Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile
NELLA SPENDING REVIEW L’IPOTESI DI UN ABBASSAMENTO DEL VALORE DEI TICKET A 5,29 EURO PER I DIPENDENTI PUBBLICI… TUTTO PER UN RISPARMIO DI APPENA 10 MILIONI
L’ipotesi sarebbe contenuta nel pacchetto Spending Review su cui sta lavorando alacremente il super-commissario (ex liquidatore Parmalat) Enrico Bondi: ridurre a 5,29 euro l’importo dei buoni pasto per oltre 450 mila dipendenti pubblici di amministrazioni centrali e periferiche (gli statali).
L’asticella finora esentasse dei buoni pasto, quella fino alla quale l’importo è de-fiscalizzato per il lavoratore (per cui non viene denunciato ai fini Irpef) e de-contribuito per il datore lavoro (ai fini previdenziali).
L’ASTICELLA
Imporre a tutti questa cifra-tagliola significa risparmiare circa 10 milioni di euro in termini di spesa pubblica e si sa – in tempi di vacche magre – trovare nuove fonti di risparmio per scongiurare l’aumento dell’Iva di due punti percentuali (dal 21 al 23%) è la missione esistenziale del dream ticket Giarda (il ministro che per primo ha tentato di elaborare una fotografia puntuale della spesa delle amministrazioni pubbliche) e appunto Bondi, chiamato a trovare quei 4,2 miliardi di euro entro la fine dell’anno (al netto degli effetti nefasti post-terremoto in Emilia) per rispettare la road map imposta da Bruxelles in modo da raggiungere il pareggio di bilancio tra tre anni.
Eppure incidere sui centri di spesa (ammesso che la voce buoni-pasto rappresenti il simbolo dello sperpero pubblico) sta provocando una vera e propria levata di scudi di Anseb, l’associazione di società emittitrici di buoni pasto, e di Fipe (la Federazione Italiana Pubblici Esercizi), che rappresenta gli interessi di chi è a valle della filiera, appunto gli esercenti che ottengono il buono pasto come carta-moneta e corrispondono in cambio almeno un pasto per il dipendente che ne fa uso.
LA RIDUZIONE
Questa presunta riduzione di almeno due euro (una parte dei dipendenti pubblici è in possesso di un ticket con valore facciale compreso tra i 7 e gli 8 euro) «significa tornare al valore di acquisto di 15 anni fa e quindi togliere fisicamente il pane dalla bocca a tanti lavoratori senza far risparmiare in maniera significativa lo Stato», dice il presidente dell’Anseb, Franco Tumino.
Di più: sarebbe un’ulteriore misura deprimente per i consumi, dato il suo effettivo sostegno alle famiglie (una sorta di benefit dal forte contenuto sociale, tanto da poter spesso essere utilizzato come moneta corrente in supermercati e centri commerciali), un simbolo di welfare aziendale, soprattutto capace di generare un indotto da circa 3,4 miliardi di euro all’anno «perfettamente tracciato, con indubbi benefici anche per l’erario», rincara Tumino.
Tanto che il buono pasto obbliga ad una fatturazione finale per ottenere il pagamento del suo valore dalla società emittitrice, che permette di garantire 306 milioni di euro di Pil e 438 milioni di euro di risorse fiscali per l’erario ogni anno (stima sul 2013).
LO STUDIO
E colpisce il perfetto timing, con il quale un recente studio dell’università Bocconi ha denunciato il cortocircuito di cui soffre da 15 anni il settore dei buoni pasto, l’unico escluso dal naturale meccanismo di adeguamento all’inflazione (tipico, per esempio, dei contratti di lavoro collettivi e di quelli di locazione).
Secondo questa analisi un eventuale aumento dell’esenzione a 8 euro (cifra che compenserebbe il rincaro dei prezzi degli alimenti di questi ultimi 15 anni cresciuti di circa il 50%) genererebbe un innalzamento del 3,24% del potere d’acquisto per oltre 2,3 milioni di lavoratori.
Ora il governo – sull’altare del risparmio e della razionalizzazione della spesa – fa dietrofront e sacrifica ulteriormente questo benefit per i dipendenti pubblici, già colpiti dal mancato adeguamento all’inflazione dei contratti collettivi, sancito dalle ultime manovre finanziarie.
«Riducendo i volumi di questo mercato e penalizzando tutto l’indotto», segnala Tumino.
Tutto per dieci milioni di euro.
Quasi la retribuzione di un grand commis di Stato, che magari ha accumulato diversi incarichi e percepisce svariati emolumenti.
Fabio Savelli
(da “Il Corriere della Sera“)
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Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile
IL 20% PROPONE INCENTIVI CHE NE AGEVOLINO IL RITORNO AL LAVORO
Negli ultimi giorni, in contemporanea con il procedere della faticosa approvazione del provvedimento sul lavoro redatto da Elsa Fornero (che continua a provocare polemiche e proteste su più fronti, ma per il quale tutti concordano in una necessità di approvazione entro fine mese), sono entrate nel dibattito politico due questioni, sempre relative alla tematica del lavoro, che hanno suscitato dibattiti piuttosto accesi. 1) Il problema degli esodati.
Come si sa, si tratta di chi, avendo sottoscritto degli accordi di uscita anticipata dal lavoro in vista della prossima pensione, ha visto l’avvio di quest’ultima improvvisamente spostato in avanti per effetto del provvedimento Fornero. Trovandosi quindi, per un periodo più o meno lungo, senza lavoro e senza pensione. La polemica è subito divampata, sia sulla stima del numero dei soggetti interessati (per la quale la discussione è ancora in corso) sia, specialmente, sulla natura (e sull’opportunità ) dei provvedimenti da prendere in favore di questa categoria.
