Giugno 6th, 2012 Riccardo Fucile
OCCUPATA PER PROTESTA DA SINDACO, AVVOCATI E CITTADINI LA SEDE DELL’UFFICIO GIUDIZIARIO: “RIMARREMO QUA FIN QUANDO IL MINISTERO NON REVOCHERA’ LA DECISIONE”
Una volta si occupavano le scuole, le fabbriche, le strade.
A Lamezia Terme, invece, le barricate si alzano in difesa del tribunale, quel palazzo di giustizia che rischia di essere soppresso in nome della “spending review” che, al netto del giro di parole, significa tagli alla spesa pubblica.
Un territorio di “soli” 140mila abitanti e un numero di magistrati in servizio inferiore a 20, secondo gli esperti del Guardasigilli, non sarebbero sufficienti a giustificare la presenza di un tribunale che potrebbe essere accorpato a quello di Catanzaro, sede della Direzione distrettuale antimafia e della Corte d’appello per le cause istruite a Lamezia.
Piccolo particolare: la rimodulazione degli uffici giudiziari non ha tenuto in considerazione la produttività del tribunale, ma soprattutto il fatto che siamo in terra di ‘ndrangheta, in un territorio in cui, da diversi anni, è ripresa la faida tra le cosche mafiose Giampà e Torcasio.
Si spara sulle saracinesche dei negozi, si mettono bombe.
Il parroco antimafia don Panizza viene intimidito un giorno sì e l’altro pure.
E lo Stato che fa?
Decide di sopprimere un ufficio che il 14 agosto compirà 150 anni.
Era il 1862, infatti, quando fu istituito con un decreto regio. Lamezia Terme è la terza città della Calabria per numero di abitanti ed è una delle capitali economiche dell’intera regione.
Se il Tribunale dovesse essere chiuso, undici sindaci del comprensorio si dimetteranno in blocco.
Si sono ritrovati nei giorni scorsi a Piazza Repubblica, dove si affaccia il palazzo di giustizia, per manifestare il proprio “no” all’ipotesi di una scellerata revisione degli uffici giudiziari. In testa, il primo cittadino di Lamezia Terme, Giannetto Speranza, che ha definito il tribunale “presidio di legalità sul territorio”.
Motivo per il quale ieri il sindaco è passato ai fatti depositando dal notaio le sue dimissioni condizionate, ma irrevocabili, alla decisione del governo sul futuro del tribunale che dovrebbe avvenire entro qualche mese.
“Se Monti — spiega il sindaco — confermerà la linea di Berlusconi e verrà eliminato il Tribunale di Lamezia, io me ne sono già andato. Però fino all’ultimo faccio la mia battaglia. Non esiste che in Italia si possa riorganizzare la giustizia sulla base di criteri venuti fuori per combinazione. Lamezia è l’area centrale della Calabria. Da questo punto di vista, le mie dimissioni non sono una minaccia campanilistica nei confronti di un governo che tiene in vita tribunali che non hanno storia, in zone dove non c’è la criminalità che abbiamo in Calabria. Se a Lamezia lo tolgono, significa che non posso fare più il sindaco. Che possibilità c’ho di combattere la cultura mafiosa?”.
Riflessioni che Giannetto Speranza ha già rappresentato personalmente ai ministri Cancellieri, Barca e Catania e che, il 27 aprile scorso, sono state al centro di una lettera al Guardasigilli Severino, a cui ha fatto presente che “un approccio puramente ‘matematico’ non può risolvere il grave problema del deficit di giustizia e di legalità che vive una realtà di frontiera come la Calabria”.
Piuttosto servirebbe “un rafforzamento di risorse e di organico”.
È un tribunale che funziona. Da giorni ormai, il presidente Pino Spadaro lo sta ripetendo. Durante un’assemblea pubblica ha smentito le teorie sui criteri alla base dei tagli programmati da via Arenula: “La produttività dei magistrati lametini, in base al numero di provvedimenti giudiziari emessi, è superiore alla media del distretto e addirittura alla media nazionale”.
Dal Ministero si cerca di raffreddare gli animi: “Nessuna decisione è presa. La pratica è in istruttoria”.
Non basta per interrompere lo stato di agitazione promosso dal presidente degli avvocati Gianfranco Barbieri e dal comitato civico “Salviamo il nostro tribunale di Lamezia Terme”, guidato dall’avvocato Tommaso Colloca che, per protesta, assieme a una ventina di colleghi ha occupato il palazzo di giustizia all’ingresso del quale, oltre a una bara a simboleggiare la morte di un’istituzione, è stato allestito un gazebo per sensibilizzare i cittadini che già in quindicimila hanno firmato un documento per scongiurare provvedimenti drastici del governo.
Ci sono stati anche alcuni momenti di tensione.
