degli aiutini è la spagnola Bankia, che insieme ad altri istituti del Paese sembra aver bisogno di almeno 40 miliardi di euro.
Nel frattempo imprese e aziende chiudono e i cittadini di mezza Europa fanno i conti con tagli e tasse aggiuntive.
Le cifre le dà il Commissario Barnier a Bruxelles.
Mille miliardi di euro sono le perdite subite dalle banche europee tra 2007 e 2010 (8% del Pil dell’Unione), 4500 gli aiuti di Stato concessi dalla Commissione europea agli istituti di credito (37% del Pil).
A questo bisogna aggiungere una contrazione del 6% della produzione totale dell’Ue (dati Eurostat) dovuta principalmente alla crisi finanziaria.
Insomma il quadro è perfetto.
Una cosa ormai è evidente a tutti: questa crisi economica nasce, si sviluppa e continua in seno all’attuale sistema bancario internazionale.
Colossi del calibro di Bear Sterns e Lehman Brothers (Stati Uniti) e Northern Rock, HBOS e Bradford and Bingley (Gran Bretagna) hanno causato un’ondata di crisi globale che ha investito tutto il mondo e che continua ad effetto domino.
Inutili gli interventi europei a suon di cash a RBS, Bradford e Lloyds (Gran Bretagna), KBC Group (Belgio), Bayern LB e Commerzbank (Germania), Allied Irish Banks e Bank of Ireland (Irlanda) e Cajasur (Spagna).
La crisi passa da istituto a istituto, da Paese a Paese, ma stenta ad estinguersi.
Un’indiscrezione pubblicata oggi dal quotidiano spagnolo Abc riferisce che secondo il Fondo monetario internazionale Fmi servirebbero tra i 40 e 80 miliardi di euro per il salvataggio delle banche spagnole, prime fra tutte Bankia, il quarto istituto di credito del Paese.
23 i miliardi che Madrid, dopo aver tagliato ormai da per tutto (comprese regioni e ministeri), si appresta a iniettare nel circuito creditizio nazionale.
E dire che gli aiuti di Stato, in tutti gli altri settori dell’economia reale, sono vietati dal trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Questo perchè, secondo Bruxelles, “favorendo alcune imprese a scapito dei concorrenti, questi aiuti di Stato possono falsare la concorrenza”.
Ecco allora che il 30 marzo scorso, ad esempio, l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia Ue per un pacchetto di finanziamenti concessi ad alcuni albergatori sardi, dichiarato illegittimo da Bruxelles e mai recuperato da Roma.
Oppure ecco la condanna di 30 milioni di euro arrivata nel novembre 2011 per non aver recuperato gli aiuti per contratti di formazione lavoro elargiti a centinaia di aziende in forma di sgravi fiscali.
Ma questo discorso per le banche non vale. Alcune deroghe, infatti, autorizzano “gli aiuti che siano giustificati da obiettivi di comune interesse, ad esempio gli aiuti destinati a servizi d’interesse economico generale”.
Vallo a dire a chi ha dovuto chiudere l’attività per fallimento o a chi per pagare l’Imu dovrà fare i salti mortali.
Eppure quando a Francoforte Mario Draghi si è rifiutato di tagliare ulteriormente i tassi d’interesse della Bce (oggi al record storico dell’1 per cento) qualcuno si è arrabbiato. Come se le aste trimestrali dell’Eurotower a prezzi stracciati fossero poco, soldi intascati a miliardi dagli istituti di credito nei mesi scorsi e senza alcun vincolo.
C’è arrivato perfino Tremonti, che lo scorso febbraio attaccava: “Se sei un Governo devi pagare il 5-6% ma la Banca Centrale Europea alle banche regala capitali all’1%. Con quell’1% per tre anni le banche possono fare quello che vogliono. E’ chiaro che se regalano i soldi per un po’ stai ancora in piedi”.
Eppure a qualcuno ieri questo 1 per cento d’interesse è sembrato troppo.
“Non deve più ripetersi che a pagare per le banche siano i contribuenti”, ha detto ieri Barnier. E menomale.
Proprio per questo la Commissione europea ha presentato ieri una proposta di prevenzione e gestione di eventuali crisi bancarie proponendo un modello europeo. Prevenzione, gestione coordinata, supervisione dell’Autorità bancaria europea e fondi di salvataggio finanziati dalle banche stesse (anche se qui ci si è limitati ad un misero 1 per cento dei depositi coperti in dieci anni).
“La crisi finanziaria ha avuto un costo elevato per i contribuenti”, ha osservato argutamente Barnier.
“Dobbiamo dotare le autorità pubbliche degli strumenti necessari per gestire adeguatamente eventuali future crisi bancarie. In caso contrario, toccherà ancora una volta ai cittadini pagare il conto, mentre le banche continueranno ad agire come prima, sapendo che, se necessario, saranno nuovamente salvate”.
Alessio Pisanò
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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