Secondo alcuni, va comunque garantito agli esodati il diritto alla pensione nei tempi previsti prima del provvedimento Fornero, poichè è in vista di quella scadenza che essi avevano in buona fede sottoscritto i loro accordi.
Altri sono di parere diverso, ricordando specialmente che molte altre persone, specie i più giovani, sono state comunque danneggiate dalle nuove norme e suggerendo quindi al massimo un aiuto al reinserimento lavorativo degli esodati, senza garantire loro condizioni privilegiate di pensionamento secondo le nuove norme.
La maggioranza assoluta della popolazione (72%) condivide la prima posizione, che sollecita la necessità che lo Stato aiuti sostanzialmente gli esodati, garantendo loro il diritto alla pensione.
Si tratta, secondo alcuni commentatori, della riproposizione di una visione assistenziale dello Stato ormai incompatibile con l’attuale momento di crisi: ma essa è condivisa dalla gran parte dell’elettorato di tutti i partiti politici. In misura solo di poco più accentuata dai votanti per le forze del centrosinistra (ove il favore alla concessione della pensione raggiunge il 75%) e quasi altrettanto elevata tra gli elettori del centrodestra (favorevoli al 70%).
Una quota minoritaria, ma abbastanza consistente (poco più di un italiano su cinque) ritiene invece auspicabile che gli esodati vengano aiutati favorendo un loro nuovo inserimento nel mercato del lavoro: lo pensano in particolare le persone di età più elevata. Infine, solo una esigua minoranza propone di abbandonare gli esodati al loro destino
2) La proposta, avanzata dal sottosegretario Polillo, di rinunciare a una settimana di ferie in modo da provocare, a suo avviso, un incremento del Pil attorno all’1%.
Ancora una volta, una parte minoritaria, ma consistente, di italiani (poco più di uno su cinque) si dichiara senz’altro favorevole.
Questo atteggiamento è relativamente più diffuso tra i meno giovani, tra i laureati e tra gli elettori delle forze di centrodestra.
A questo gruppo vanno forse affiancati quanti (la maggioranza relativa, il 36% della popolazione) offrono comunque, in questo momento di crisi, la loro apertura, ma solo a patto che si tratti di un provvedimento temporaneo.
È questa l’ipotesi più considerata dai votanti per il centrosinistra.
C’è anche chi (13%) accetterebbe una riduzione delle ferie solo di fronte alla prospettiva del licenziamento.
E chi (27%) in ogni caso rifiuta l’idea di vedersi diminuire i giorni di ferie. Quest’ultima posizione è più diffusa tra le persone di età compresa tra i 30 e i 50 anni, i residenti nei grandi comuni e i votanti per Sinistra ecologia e libertà (ma, in una certa misura, anche tra quelli della Lega).
Nell’insieme, dunque, le risposte degli italiani suggeriscono l’esistenza, per una parte rilevante della popolazione, di una certa disponibilità a fare sacrifici per aiutare il Paese a uscire dalla crisi. Anche se, secondo la gran parte dei commentatori, l’eventuale riduzione delle ferie non è il provvedimento più opportuno ed efficace in questo momento.
(da “Il Corriere della Sera“)
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Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile
STIPENDI DI 64.000 EURO E BONUS LAVANDERIA E DI PENNA…CONTI IN ROSSO E PRIVILEGI DELLA SOCIETA’ DEGLI AUTORI E DEGLI EDITORI
Per far sentire i propri dipendenti come in famiglia la Siae non ha rivali: pensa anche al bucato.
Chi va in missione può far lavare e stirare camicie e mutande a spese dell’azienda. Dieci euro e 91 centesimi vale la speciale «indennità lavanderia» quotidiana che scatta in busta paga dopo il quarto giorno passato fuori sede.
Quanti lo ritengono un privilegio anacronistico non sanno che la Società degli autori ed editori è anche tecnicamente un gruppo familiare.
Al 42 per cento.
Nel senso che ben 527 dei 1.257 assunti a tempo indeterminato (il 42 per cento del totale, appunto) vantano legami di famiglia o di conoscenza.
Ci sono figli, nipoti, mariti e mogli di dipendenti ed ex dipendenti. Ma anche congiunti di mandatari (cioè gli esattori dei diritti) di sindacalisti e perfino di soci.
E poi rampolli di compositori e parolieri, perfino delle guardie incaricate della vigilanza nella sede centrale.
La lista è sterminata, con intrecci che attraversano ogni categoria.
Dei 559 entrati alla Siae durante gli anni per chiamata diretta, ben 268 sono parenti. Idem 57 dei 128 reclutati tramite il collocamento obbligatorio.
E 55 dei 154 che hanno superato le selezioni speciali.
Ma perfino 147 dei 416 assunti per concorso hanno rapporti di parentela.
I nomi dicono poco o nulla. Ciò che importa è che in questo clan familiare gigantesco finora tutto sia filato liscio, senza bisogno di mettere nulla per iscritto.
Ecco spiegato perchè alla Siae non esiste nemmeno un contratto di lavoro vero e proprio. I rapporti fra l’azienda e i dipendenti, come hanno toccato con mano il commissario Gian Luigi Rondi, i suoi due vice Mario Stella Richter e Domenico Luca Scordino, nonchè i loro collaboratori, sono regolati da micro accordi che hanno determinato condizioni senza alcun paragone in realtà aziendali di questo Paese. Cominciando dallo stipendio: 64 mila euro in media per i dipendenti e 158 mila per i dirigenti.