Lunedì sera è intervenuta la celere per liberare il palazzo.
Alcuni avvocati, quindi, sono stati identificati dalla polizia di Stato che, paradossalmente, potrebbe segnalarli alla stessa autorità giudiziaria che stanno cercando di difendere.
Nel frattempo l’occupazione è stata sospesa, ma rimane il presidio davanti alla piazza. “Non ce ne andiamo — dicono quanti occupano — fino a quando dal ministero della Giustizia non arriverà la conferma è stata abbandonata l’idea di sopprimere il tribunale”.
Lucio Musolino
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 6th, 2012 Riccardo Fucile
RAPPORTO CONFINDUSTRIA: SIAMO PASSATI DALL’OTTAVA ALLA QUINTA POSIZIONE… IN 20 ANNI L’EXPORT DEI PRODOTTI ITALIANI E’ CALATO DAL 21,5% AL 13,9%
L’Italia che arretra, che soffoca, che arranca.
E in più la “botta micidiale” del terremoto in Emilia Romagna.
Il centro studi di Confindustria fotografa un Paese in difficoltà profonda. La recessione, un “feroce” credit crunch, la bassa redditività mettono in ginocchio il paese.
E la produzione manifatturiera scivola da quinta a ottava scavalcata da India, Brasile e Corea Sud.
In questo modo è rischio “la stessa sopravvivenza” di “parti importanti dell’industria”. Nel rapporto di giugno sugli scenari industriali si rileva come il sisma rende tutto più difficile in “un’area ad altissima vocazione manifatturiera e cruciale per lo sviluppo industriale del Paese”.
Ad aggravare tutto c’è “la violenta stretta al credito” che “è tra le principali cause del nuovo arretramento e fa mancare alle imprese l’ossigeno necessario a resistere, in presenza di una redditività media che ha raggiunto ulteriori minimi”.
Le imprese italiane denunciano un “alto grado di inerzia”: tra il 2000 ed il 2010 la quota di aziende che non ha accresciuto la propria dimensione è stato pari al 66% del complesso.
Soltanto il 16% infatti è riuscito ad ingrandirsi mentre la crisi ha costretto ad un ridimensionamento il 18%.
Gli economisti di Viale dell’Astronomia avvertono che “la ricaduta in recessione mette a repentaglio l’industria italiana” e che “per rafforzare il manifatturiero, motore della crescita attraverso l’innovazione, è tornata strategica la politica industriale”.
Che è un punto debole del nostro Paese, rileva il capo del centro studi di Confindustria, Luca Paolazzi, per i limiti legati alle “inefficienze della pubblica amministrazione” ed alla mancanza di “governi dalla visione di lungo periodo”.
Gli altri paesi invece vanno avanti, c’è una “scalata degli emergenti” e nella classifica per produzione manifatturiera il nostro paese con una quota che scende dal 4,5 al 3,3% dal 2007 al 2011, passa dalla quinta all’ottava posizione, superata appunto da India, Brasile e Corea del Sud”.
In testa è salda la Cina. Perdono quota di produzione gli Stati Uniti (-3,9 punti), Francia e Regno Unito (entrambi -0.9) Spagna (-0,7) e Canada (-0,4).
Crescono di più Cina (7,7 punti), India, Indonesia.
Nel complesso l’Ue cala dal 27,1% al 21%.
”La specializzazione merceologica del made in Italy cambia”. Quello che è sempre stato il simbolo del made in Italy, i “beni legati alla moda”, dal 1991 al 2011 perde quota dal 21,5% al 13,9% dell’export.
Mentre, per esempio, “i prodotti con maggiore intensità tecnologica ed economie di scala sono saliti dal 60,8 al 66,9%”, nonostante “una debacle per computer e elettrodomestici”.
L’appello di Fulvio Conti, nuovo vice presidente del Ccs, è di “far ripartire la nostra economia. E’ una sfida che richiede di tornare a pensare in maniera strategica, puntare sugli investimenti di lungo periodo, soprattutto in infrastrutture e innovazione, e di riequilibrare il carico fiscale per favorire investimenti e una ripresa dei consumi”.
Il nostro è un “Paese lento”, a “cui manca una visione di lungo periodo”, e “manca un progetto Paese che identifichi le priorità e le linee di sviluppo”.
Nel manufatturiero cuore pulsante dell’economia “servono massicci investimenti“. Serve una politica industriale moderna, dunque, come quella messa in campo ,dicono ancora gli economisti di Confindustria, dai paesi avanzati ma anche da quelli emergenti “dotati di una visione chiara e di un disegno coerente nel tempo”.
