Destra di Popolo.net

PARADOSSI ITALIANI: UN EX SINDACO SPENDACCIONE CHIAMATO A TAGLIARE I COSTI DI PALAZZO MADAMA

Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile

CAMMARATA SI ERA DIMESSO DA SINDACO DI PALERMO DOPO IL DISSESTO FINANZIARIO DELLE AZIENDE MUNICIPALIZZATE DEL CAPOLUOGO SICILIANO

Qualcuno a Palermo l’ha presa come una battuta: «Cammarata? Sarà  un omonimo».
E invece no, è proprio lui, l’ex sindaco costretto a dimettersi a gennaio scorso sotto il peso di un’amministrazione sull’orlo del fallimento.
Trascinata verso il rosso dal disastro delle aziende controllate dal Comune: dai rifiuti alle manutenzioni.
E che ti fa, invece, Cammarata? Viene nominato consulente del Senato.
E consulente per che cosa? Per i tagli alla spesa degli enti locali.
Abbastanza per scatenare sul web l’indignazione e l’ironia di centinaia di cittadini. Lui, l’ex sindaco, non fa una piega: «Nessun dissesto finanziario e nessun commissariamento riguardano la mia gestione. La verità  è che siamo alle solite: siccome di me non si può dire che sono un corrotto o un mafioso ci si aggrappa a cose ridicole».
E’ un fatto però che l’Amia, l’azienda rifiuti che era il gioiellino di famiglia dell’ex sindaco Leoluca Orlando – appena rieletto – aspetta a giorni la pronuncia dei giudici sul suo fallimento dopo avere inghiottito in dieci anni 850 milioni.
Che la Gesip, carrozzone di precari, abbia finito i soldi dell’ennesima proroga e non sappia più come foraggiarsi.
Che il commissario straordinario nominato dopo le dimissioni di Cammarata abbia dovuto varare un bilancio lacrime e sangue che, a cinque giorni dalla scadenza di legge, il Consiglio non osa approvare.
Che alle ultime elezioni nel centrodestra c’era la gara a prendere le distanze da un’amministrazione uscente (quella con più personale d’Italia: 9.594 occupati, uno ogni 69 abitanti) che per stare a galla era stata costretta a utilizzare pure i soldi del fondo di riserva, quelli per le calamità  naturali.
Eppure adesso è nientemeno che Palazzo Madama a volersi avvalere delle collaborazione di Cammarata e proprio per i tagli agli enti locali, sotto l’ombrello dell’unico amico politico che è rimasto all’ex primo cittadino (il presidente del Senato Renato Schifani) e a fianco del deputato questore Angelo Maria Cicolani, eletto nel Lazio.
Al quale, poveretto, tocca pure la parte in commedia più difficile, quella di fare da scudo alla seconda carica dello Stato.
«Il presidente Schifani — dice — è totalmente estraneo alla vicenda. Tirarlo in ballo è pertanto strumentale e fuori luogo. L’ex sindaco di Palermo fa parte esclusivamente della mia segreteria. Ho voluto utilizzare nell’ufficio di Questura le conoscenze giuridiche e amministrative dell’avvocato Cammarata, che conosco e apprezzo da moltissimi anni».
Ma le bordate arrivano.
A tirarle, è il senatore di Italia dei Valori, Fabio Giambrone, strettissimo collaboratore di Orlando. «Può un ex sindaco commissariato per aver portato al dissesto finanziario la sua città  essere chiamato come consulente al Senato per un disegno di legge sui tagli di spesa negli enti locali?», chiede prima di rivolgere un appello a Schifani. «Revochi immediatamente l’incarico a Cammarata se non vuole che mezza Italia gli rida dietro e l’altra mezza si indigni ulteriormente».
Lui, il protagonista delle polemiche, rende la pariglia: «Precisiamo intanto che non ho nessuna consulenza da parte del Senato ma sono distaccato sulla base di una norma che, penso, Giambrone dovrebbe ben conoscere perchè è la stessa che ha consentito il suo distacco da dipendente delle Poste al Comune di Palermo».
E così Cammarata svela il percorso che l’ha portato al Senato.
Un distacco dal ministero della Pubblica istruzione dovuto al suo ruolo di docente negli istituti medi e superiori ottenuto dopo un concorso pubblico fatto in gioventù.
Ma lo stipendio di professore, per uno che ha fatto il sindaco, che è stato condannato a pagare dalla Corte dei Conti 200 mila euro di risarcimento per la nomina illegittima di consulenti, e che ha quattro inchieste giudiziarie sulle spalle, non è proprio lauto.
Lo studio di avvocato ormai è chiuso. Il futuro politico incerto.
Così ecco lo strapuntino a Palazzo Madama, con un rimborso spese di mille euro al mese.
Meglio che niente.