Con un sistema di automatismi che fa lievitare le buste paga a ritmi biennali fra il 7,5 e l’8,5 per cento.
Per non parlare della giungla dei benefit che prevede, oltre alla già citata indennità per il bucato, quella che in Siae viene chiamata in modo stravagante «indennità di penna». Altro non è che una somma mensile, da un minimo di 53 a un massimo di 159 euro, riconosciuta a tutto il personale per il passaggio dalla «penna» al computer.
C’è poi il «premio di operosità », la gratifica per l’Epifania, tre giorni di franchigia per malattia senza obbligo di certificato medico, 36 giorni di ferie…
Le conseguenze?
Sono nelle cifre delle perdite operative accusate dalla Siae negli ultimi anni: 21,4 milioni nel 2006, 34,6 nel 2007, 20,1 nel 2008, 20,9 nel 2009, 27,2 nel 2010.
Cifre cui dà il suo piccolo contributo anche il costo del contenzioso.
Perchè si litiga anche nelle migliori famiglie. Nonostante condizioni di favore che non hanno eguali nel panorama degli enti pubblici o parapubblici, negli ultimi cinque anni i dipendenti della Siae hanno attivato 189 cause di lavoro.
Con un costo medio per l’azienda di un milione 469 mila euro l’anno.
Insomma, un bagno di sangue. Del quale ancora non si vede la fine.
I commissari hanno tagliato 2,8 milioni di spese generali e un milione e mezzo di costi della dirigenza, sperando poi di risparmiarne altri 3 rivedendo gli accordi con i mandatari: un groviglio di 605 agenzie disseminate irrazionalmente sul territorio con dimensioni medie ridicole, se si pensa che il ricavo medio di ciascuna è di 128 mila euro l’anno.
Ma il vero problema è quello del personale, perchè finora tutti tentativi di normalizzare la situazione applicando un qualsiasi contratto di lavoro sono miseramente naufragati nella melma di uno stato d’agitazione proclamato dai sindacati interni.
La questione fa il paio con la vicenda del Fondo pensioni, istituito nel 1951, che deve provvedere al pagamento degli assegni di quiescenza del personale ed è una delle cause principali del dissesto che ha portato un anno fa al commissariamento. Ha un patrimonio interamente investito in immobili, con un valore di mercato di 205 milioni.
Ma che non rende praticamente nulla. Tanto che finora, per riuscire a pagare le pensioni, la Siae ha dovuto mettere costantemente mano al portafoglio, aggravando non poco il proprio conto economico.
Basta dire che il Fondo ha assorbito 130 milioni di contributi aziendali, con la previsione di ingoiarne altri 60 nei prossimi dieci anni.
Nel tentativo di rimetterlo in sesto, e anche in conseguenza delle nuove regole sugli investimenti degli enti previdenziali, sono stati istituiti due fondi immobiliari.
Il che ha scombinato i piani di vendita di alcuni stabili di proprietà della Siae a condizioni favorevolissime: minimo anticipo e dilazioni di pagamento quarantennali. Parliamo degli immobili a destinazione residenziale occupati fra l’altro dai dipendenti della Società degli autori ed editori.
Che hanno una caratteristica comune: su 37 affittuari, 34 sono sindacalisti.
Fra di loro figura anche il contabile dello stesso Fondo pensioni. Si tratta di Roberto Belli, responsabile della Slc-Cgil nonchè fratello di una dipendente attualmente in servizio e di una ex dipendente Siae (rispettivamente Antonella e Patrizia Belli), destinatario di una recentissima e sorprendente contestazione disciplinare.
Il 13 giugno la direzione generale gli ha spedito una lettera dove si dice che una verifica condotta dalla Ria&partners, la società di revisione del bilancio del Fondo, ha fatto saltare fuori alcuni bonifici per un totale di 30 mila euro che insieme ad alcuni assegni e versamenti, c’è scritto, «non risultano autorizzati e non trovano riscontro nelle registrazioni contabili».
Denaro, dicono i documenti bancari, trasferito dal conto Bancoposta del Fondo stesso ai conti correnti bancari personali di Belli e della sua compagna. Inevitabile, adesso, la richiesta di spiegazioni convincenti.
Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera“)
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Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DELL’OSSERVATORIO DI BOLOGNA CONTESTA I NUMERI FORNITI DALL’INAIL
«Non chiamatele morti bianche», dice Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze, riferendosi alle morti sul lavoro.
«Fa pensare che non ci siano colpevoli, che sia una cosa pulita, e non è mai così». Marco, come Carlo Soricelli che ha creato l’Osservatorio Indipendente morti sul lavoro, ha lottato tutta la vita per la sicurezza sul lavoro.
Entrambi, fino a un mese fa, erano considerati due teste calde. Due persone che insistevano sui numeri delle morti, mentre i dati ufficiali Inail dicono una cosa diversa: le morti sono in diminuzione, anno dopo anno.
Il 20 maggio è cambiato tutto: da quella domenica mattina in cui il terremoto ha fatto crollare i capannoni in Emilia uccidendo quattro operai.
A giugno le morti sul lavoro sono già 45, e tra l’otto e l’undici del mese sono morte 17 persone in quattro giorni.
L’allarme scatta in tutta Italia: il 15 giugno un’interrogazione in regione Abruzzo, a Brescia il primato italiano con 10 decessi dall’inizio dell’anno.
La Cgil di Alessandria lancia l’allarme per nove morti nel 2012 nella sola provincia, mentre a Salerno la Cisl segnala tre morti in otto giorni.