Una politica che “faccia ricorso soprattutto alle leve dal lato della domanda” ma che sopratutto faccia tesoro dei “difetti” di un interventismo ed evitino cioè “la dispersione e l’accavallamento delle iniziative; la moltiplicazione di enti erogatori, programmi, obiettivi e strumenti; scarsità delle analisi di impatto e di costi benefici prima, durante e dopo gli interventi; “cattura” delle autorità da parte delle lobby; utilizzo elettoralistico dei fondi”.
Difetti da cui, appunto, dice il Csc, sono rimasti immuni Germania, Usa, Giappone e le economie dell’est asiatico.
Ma non solo. L’ulteriore allungamento dei tempi di pagamento della pubblica amministrazione ha aggravato la situazione finanziaria delle imprese italiane.
Si è giunti, secondo il rapporto, a 180 giorni nel primo trimestre 2012, dai 128 giorni del 2009. “In altre economie è avvenuto il contrario: i tempi di pagamento della Pa sono stati accorciati in Francia a 65 giorni e in Germania a 36 giorni”.
Per il Csc, inoltre, “resta alto il rischio che il credit crunch prosegua nei prossimi anni”, nonostante “gli straordinari interventi attuati dalla Banca centrale europea“.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 6th, 2012 Riccardo Fucile
FATTURATO CRESCIUTO DEL 4% E DI 4,5 MILIARDI DI EURO, MA L’UTILE E’ SCESO DA 285 A 171 MILIONI DI EURO… CALATO IL RISULTATO OPERATIVO, DIMEZZATI I MARGINI DI FATTURATO, UTILE GRAZIE SOLO AI PROVENTI FINANZIARI
Parmalat formato Lactalis non convince.
Un anno fa, quando i signori francesi del latte e dei latticini presero il controllo del gruppo di Parma, sostituendo il risanatore, Enrico Bondi, avevano speso parole (poche, a dire il vero, perchè la comunicazione del gruppo è ridotta all’osso) per promettere il rilancio industriale di Parmalat: sinergie, innovazioni e più ne ha, più ne metta.
E’ trascorso un anno, appunto, ma il minimo che si possa dire è che le aspettative siano state disattese.
Pochi giorni fa sono stati pubblicati i conti 2011 di Parmalat. Non proprio entusiasmanti.
Il fatturato è cresciuto del 4% a 4,5 miliardi di euro.
Ma l’utile netto è sceso da 285 a 170,9 milioni di euro (e i profitti derivano solo dai proventi finanziari).
E in effetti è soprattutto la gestione industriale a deludere, sulla quale, invece, i francesi dovevano fare faville: è calato il risultato operativo (da 344 a 199 milioni) e i margini sul fatturato sono stati quasi dimezzati (passando dal 6,5 al 3,8 per cento).
E dire che Emmanuel Besnier, il padrone (misterioso) di Lactalis, aveva annunciato l’intenzione di trasformare Parmalat nel gigante europeo del latte confezionato.
Quella volontà era stata inserita anche nel prospetto dell’Opa, alla quale Lactalis era stata costretta per fagocitare Parmalat.
In realtà pochi sforzi, all’apparenza, sono stati fatti in questo senso. I francesi si sono concentrati su altro. Sulla finanza, prima di tutto.
L’ultimo esempio è rappresentato dall’acquisizione controversa, il mese scorso, delle attività americane di Lactalis da parte di Parmalat, utilizzando già la metà di quel “tesoretto” di circa 1,5 miliardi, messi insieme da Bondi nelle casse del gruppo italiano.
L’attuale presidente Francesco Tatò lo ha definito, all’assemblea dove sono stati approvati i conti annui, la scorsa settimana, “un buon affare”.
Ma il rappresentante del fondo Amber, azionista con l’1,97%, ha parlato di “operazioni infragruppo non corrette, nè sul piano formale nè su quello sostanziale, che sembrano mirate a realizzare più l’interesse del gruppo di controllo che di tutti gli azionisti”.
Perchè a incassare la metà del famoso tesoretto sono stati, appunto, i francesi di Lactalis, che cedevano quegli asset statunitensi.
D’altra parte nell’autunno scorso già Mediobanca aveva fatto notare che il gruppo avrebbe potuto avere difficoltà a rimborsare le varie tranche di debito che aveva dovuto contrarre per “digerire” l’Opa.
Ecco il modo più semplice per fare cassa: succhiare dai bilanci della controllata italiana.
Fin dagli inizi, su Lactalis si sono accumulate storie (o forse mitologie) che hanno fuorviato rispetto a una corretta valutazione del nuovo padrone di Parmalat, numero uno del latte in Europa. In Italia qualcuno si è fato delle illusioni.
O non ha voluto guardare in faccia la realtà . Lactalis è una multinazionale, ma anche un gruppo familiare al 100%, nelle mani di Emmanuel Besnier e dei due fratelli (questo permette loro di non avere l’obbligo a pubblicare i conti del gruppo, compresi quelli sul pesantissimo indebitamento).