Nel Lazio i morti sono 12, e la regione propone una legge per la sicurezza sui cantieri. In Puglia, invece, il direttore regionale dell’Inail spiega che il calo dei decessi va letto alla luce della diminuzione della forza lavoro.
Insomma, non si muore meno sul lavoro ma si lavora meno, o in nero. E anche i dati dell’Inail sarebbero sbagliati: «Secondo i dati del mio Osservatorio nel 2011 le vittime sono aumentate dell’11 per cento», spiega Carlo Soricelli.
La discrepanza è dovuta a categorie intere che non vengono conteggiate dall’ente, perchè non assicurate.
Agricoltori pensionati che muoiono sotto i trattori, militari, forze dell’ordine, pendolari, persone che si spostano per raggiungere il luogo lavoro.
Non ci sono solo i dati
C’è un legame fra queste vicende, una sottile linea rossa che unisce le morti bianche: gli incidenti mortali si ripetono, a distanza di mesi.
E’ successo alla metro di Roma, alla Saras dei Moratti. E’ successo nei capannoni del terremoto. Perchè la legge non tutela a dovere, e le sanzioni sui responsabili non sono adeguate.
La pensa così l’Unione Europea: pochi mesi fa proprio Marco Bazzoni ha scritto una petizione alla Commissione, per denunciare le inefficienze italiane sulle morti nel lavoro.
Bruxelles ha risposto: l’Italia non ha ancora recepito le normative comunitarie per la sicurezza sul lavoro, e ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia.
I dati sulle morti non corrispondono
I dati dell’Osservatorio di Soricelli, che è diventato oggi un punto di riferimento, non coincidono con quelli dell’Inail.
Secondo i dati Inail, nel 2011 ci sono stati 930 morti sul lavoro, con un calo del 4,4 % rispetto al 2010.
Secondo l’Osservatorio le morti nel 2011 sono state invece 1170. «I dati Inail sono sottostimati di circa il 20% ogni anno perchè monitorano solo i propri assicurati», spiega Soricelli.
Sono tante le categorie che rimangono fuori dal conteggio: gli agricoltori pensionati, i militari, le forze dell’ordine.
Sono morti sul lavoro quelle che avvengono nel tragitto da casa al lavoro (e viceversa), ma in questo caso: «I processi durano anni». Sommando queste categorie si stima, invece della diminuzione registrata dall’Inail, un aumento dell’11 per cento rispetto ai dati del 2011.
Per Alessandro Salvati, che coordina la banca dati infortuni dell’Inail la domanda andrebbe ribaltata: «Dovreste chiedervi perchè i dati dell’Osservatorio non coincidono coi nostri, anzichè il contrario»
Per Salvati l’attività di Soricelli è meritoria, ma: «Fanno un conteggio di morti ‘presumibili’, che potremo fare anche io e lei: Un istituto nazionale statistico rispetta certe regole, e ha il compito di controllare caso per caso». Sulle ‘morti in nero’, ci spiega sempre Salvati, è difficile che l’Istat non le rilevi, perchè essendo casi eclatanti ne viene a conoscenza.
Per l’Europa l’Italia è colpevole
Marco Bazzoni, come Carlo Soricelli è un operaio metalmeccanico che ha deciso di impegnarsi per la causa.
Per lui il problema non sono i dati dell’Inail ma il fatto che questi vengano considerati dati statistici: «I sindacati vanno dietro all’Inail, sono loro il problema», ci spiega.
E per Bazzoni i dati non sono sottostimati solo nelle morti, ma anche sugli infortuni: «Ci sono almeno 200.000 infortuni non denunciati, questa era la valutazione dell’Inca, il patronato della Cgil», afferma.
L’ultimo anno in cui l’Inail ha parlato di aumento delle morti sul lavoro è stato il 2006, con 1341 decessi: «Aggiornarono i dati quattro volte fino ad arrivare a gennaio 2008», ricorda l’operaio fiorentino. «Poi scrissero un comunicato sconcertante: l’impennata di morti era da considerarsi esclusivamente come un fatto accidentale».
Marco Bazzoni, come Soricelli non si è mai arreso: nel 2009 ha scritto una petizione-denuncia alla Commissione Europea sulla conformità del recepimento in Italia (d.lgs 106/09) della direttiva europea 89/391/CEE, volta a promuovere la sicurezza e la salute dei lavoratori sul posto di lavoro.
Lo scorso 13 ottobre la Commissione ha risposto che il progetto di ‘costituirsi in mora’ contro lo Stato italiano è stato approvato il 29 settembre. L’Italia ha risposto con una relazione ora in esame a Bruxelles. I punti di rilievo del procedimento europeo sono: deresponsabilizzazione del datore di lavoro, obbligo di valutazione del rischio di stress dovuto al lavoro, tempistiche per redarre il documento sulla valutazione dei rischi di una nuova impresa.
Dalla Thyssen a Novi Ligure.
Deresponsabilizzazione del datore di lavoro, l’Europa non sa che è un costume tutto italiano.
E’ dell’aprile 2009 la polemica sulla norma “salva manager” contenuta nel decreto al Testo unico sulla sicurezza del lavoro, del governo Berlusconi.
L’art. 10 bis rischiava di portare all’assoluzione i dirigenti Thyssenkrupp di Torino, che verranno poi condannati (aprile 2011) a 16 anni e mezzo per omicidio volontario. Come ora, una norma italiana entrava in contrasto con le normative europee, secondo la Commissione parlamentare lavoro: la direttiva CEE 391 del 1989, proprio sulla responsabilità del datore di lavoro.
I lavoratori Thyssen, ora in mobilità , erano in presidio davanti al comune di Torino lo scorso 14 giugno, per incalzare il sindaco Fassino che un anno fa aveva promesso di occuparsi del loro ricollocamento.
Ma c’è un altro particolare: «Su 14 rimasti senza lavoro, otto eravamo parte civile al processo Thyssen», spiega Mirko Pusceddu, portavoce degli operai.
Continua: «Crediamo di essere stati discriminati per questo, perchè su 34 operai ricollocati all’Amiat e altri 35 all’Alenia sono solo due le persone che come noi erano parte civile».
Spostandoci all’Ilva di Novi Ligure, il 7 giugno Pasquale La Rocca è morto schiacciato da un muletto.
L’azienda, nonostante la morte, non ha fermato l’impianto: «Quando siamo arrivati un’ora dopo, comunque, i due reparti a ridosso dell’incidente erano fermi», dice Massimo Repetto della Fiom.
Ma anche se gli operai hanno scioperato l’azienda non ha fermato l’impianto, come conferma Repetto.
Nella stessa Ilva di Novi Ligure era morto un operaio delle ditte appaltatrici nel 2005, precipitando da tre metri di altezza, come ricorda Bruno Motta, sindacalista all’Ilva fino al 2006. «Ci ho lavorato 32 anni a Novi Ligure, è una realtà molto diversa dall’Ilva di Taranto».
Nessuna legge obbliga quindi l’azienda a fermare gli impianti in caso di incidenti mortali, e nessuna legge potrà trovare dei responsabili per i 17 lavoratori morti sotto i crolli dei capannoni industriali in Emilia, quelli dovuti ai terremoti del 20 e 29 maggio.
La normativa antisismica del 2005, infatti, non obbliga costruttori ed aziende a mettere a norma i prefabbricati costruiti in epoca precedente, come abbiamo svelato nella nostra inchiesta ‘Perchè sono morti gli operai’.
I prefabbricati sono a rischio, ma agibili e in regola, e questo è solo l’ennesimo caso in cui la legge italiana diventa complice delle morti sul lavoro. «Non chiamatele morti bianche», dice Bazzoni. Perchè i colpevoli ci sono.
Michele Azzu
(da “L’Espresso“)
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Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile
PRIMA VITTORIA DEGLI STUDENTI: “E’ UNA LOTTERIA, SERVE UNA GRADUATORIA UNICA”
Con un’ordinanza depositata lo scorso 18 giugno, su ricorso dell’Unione degli universitari, il Consiglio di stato ha rinviato alla Consulta la decisione su uno degli argomenti più controversi degli ultimi anni in ambito universitario.
Il meccanismo attuale – che prevede il numero programmato a livello nazionale per Medicina, Odontoiatria, Veterinaria, Architettura e per le Professioni sanitarie (infermieri, ostetriche, fisioterapisti, per citane alcune), ma con graduatorie finali stilate da ogni singolo ateneo – sceglie veramente gli studenti migliori?
Li mette tutti nelle stesse condizioni di partenza?
O l’ammissione è anche in parte frutto del caso?
I giudici di Palazzo Spada nutrono più di qualche dubbio sul meccanismo messo in piedi nel 1999 che, a parità di test, per ogni singola facoltà seleziona gli studenti con punteggi diversi.
La contesa ha preso le mosse da un ricorso al Tar dell’Emilia Romagna presentato da un gruppo di studenti esclusi nel 2007/2008 dal corso di laurea in Medicina e chirurgia dell’università di Bologna perchè si collocarono oltre i posti messi a concorso.
In quella tornata di quiz successe di tutto: dopo una valanga di polemiche, due domande vennero estromesse dal computo finale – la numero 71 che non aveva risposte corrette e la numero 79 che ne aveva più di una – e le graduatorie vennero compilate su 78 quesiti validi invece degli 80 previsti. Non solo.
Il ministero fu costretto a ripetere il test di ammissione alla facoltà di Medicina dell’università della Magna Grecia di Catanzaro per irregolarità : un tecnico, poi condannato, aveva venduto in anticipo le soluzioni
Gli esclusi dalla facoltà di Medicina di Bologna si rivolsero dunque al Tar perchè ritennero di avere subito un danno dall’annullamento delle due domande in questione. I giudici respinsero i motivi avanzati, così questi ultimi si rivolsero in appello al Consiglio di Stato, che lo scorso 18 giugno ha nuovamente respinto le richieste avanzate, tranne una: quella che lamenta la disparità di trattamento che deriva dalla compilazione di graduatorie diverse per ogni ateneo, piuttosto che di una graduatoria unica nazionale.
«Mentre a Bologna sono stati necessari 47 punti per il collocamento utile in graduatoria, a Sassari ne sarebbero stati sufficienti 37 e a Napoli 40,75», si legge nell’ordinanza dei giudici.
«La prospettata questione (di eccezione di costituzionalità ) è non manifestamente infondata – continuano – , atteso che il sistema delle graduatorie di ateneo in luogo di una graduatoria unica nazionale appare lesiva» di tre articoli della Costituzione.
E concludono: «A fronte di una prova unica nazionale, con 80 quesiti, l’ammissione al corso di laurea non dipende in definitiva dal merito del candidato, ma da fattori casuali e affatto aleatori legati al numero di posti disponibili presso ciascun Ateneo e dal numero di concorrenti presso ciascun Ateneo, ossia fattori non ponderabili ex ante».