Creato dal nulla dal nonno, nella città di Laval, nella Mayenne, Francia profonda dell’Ovest, il gruppo resta ancora radicato in quella zona. Emmanuel Besnier (che non si fa mai intervistare e fotografare il meno possibile) vive lì, frequenta ristoranti economici e lo si vede in giro su una Mazda grigia.
Tutto faceva pensare all’imprenditore di altri tempi (ma ha solo 41 anni), concentrato sul prodotto, con la testa assorbita dagli sviluppi industriali e basta.
Le cose non stavano propriamente così.
Dal 2000, quando Michel Besnier, il patriarca, morì all’improvviso, il giovanissimo Emmanuel, che si ritrovò con le redini in mano, già brillante studente di business, si lanciò in una frenetica corsa alle acquisizioni in tutto il mondo, oltre che di concorrenti francesi nel proprio settore: marchi e marchi, poi tutti uniformizzati. Comprati indebitandosi.
Insomma, industriale puro fino a un certo punto: uomo di finanza, soprattutto.
Un anno fa, quando Lactalis fu costretta a lanciare l’Opa su Parmalat, fu obbligata anche a fornire qualche dettaglio sulla propria salute finanziaria, compreso sui debiti che, si scoprì, ammontavano (allora) a ben sette miliardi di euro.
Qualcuno cominciò a pensare che i francesi, affamati di liquidità , più che ad altro fossero interessati solo al famoso “tesoretto”.
Leonardo Martinelli
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 6th, 2012 Riccardo Fucile
L’UOMO SCORTA DELLA PRESIDENTE DEL SINDACATO PADANO, FAMOSO PER LA LAUREA TAROCCO IN ALBANIA E PER AVER INCISO KOOLY NOODY, NON SI FA MANCARE NULLA… ACQUISTA IMMMOBILI IN PRESTIGIOSE LOCATION
Una casetta in Sardegna e una sul lago Maggiore.
Pierangelo Moscagiuro, in arte Pier Mosca, uomo scorta di Rosi Mauro divenuto famoso per aver conseguito un diploma di laurea in Albania assieme al Trota più che per aver inciso Kooly Noody, non si è fatto mancare niente.
In un anno e mezzo “il gigolò della Mauro” (come lo definisce Nadia Dagrada) ha acquistato un appartamento ad Arzachena e uno a Leggiuno, davanti a Stresa.
La casa è a poche centinaia di metri dalla villa-rifugio di Eugenio Cefis, padre padrone della Montedison, oggi di proprietà della famiglia Kennedy.
Qui vivono anche le sorelle Pivetti ed è un feudo bossiano: a tre chilometri, a Brenta, ha la cascina Roberto Bossi e con altri cinque minuti di auto si raggiunge Gemonio, capitale del fu Cerchio Magico.
A Leggiuno, per dire, la Lega ha candidato senza troppi timori Fabio Betti, l’amico del Trota con cui inventò il videogame “spara all’immigrato”.
Qui Moscagiuro ha acquistato casa con terrazza vista lago il 2 aprile scorso, in pieno scandalo Lega.
Mentre Rosi Mauro veniva cacciata dal partito, Umberto Bossi riceveva l’avviso di garanzia e i pm di Milano, Napoli e Reggio Calabria rincorrevano Francesco Belsito e i lingotti d’oro e i diamanti che mancavano all’appello, il cantante Pier Mosca si sedeva nello studio del notaio Enrico Somma e consegnava un assegno da 40 mila euro al proprietario dell’appartamento di circa 60 metri quadri con altrettanti di terrazza.
Ma l’abitazione in realtà “è costata complessivamente 120 mila euro”, dice Augusto M., marito della venditrice che oggi sta ristrutturando la casa con la sua azienda edile. Appena diciotto mesi prima Moscagiuro aveva firmato un altro contratto.
Questa volta per un appartamento in Sardegna, a Cala Bitta, comune di Arzachena: ingresso, cucina, bagno, due camere, terrazzo e veranda per 192 mila euro di cui 170 mila con mutuo.
Gli oltre trecentomila euro, secondo i pm, sono troppi per un agente di Polizia.
Per questo i pm stanno ricostruendo i movimenti bancari del cantante body guard. Anche perchè ci sono diverse intercettazioni che avvalorano l’ipotesi che quei fondi siano arrivati dalle casse della Lega Nord.
A partire da una telefonata del febbraio 2012 tra Nadia Dagrada e Francesco Belsito. “Il mutuo l’ho fatto anche a lui — dice l’ex tesoriere — con la Bnl del Senato”.
È dovuto intervenire, spiega Belsito, perchè “questa casa mi sembra che costasse 150 o 180 e lui non aveva il reddito”.
E del resto è a Belsito che la stessa Rosi Mauro si rivolge per caldeggiare la copertura delle spese.