Siamo soddisfatti, dice il coordinatore nazionale dell’Udu, Michele Orezzi, «per un ulteriore passo avanti nella battaglia contro il numero chiuso. Siamo certi che il sistema dell’accesso programmato è illegittimo in quanto tale e per la illecita compressione del diritto allo studio. Siamo d’accordo con il Consiglio di Stato, oggi in Italia il sistema è dominato dal caso: siamo di fronte ad una sorta di lotteria».
Salvo Intravaia
(da”la Repubblica“)
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Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile
BONDI: LOTTA AGLI SPRECHI PER RECUPERARE 4 MILIARDI
Oggi il riordino degli enti vigilati dal ministero, dall’Istituto superiore di Sanità , all’Agenas (agenzia per i servizi sanitari regionali), alla Croce Rossa, poi, la prossima settimana, il «decretone».
Prende corpo la manovra sulla Sanità : il 2 luglio il Consiglio dei ministri dovrebbe varare un unico provvedimento nel quale confluirebbero sia i tagli suggeriti dal commissario alla spending review, Enrico Bondi, che i provvedimenti messi a punto dal ministro della Salute, Renato Balduzzi: la revisione della filiera del farmaco, la responsabilità professionale dei medici, il regime intramoenia
Il pacchetto Bondi si concentra sulle procedure delle Asl per l’acquisto di beni e servizi, che assorbono ogni anno una spesa di 34 miliardi di euro.
«Non tagli, nè manovre, ma un sistema per ridurre gli sprechi e rendere più efficiente la spesa pubblica» spiegano a Palazzo Chigi, anche se l’effetto concreto sarà un risparmio strutturale sulla spesa sanitaria che, secondo gli esperti, potrebbe arrivare a 4 miliardi all’anno.
Ai quali si aggiungerebbero i risparmi previsti dal piano Bondi applicato agli acquisti di beni e servizi delle altre amministrazioni pubbliche.
L’obiettivo del governo è di definire entro l’inizio di luglio un pacchetto di misure che porti un risparmio di almeno 6-7 miliardi da qui a fine anno (12-14 miliardi a regime) per evitare l’aumento dell’Iva, finanziare alcune esigenze scoperte (come le missioni di pace e il 5 per mille dell’Irpef) e i primi interventi per la ricostruzione dell’Emilia-Romagna dopo il terremoto.
Tra le altre misure attese in Consiglio dei ministri per la Sanità ci sarebbe anche la proroga del regime intramoenia per i medici, l’aumento della quota della spesa farmaceutica ospedaliera dal 2,4 al 3,6% della spesa complessiva per i farmaci, con la contestuale riduzione del tetto alla spesa territoriale (attraverso le farmacie) dal 13,3 al 12,1% del totale.
Col nuovo meccanismo per la compartecipazione delle imprese al ripiano degli eventuali sforamenti.
Mario Sensini
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile
L’INCHIESTA DI CALTANISSETTA: “CI FU UNA DOPPIA MORALE, STAGIONE INGLORIOSA PER LE ISTITUZIONI”… NELLE 300 PAGINE DELL’ACCUSA, RICOSTRUITE LE OMBRE DI QUELLA STAGIONE
Tra mancate proroghe e decreti revocati, nella stagione delle bombe del ’93, il ministero della Giustizia cancella 520 provvedimenti di 41 bis, quasi il 50% di quelli deliberati l’anno precedente.
C’è da chiedersi, scrive la Procura di Caltanissetta, “se questo non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato per far cessare le stragi”.
Ecco perchè, scrivono il procuratore nisseno Sergio Lari, gli aggiunti Nico Gozzo e Amedeo Bertone, i pm Nicola Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani, nella richiesta di custodia cautelare che riassume tre anni di indagine sulla strage di via D’Amelio, quella della trattativa è stata una “stagione ingloriosa per lo Stato italiano”.
In quella richiesta gli inquirenti ricostruiscono, in oltre trecento pagine, tutte le ombre sugli apparati delle istituzioni impegnati a fermare il tritolo, nei mesi della campagna stragista contro il patrimonio artistico.
E se a differenza dei colleghi di Palermo, i pm nisseni non giungono a conclusioni penalmente rilevanti, chiedendo di archiviare le posizioni dei protagonisti istituzionali del dialogo con Cosa Nostra (come ha rivelato il procuratore Pietro Grasso nell’intervista al Fatto Quotidiano del 19 giugno scorso), mostrano di avere le idee chiare nella ricostruzione delle loro carte sull’identità politica di chi ha trattato.
“Questa trattativa — spiegano i pm di Caltanissetta — era stata letta da Cosa Nostra come un segnale di grande debolezza della controparte statale”, che “almeno nella prima parte della trattativa, pare appartenere a quella che Giovanni Brusca definisce la sinistra, in essa ricomprendendo la sinistra Dc e la sinistra vera e propria, proprio quella che apparentemente aveva più volte difeso le inchieste del dottor Falcone e del dottor Borsellino”.
Ma anche quella sinistra che, come ha detto l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, “in una sua parte aveva frapposto importanti ostacoli alla conversione del decreto dell’8 giugno ’92 (l’introduzione del 41 bis, ndr) e prima ancora all’istituzione della Procura nazionale Antimafia”.
Ed è a questo punto che i pm di Caltanissetta precisano che “nessuna responsabilità penale è stata accertata a carico di personalità politiche e istituzionali in quella che può definirsi la strategia stragista di Cosa Nostra nel ’92”.
L’altra certezza raggiunta dalla procura nissena è che Paolo Borsellino abbia saputo della trattativa e che la sua posizione in merito “sia stata interpretata, o riportata da qualcuno anche in maniera colposa, in modo da farlo ritenere un ostacolo o un muro da abbattere per poter arrivare ad una conclusione soddisfacente per Cosa Nostra della trattativa”.
Ecco, secondo i pm nisseni, la ragione della memoria a orologeria.
Nessuno dei protagonisti di quei giorni, nè gli ex ministri Nicola Mancino, Giovanni Conso, Claudio Martelli, nè i funzionari del Dap Nicolò Amato, Adalberto Capriotti, Edoardo Fazzioli, Francesco Di Maggio, Andrea Calabria, nè gli ex presidenti del consiglio Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, nè il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ha piacere di ammettere di essere stato “testimone silente di comportamenti che, seppure posti in essere da altre persone, possano aver spinto Cosa Nostra ad accelerare l’eliminazione di Borsellino”.
La Procura di Lari disegna, insomma, il volto ambiguo di uno Stato dalla “doppia morale”.
Se da una parte le istituzioni “a parole, e sui quotidiani, dispensavano lezioni di antimafia… nel chiuso delle stanze di alcuni membri del governo e di alcuni alti dirigenti della pubblica amministrazione si discusse approfonditamente cosa fare del regime del 41 bis, o meglio di come disfarsene a poco a poco, senza che la cosa venisse percepita all’esterno”.
Davanti alle esplicite richieste provenienti dalle carceri di attenuare il regime di detenzione dura, e dopo l’uccisione di alcuni agenti carcerari, la situazione dei detenuti mafiosi viene rappresentata come “esplosiva”, al punto da temere che potesse “infiammare” anche l’ordine pubblico all’esterno.
Per questo motivo, a solo un anno dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, sottolinea la procura di Caltanissetta “lo Stato, nella specie alcuni dei suoi uomini più importanti, pensa di arretrare di fronte alla offensiva mafiosa”.
Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile
DOPO LA NASCITA DEL PD, LE CASSE DELLA MARGHERITA E DS SONO RIMASTE SEPARATE… SE IL PARTITO DI RUTELLI SI E’ TROVATO A FARE I CONTI CON IL CASO LUSI, QUELLO DI FASSINO HA EREDITATO I DEBITI MILIONARI DEL PCI-PDS… ANCORA 49 PERSONE A LIBRO PAGA, 2.399 IMMOBILI DI PROPRIETA’
Per l’Italia s’aggira uno zombie con 150 milioni di debiti.
Lo zombie si chiama Ds, la sigla di un partito che non c’è più ma presenta bilanci come se fosse vivo e vegeto.
Basta dare un’occhiata ai conti del 2011, resi noti proprio ieri, e si scopre che i Democratici di sinistra nuotano ancora in un mare di debiti.
In totale fanno 156,6 milioni di euro e in cima alla lista dei creditori troviamo alcune delle più grandi banche nazionali.
C’è Unicredit con oltre 26 milioni di prestiti, il gruppo Intesa sfiora i 36 milioni, l’Efibanca del Banco Popolare è esposta per 24 milioni, mentre la Popolare di Milano reclama circa 12 milioni.
L’elenco delle banche finanziatrici compare nel rendiconto dei Democratici di sinistra pubblicato in quattro pagine di inserzione su l’Unità di ieri.
Il buco dei Ds è l’altra faccia della medaglia nell’incredibile storia di Luigi Lusi, l’ex tesoriere della Margherita finito in carcere la settimana scorsa con l’accusa di aver dilapidato i soldi del partito.
Si parte nel 2007, quando le due formazioni politiche hanno dato vita al Pd.
Niente comunione dei beni, però. La cassa è rimasta al vecchio indirizzo.
Con una differenza sostanziale tra i due sposi (si fa per dire).
Il partito di Francesco Rutelli, un partito con pochi anni di vita, si è trovato in cassa rimborsi elettorali per milioni. Tutto legale, questo prevede la legge.
I Democratici di sinistra hanno invece ereditato i debiti del Pci-Pds. Una montagna di soldi. Peggio, una frana sospesa sul destino del partito.
Problema vecchio, a dire il vero. Più volte nel corso degli anni le banche hanno accettato di cancellare una parte dei debiti targati Ds.
L’ultimo salvagente è stato lanciato nel 2003, con la Capitalia allora guidata da Cesare Geronzi, pronta a fornire nuovo ossigeno al partito sull’orlo del crac.
Tutto risolto? Macchè. I debiti restano, eccome.
Il bilancio firmato dal tesoriere Ugo Sposetti parla chiaro.
A fine 2011 i conti dei Democratici di sinistra si sono chiusi con un disavanzo patrimoniale, cioè un buco, di 145 milioni.
Già perchè, come detto, l’esposizione verso le banche supera i 156 milioni mentre il valore delle attività non raggiunge i 12 milioni. Il passivo ha un’ origine precisa.
Il partito, infatti, si è fatto carico dei debiti accumulati negli anni dall’Unità fino a quando la storica testata fondata da Antonio Gramsci nonè stata ceduta, a partire dal 2001, a cordate di imprenditori privati, ultimo della serie l’ex governatore della Sardegna, Renato Soru.
E così nel bilancio 2011 si legge che circa 101 milioni di debiti derivano “dall’accollo liberatorio” dei debiti della “cessata partecipata L’Unità spa in liquidazione”.
In sostanza il giornale ha cambiato padrone, ma il partito non ha ancora trovato il modo di rimborsare i finanziamenti di cui si è fatto carico a suo tempo per facilitare la vendita della testata.