C’è in particolare una telefonata tra i due il 22 gennaio 2012 in cui la senatrice, preoccupata dalle inchieste avviate dalla magistratura sui conti del partito, sprona Belsito a muoversi senza perdere tempo.
“Comunque Francè, se adesso puoi, ricordati di fare quella cosa che ti ho detto l’altro giorno a voce. (…) Succinta, così da fare in questo momento perchè dopo non potrai più, perchè se no addio”.
Ma il tesoriere è preoccupato. “No .. no, ma lo faccio diversamente adesso”, risponde. Ma Rosi Mauro ribatte: “No ma … purtroppo è urgente eh”.
La vicepresidente del Senato torna alla carica l’8 febbraio e Belsito la rassicura: “L’operazione quella tua, l’ho fatta dal Napoli (banco di Napoli) eh (…) perchè quello lì non viene neanche visto (…) lì non vanno a vedere”, si dice convinto Belsito.
Ma i pm ovviamente l’hanno smentito e hanno richiesto tutti i movimenti bancari anche del deposito aperto alla filiale del banco di Napoli.
Da qui potrebbero essere partiti i fondi diretti al conto corrente presso la Bnl al Senato da cui sono arrivati gli assegni versati nel luglio 2010 per la casa in Sardegna e ad aprile 2012 per quella sul lago Maggiore.
E da lì dovrebbero arrivarne ancora altri: sì perchè la ristrutturazione della casa a Leggiuno sarà pagata solo al termine dei lavori.
Moscagiuro deve versare ancora 80 mila euro, stando a quanto sostiene il venditore dell’abitazione.
Ma certo Pier Mosca potrebbe incidere un nuovo disco, confidando di non bissare il successo di Kooly Noody.
Davide Vecchi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 6th, 2012 Riccardo Fucile
NOMINATI BIANCHI CLERICI E SORO, RICONFERMATO MARTUSCIELLO: DECISIONE SENZA RISPONDERE AD ALCUN CRITERIO DI TRASPARENZA.. CRITICHE DA IDV, SEL, RADICALI E GRANATA (FLI)
Sono Maurizio Decina e Antonio Martusciello i due componenti all’Agcom eletti oggi dal Parlamento su indicazione di Pd e Pdl. I due (il primo è ordinario al Politecnico di Torino, il secondo, ex sottosegretario del governo Berlusconi, era già membro dell’Agcom) hanno raccolto rispettivamente 166 e 148 voti.
Alla Privacy sono stati nominati invece Giovanna Bianchi Clerici e Antonello Soro. La Clerici, consigliere d’amministrazione Rai uscente e candidata dalla Lega e Pdl, ha ottenuto 179 voti, mentre l’ex capogruppo del Pd alla Camera 167.
Stefano Quintarelli, che si era autocandidato all’Agcom con una campagna condotta prevalentemente online, ha raccolto invece 15 preferenze.
Il Parlamento ha scelto infine con 322 voti Giuseppe Lauricella quale nuovo componente del Consiglio superiore della Giustizia amministrativa.
L’esito delle urne ha confermato la tenuta dell’accordo siglato ieri tra i partiti di maggioranza malgrado le dichiarazioni della vigilia sulla necessità della massima trasparenza e dell’autonomia da assicurare alle authority.
Non c’è stata infatti alcuna audizione nelle Commissioni parlamentari per vagliare i candidati.
Un metodo che ha scatenato indignazione non solo all’esterno (“i partiti scelgono i 4 di Agcom e Privacy senza trasparenza ora che la priorità sarebbe la fiducia degli elettori…”, ha commentato lo scrittore Roberto Saviano su Twitter), ma anche dentro al Parlamento.
Durissime critiche arrivano in particolare dall’Idv, ma malumori si registrano comunque in tutte gli schieramenti e il voto è stato disertato da un largo numero di parlamentari, anche se non è semplice distinguere tra assenze politiche e assenze “normali”.
“Noi vogliamo parlare con quella parte di Pd che si era presentato come partito nuovo, quello che corrisponde alle battaglie di Arturo Parisi, quello dei cittadini”, ha spiegato il leader dell’Idv parlando nel corso di una conferenza stampa alla Camera per annunciare la non partecipazione al voto. “Poi c’è un Pd delle dirigenze, degli accordi tra gruppi di potere, un Pd che si è calato le braghe per convenienza e connivenza sull’Agcom”.
Sì è data la possibilità di presentare dei curricula, “solo che questi curricula poi sono stati utilizzati come carta da cesso, non gliene è fregato niente, nessuno li ha letti”.
E le decisione di nominare i componenti delle authority sono state fatti “a monte” ancor prima “che arrivassero tutti i curricula, in una logica spartitoria dei partiti della cosiddetta maggioranza.
Una valutazione che pare condivisa anche dal terzo partner della foto, il leader di Sel Nichi Vendola, presente anche lui questa mattina alla conferenza stampa. “E’ una pagina nera che per me può pesare moltissimo sulla scena politica italiana”, ha detto il presidente della Puglia puntando il dito contro il comportamento del Pd.
Sia l’Idv che i Radicali hanno deciso quindi che non parteciperanno al voto.
Ha poi annunciato l’intenzione di disertare l’aula anche il parlamentare di Fli Fabio Granata. “Non parteciperò alla votazione per i due componenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni poichè il metodo seguito per l’individuazione dei candidati ritengo non sia in linea con la richiesta di qualità e trasparenza che l’importante organismo pretende”.
(da “La Repubblica”)
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Giugno 6th, 2012 Riccardo Fucile
RIDUZIONE DEL PARCO AUTO PER 2 MILIONI, DIMEZZATE LE SEDI LOCALI DELLA POSTALE, RIDUZIONI PER LA FERROVIARIA E LA STRADALE… VIA LIBERA AGLI SPACCIATORI DI PALLE
E ora che si entra più nel dettaglio della «spending review» al ministero dell’Interno, ecco la dolorosa verità .
La polizia di Stato è chiamata a risparmiare 65 milioni di euro dal proprio bilancio con un’operazione chirurgica di riorganizzazione.
«Non si tocchi il sistema della sicurezza», è il mantra che viene dai piani alti del ministero.
Già , ma intanto si taglierebbero le sezioni distaccate della polizia postale della metà .
Per fare un esempio, nel Lazio sarebbero di fatto chiuse le sezioni di Rieti, Viterbo, Frosinone e Latina; resterebbero operative solo quelle di Roma e del compartimento del Lazio.
Lo stesso nelle altre regioni dove resterebbero operative quelle delle grandi città , dei compartimenti, e dove c’è una direzione distrettuale antimafia.
La riorganizzazione viene spiegata dal successo delle indagini telematiche che non hanno bisogno di un ufficio fisico in ogni capoluogo.
Stessi tagli ai presidi della polizia ferroviaria, che ha una pianta organica legata a una realtà delle ferrovie ormai desueta.
E della polizia stradale, anch’essa ferma alla rete stradale degli anni Sessanta.
Ci saranno molti accorpamenti tra distaccamenti.
Da queste operazioni su polizia postale, stradale e ferroviaria si prevede di recuperare 6 milioni di euro. E non è affatto scongiurata la chiusura di 17 prefetture minori (e questure), anzi.
E ancora: 56 milioni di euro dovrebbero venire dal mancato ripianamento delle piante organiche per il personale tecnico-scientifico; la Scuola Superiore di Polizia finirà in seno alla Direzione Centrale per gli Istituti di Istruzione; 2 milioni di euro dovrebbero essere recuperati dal trasferimento del Centro elaborazione dati presso la sede di Napoli; 1 milione di euro verrà dalla riduzione del parco auto, passando in dieci anni dagli attuali 22 mila a 18 mila mezzi.
Una terza azione di risparmio verrà dal coordinamento tra polizia e carabinieri.
Si sta procedendo a una revisione drastica e concordata del naviglio: là dove resterà il presidio di un corpo andrà via l’altro e viceversa.
Ma ci si attende anche un congruo risparmio, in termini di costi e di procedure, da un’abile riscrittura dei contratti di approvvigionamento.
I contratti infatti resteranno «aperti», il che vuol dire che per determinati acquisti-fotocopia, che siano auto di servizio o pistole o divise, un corpo di polizia potrà approfittare in un secondo momento del contratto predisposto dai cugini.
Alla sola notizia che si mette mano alle prefetture e ai presidi di polizia, però, è sollevazione dei sindacati.
«Il perdurare del silenzio del ministro – scrivono – può soltanto alimentare il sospetto che la “spending review” possa risolversi esclusivamente nell’ennesimo taglio lineare piuttosto che in una riorganizzazione efficiente ed efficace».
Chi, dopo i tagli di 2,5 miliardi voluti dal governo Berlusconi, sperava che almeno questa volta si affrontasse il problema sicurezza in termini diversi, rimarrà insomma deluso.
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Giugno 6th, 2012 Riccardo Fucile
IL BUCO IN COMUNE NON E’ DI 600 MILIONI MA DI OLTRE 1 MILIARDO
L’unica cosa a cinque stelle, nel senso d’eccellenza, per ora sono i debiti.
Da vertigine.
La relazione che il commissario prefettizio Mario Ciclosi ha lasciato sul tavolo del sindaco grillino Federico Pizzarotti, prima di cedergli l’ufficio di piazza Garibaldi, farebbe tremare i polsi a manager di altro pelo: figurarsi al discepolo di Grillo, che qualche pizzicotto ancora se lo dà per metabolizzare l’idea di essere il padrone di Parma.