Di questo passo non si vede come la situazione possa essere riequilibrata. I Ds sono formalmente una scatola vuota. Non hanno attività di rilievo.
L’enorme patrimonio immobiliare del partito, in buona parte intestato alle organizzazioni territoriali, cioè le varie federazioni locali, sono stati trasferiti a una cinquantina di fondazioni.
Si tratta, leggiamo nei conti del 2011, di ben 2.399 immobili, in gran parte (1.819) “utilizzati dalle organizzazioni territoriali del Partito democratico (….) nella maggior parte dei casi con comodato d’uso gratuito”.
Traduzione: i palazzi dei Ds adesso ospitano le sedi locali del Pd, che però non pagano un euro d’affitto.
Quindi un patrimonio che ammonta a svariate centinaia di milioni non fa parte dell’attivo patrimoniale del partito zombie, ma viene gestito da fondazioni che formalmente non sono coperte dall’ombrello contabile dei Ds.
La precisazione è importante, perchè se così non fosse gli istituti di credito potrebbero pignorare gli immobili per rientrare dei loro crediti. E invece niente.
Le banche si trovano ad avere a che fare con un creditore in pratica nullatenente.
Risultato: i banchieri prendono quello che possono, cioè il denaro dei rimborsi elettorali che ancora lo Stato concede ai democratici di sinistra.
A settembre dell’anno scorso, una sentenza del tribunale civile di Roma ha assegnato agli istituti di credito 30 milioni di euro.
Di questo passo però sarà difficile venirne fuori in qualche modo.
I Ds infatti ormai non hanno più diritto a rimborsi elettorali. I debiti invece restano.
E poi ci sono gli stipendi da pagare ai dipendenti.
Perchè il partito che non esiste più conta ancora 49 persone a libro paga.
Vittorio Malagutti
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile
PRESENTI SOLO 19 MEMBRI SU 40… FLAVIA PERINA (FLI): “UNA SCENEGGIATA DA PRIMA REPUBBLICA, IL SERVIZIO PUBBLICO E’ IN MANO A LOGORE LOGICHE DI PARTITO CHE IMPEDISCONO IL PROCESSO DI RISANAMENTO”
Fumata nera. Tra “prove tecniche di lottizzazione” e “sceneggiate da prima Repubblica”.
Pdl e Lega disertano la seduta della commissione di Vigilanza Rai, causando il rinvio del voto per l’elezione dei sette membri del nuovo Cda.
Manca il numero legale: sono ventuno su quaranta, infatti, i membri della commissione del Popolo della Libertà e del Carroccio.
Una seduta aperta e subito richiusa.
Non basta la presenza dei parlamentari di Pd, Terzo Polo, Idv e radicali. Il Partito Democratico: “Irresponsabili”. Fabrizio Morri, capogruppo dei democratici in Vigilanza, annuncia che ora il presidente Zavoli pensa già alla calendarizzare di una nuova votazione.
Poi al governo: “Si convochino i partiti”. L’Usigrai: “Pronti allo sciopero se le nomine slittano ancora”.
Il Pd: “Irresponsabili”.
Per Morri, “il punto è la difficoltà di Lega e Pdl: causa i loro dissensi interni dovuti al tentativo di ricreare in commissione un asse che gli garantisca 4 su 7 dei membri del Cda”.
Ancora: “E’ un gioco che ha stufato tutti, non solo noi ma l’intera opinione pubblica. Il Cda è scaduto da 2 mesi”.
E l’esponente democratico chiede quindi ” che il governo convochi un vertice dei partiti di maggioranza per operare rapidamente un chiarimento”.
Il governo, sottolinea, “non può far finta di niente e deve richiamare all’ordine quella componente della maggioranza che oggi non si è presentata”.
Poi la conferma che i deputati del Pd in vigilanza hanno scritto sulla scheda i nomi di Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi come suggerito dal cartello delle associazioni.
Terzo Polo: “Sceneggiata da prima Repubblica”.
La mossa di Pdl e Lega è una “sceneggiata da prima Repubblica”.
Lo afferma in una nota la deputata di Fli, Flavia Perina. “Il manuale Cencelli sta ritardando il processo di risanamento e rinnovamento di un’azienda sull’orlo del fallimento economico e culturale. E tutto questo non fa bene nè alla Rai, che ha bisogno subito di un Cda autorevole, nè ai cittadini italiani, che non possono più vedere il servizio pubblico in mano a logore logiche di partito che non fanno altro che produrre immobilità “.
I radicali: “Prove malriuscite di lottizzazione”.
Marco Beltrandi, radicali: “In una seduta ridicolmente disertata sono andate in onda le prove mal riuscite dell’ennesima lottizzazione Rai”.
Ancora: “Chiedendo di intervenire sull’ordine dei lavori, il presidente della Commissione neppure mi ha consentito di completare una breve dichiarazione di voto per motivare la mia non partecipazione.”
L’Usigrai: “Continuano i diritti di veto”. Una Rai ferma, immobile, “di tutto ha bisogno salvo che di rinvii. Sia chiaro che domani all’assemblea nazionale dei comitati di redazione, chiederemo il mandato allo sciopero qualora vi fossero ulteriori slittamenti ingiustificati e ingiustificabili”.
E l’assenza dei deputati del Pdl era stata annunciata nei giorni scorsi.
Un braccio di ferro con il governo iniziato con la sostituzione di Lorenza Lei dal ruolo di direttore generale dell’azienda.
Al suo posto, il governo ha nominato l’ex dirigente della Banca d’Italia, Anna Maria Tarantola.
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