Seicento milioni il rosso lasciato dalla precedente giunta Vignali? Magari! Il buco certificato dal commissario, al netto delle interpretazioni contabili, oscilla tra gli 846 milioni e, se si considerano anche le partecipate, 1 miliardo e 199 milioni.
Crudele, a dir poco, chi ora accusa il sindaco Pizzarotti, che questi numeri horror li ha in mano da una settimana, di aver aspettato solo ieri prima di renderli pubblici: «Poveretto, il tempo di riprendersi…» ironizzano sotto i Portici del Grano.
Già , il tempo. Sta diventando un’ ossessione per questo esperto di informatica, dipendente di una banca a Reggio Emilia, catapultato dalle urne al vertice di una città che, alla crisi mondiale, ha aggiunto sciagurate varianti locali.
Tutti a stargli addosso: e allora, questa giunta? E l’inceneritore? E quando fiorisce il grillismo in salsa parmigiana?
D’accordo, in 11 giorni di fascia tricolore si è visto praticamente niente, se si esclude la scelta dell’assessore al bilancio, Gino Capelli, 48 anni, subito fulminato dal consigliere pd, Massimo Iotti: «Un esperto di diritto fallimentare: incoraggiante con i debiti che ci sono…».
Però bisogna capirli: avevano comprato un biglietto del treno e si sono ritrovati padroni delle Ferrovie. «Non ce l’ aspettavamo, ma vi stupiremo…» dice Mauro Nuzzo, uno dei 20 consiglieri comunali che vigilano come pretoriani sul sindaco in rodaggio.
Che a sua volta assicura: «A giorni presenteremo la giunta». Forse sabato. Sicuramente entro il 14 giugno: lo impone la legge.
«Le 5 Stelle già brillano meno…» malignano in certi ambienti un po’snob.
Magari non è così. Però che qualcosa si sia incartato è evidente.
Dei super consulenti sbandierati prima del ballottaggio, nomi di spessore come Loretta Napoleoni, economista di fama internazionale, Maurizio Pallante, esperto di energia ecologica, o l’analista finanziario Pierluigi Paoletti, non c’è traccia.
«Non ci vogliono mettere la faccia, troppo rischioso…» sibilano dal Pd, che ancora non si è ripreso dalla sconfitta e ha il dente avvelenato.
In posizione defilata, Arrigo Allegri e Pietro De Angelis, i due avvocati della crociata contro l’inceneritore (sul cui azzeramento, promesso da Pizzarotti, pende una penale da 180 milioni).
Il toto-assessori, poi, è stato un susseguirsi di corto circuiti. A parte la retromarcia su Valentino Tavolazzi, stimato da Pizzarotti ma espulso da Grillo, per la Cultura sono stati sparati tre nomi, bruciandoli tutti e tre e offrendo il fianco alle opposizioni: «Gente della casta: e sarebbe il nuovo?».
Macchinosa anche l’idea dei curriculum online per la scelta degli assessori.
I grillini assicurano che «i colloqui sono in corso». Ma perfino il Pdl, che pur di differenziarsi dal Pd promette un’opposizione soft («Guarderemo i fatti»), storce il naso: «In un assessore conta la capacità politica» dice Paolo Buzzi.
Gli industriali? Ruvido il presidente Giovanni Borri: «Il Comune saldi i debiti con le aziende».
Mai però come il re del cemento, Paolo Pizzarotti, che, come riporta il sito Linkiesta, liquida così i proclami ecologici del sindaco omonimo: «Cose folli, qui, c’è la crisi…». Diplomatica la famiglia Barilla: «C’è bisogno di buona amministrazione».
Parma si dà di gomito. C’è chi prevede un tonfo a cinque stelle.
E chi scommette sul Grillo salvatore: «Qualcosa si inventerà : se fallisce qui, gli salta il banco..»
Francesco Alberti
(da “Il Corriere della Sera”)
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Giugno 6th, 2012 Riccardo Fucile
I TIMORI DEL PD: IL VOTO E L’OPA DI “REPUBBLICA”… VOTO IN AUTUNNO? D’ALEMA SCOMUNICA FASSINA
Sarà anche una ennesima leggenda metropolitana, ma un dirigente che ci ha parlato pochi giorni fa racconta una ennesima, sublime (e terrificante) battuta di Massimo D’Alema.
Un’altra perla nel filone inaugurato fastosamente con l’aforisma disincantato: “La sinistra è un male. Solo l’esistenza della destra rende questo male tollerabile”.
Un filone poi arricchito con quell’altra sentenza distillata a Gargonza (il direttore di Left, Giommaria Monti le chiama Massimae D’Alemae) che nel 1997 fece indignare Umberto Eco: “Vedo che discutete con molta passione della vittoria della sinistra. Ma forse non avete notato che nel 1996 la Destra ha vinto. Vi siete accorti che Casa delle libertà Ccd e Lega, anche se divisi, hanno la maggioranza dei voti”.
Ieri, fedele alla linea, ha definito “sciocchezza politica” l’idea di andare al voto a ottobre.
Il pensiero meridiano e l’esprit de paradoxe dell’ex premier raccontano il grande caos dentro il Pd. E anche il problema delle alleanze, la sfiducia atavica nella foto di Vasto, il bisogno continuo di corteggiare Pierferdinando Casini e il tentativo di puntellarsi con delle protesi elettorali.
Il primo problema si è aperto quando il Corriere della sera (ed stato un terremoto) ha bruciato a Pierluigi Bersani la mossa a sorpresa: annunciare solennemente l’intenzione di candidarsi alle primarie, e bilanciare il suo cipiglio di apparatnick emiliano con la proposta di una “lista Saviano”, in cui il Pd cede parte della sua sovranità e del suo peso elettorale per eleggere intellettuali ed esponenti della società civile.
Un passo a lungo ponderato.
Per un anno Bersani ha fuggito le primarie temendo che gli precludessero le possibilità di alleanza con Casini.
Adesso Casini sposta la sua vela a destra, forse pensando di raccogliere le spoglie del Pdl, persino Luchino Cordero di Montezemolo cambia l’asse della sua fondazione Futura pensando di entrare in quell’area, e allora Bersani capisce che deve muoversi, per essere pronto a tutto se i tecnici dovessero collassare prima del tempo.
Ieri il segretario del Pd ribadiva: “Il nostro impegno è sostenere il governo fino alla fine della legislatura”.
Mentre si prepara ad annunciare le primarie e la sua candidatura, probabilmente per il 13 e 14 ottobre.
Ma ciò che gonfia le vele dei giovani cyberlaburisti Fassina e Orfini è un malessere sempre più diffuso: sindaci, amministratori, presidenti di regione, dirigenti intermedi non ne possono più degli strafalcioni dei tecnici.
Persino un deputato come Beppe Fioroni ieri alla Camera si sfogava con Agazio Loiero: “Questi sono pazzi . Profumo si inventa questa cazzata della riforma meritocratica, e poi fa sparire tutti i soldi per la formazione. Lo dicano che vogliono smantellare quello che ho fatto e costruire la scuola pubblica dei morti di fame”.
Lo scoop della Meli, che rivela la disponibilità di Bersani all’apparentamento con una lista civica espone questa proposta al fuoco amico dei dirigenti imbufaliti, e a due giorni dalla direzione il primo (e più delicato annuncio) viene intaccato dalla dichiarazione di Ezio Mauro a Otto e mezzo: “Non faccio operazioni di lobby, ma se il Pd vuole diventare forte deve rendersi scalabile e contendibile”.
Il che come minimo è una dichiarazione di sfiducia.
Ma a qualcuno la cosa non va giù. E ieri Francesco Boccia sfoderava il suo sarcasmo: “Non vedo l’ora di vederla all’opera in mezzo alle masse questa lista così civile della De Gregorio e del professor Zagrebelsky, non vedo l’ora di vederli a raccattare voti nei mercati discettando sulle riforme costituzionali…”.
Intorno a Boccia si fa subito capannello: “Io, al contrario di questi editorialisti, da 23 anni in poi ho presentato 18 dichiarazioni dei redditi, altro che Casta! Davvero — conclude il deputato lettiano — qualcuno crede che i radical chic e gli intellettuali del gruppo Espresso faranno sfracelli?”.
Schizzi di umore nero, che molti condividono.
A questo quadro va aggiunto tutto quello che si mormora in queste ore nel Palazzo. Ad esempio che Giorgio Napolitano vedrebbe con molto piacere un ruolo di primo piano per Fabrizio Barca, ministro con il cuore a sinistra (e anche l’araldo familiare). Solo chiacchiere?
L’idea di un papa straniero aleggia da molto tempo nell’aria.
E quindi, alla luce di quello che si muove, la sortita di Mauro fa preoccupare alcuni dirigenti del Pd molto più di quella di Scalfari.
Perchè se ciò che scrive Scalfari è un discorso che rafforza la leadership di Bersani, o almeno la sua proposta, quello che dice Mauro alla Gruber, mette in dubbio la conduzione del partito.
Venerdì Bersani dovrà combattere con le sue correnti. E con tutti i fantasmi che popolano le sue (possibili) liste.
Luca Telese blog
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Giugno 6th, 2012 Riccardo Fucile
IDV 7,8%, UDC 6,8%, SEL 6,3% LEGA 4,8%, FED. SINISTRA 2,7%, FUTURO E LIBERTA’ 2,5%, LA DESTRA 1,3%
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