Laura Anello

argomento: Costume, denuncia, la casta | Commenta »

LUSI: NELL’APPUNTO DI RUTELLI ANCHE I 100.000 EURO A RENZI

Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile

I TRE PUNTI DEL MEMORANDUM DI LUSI E LA REPLICA DI RUTELLI

È diviso in tre punti il memorandum di Francesco Rutelli a Luigi Lusi.
Si tratta di un foglio scritto a mano che dà  disposizioni sull’organizzazione del partito, ma anche sulla destinazione di alcuni fondi.
In ballo ci sono 600 mila euro, oltre ad alcuni rimborsi relativi al Parlamento europeo. Ed è su questo che adesso si concentra l’attenzione dei magistrati.
Perchè l’indagine deve accertare se oltre al tesoriere – accusato di aver sottratto dalle casse della Margherita oltre 25 milioni di euro utilizzati per acquistare immobili e in parte trasferiti all’estero – altri possano aver destinato a fini personali il denaro proveniente dai rimborsi elettorali.
Dunque, si effettueranno riscontri sull’appunto, ma dovranno essere esaminate anche le mail che i due si sono scambiati nello stesso anno e che riguardano proprio la gestione finanziaria del partito.
Un settore del quale Rutelli aveva finora detto di non essersi mai occupato «perchè lo abbiamo delegato completamente al tesoriere, però abbiamo sbagliato visto che ci siamo fidati di un ladro».
Quel «ladro» che adesso ha evidentemente deciso di vendicarsi per la scelta dei suoi ex colleghi di partito di concedere il via libera all’arresto disposto dal giudice Simonetta D’Alessandro e ha consegnato la corrispondenza tra sè e il leader accusandolo in sostanza di essere al corrente di come venivano impiegati i finanziamenti.
«Parla dei 600 e soldi Pde»
Sarà  la Guardia di Finanza a svolgere le verifiche sui nuovi documenti.
Il memorandum è composto da un’unica pagina e non è datato, è stato Lusi a dire che risale a novembre 2009.
Scrive Rutelli: «Luigi, 1) la vicenda dei tre – Sensi, Podda, Cucinotta – va risolta entro Natale 2) ho incontrato Tommaso, tutto a posto 3) Parla con Improta su punto 1, sulla vicenda dei 600 e sui soldi del Pde (la formazione europea di cui Lusi amministrava le finanze, ndr ) che sono stati gestiti frettolosamente e male per paura».
È Lusi – sollecitato nel corso dell’interrogatorio dal procuratore aggiunto Alberto Caperna e dal sostituto Stefano Pesci – a fornire la sua spiegazione su quell’appunto.
Sensi – dichiara il tesoriere – è il portavoce di Rutelli, le altre sono dipendenti della Margherita e il problema da risolvere riguardava i loro contratti lavorativi. Tommaso è un politico abruzzese che doveva passare all’Api», il partito fondato da Rutelli nell’ottobre 2009.
Poi entra nei dettagli del terzo punto, quello che appare rilevante per l’inchiesta. «Guido Improta è l’organizzatore dell’Api», spiega riferendosi al sottosegretario ai Trasporti del governo guidato da Mario Monti.
E aggiunge: «I 600 mila euro cui si fa riferimento equivalgono al 40 per cento di un milione e mezzo di euro che dovevo gestire e che sono esattamente la parte destinata ai rutelliani sulla base di quel patto di spartizione concordato con Rutelli ed Enzo Bianco di cui ero garante. Di quei soldi 100 mila andarono a Matteo Renzi, 200 mila alla fondazione Centocittà  e il resto, 300 mila euro, al Cfs, Centro per un futuro sostenibile, la fondazione di Rutelli».
Tutti i bonifici frazionati
È su questo che dovranno essere effettuati accertamenti per stabilire se sia stata davvero questa la destinazione dei fondi e come siano stati poi utilizzati i soldi.
La ricostruzione della movimentazione bancaria è stata da tempo affidata agli analisti delle Fiamme Gialle e a due consulenti di Bankitalia e adesso si chiederà  proprio a loro una relazione specifica.
Da parte sua Lusi sostiene che tutti i bonifici sono stati frazionati ed effettuati «avendo cura di non superare la soglia dei 50 mila euro, oltre la quale sarebbe scattata la segnalazione di operazione sospetta».
Soltanto quando saranno terminati i nuovi controlli si deciderà  se convocare nuovamente Rutelli e gli altri leader del partito.
La linea stabilita dall’accusa prevede di cercare eventuali riscontri a tutto quello che viene sostenuto grazie alla presentazione di nuovi documenti, mentre non si dà  molto credito a quelle dichiarazioni fatte dal tesoriere senza però supportarle con pezze di appoggio.
Per esempio la tesi secondo la quale l’appartamento al centro di Roma e le ville in campagna sarebbero state acquistate come investimento per la corrente rutelliana. «Quegli immobili – ribadiscono in procura – sono la prova delle ruberie compiute dal tesoriere».
«Sono falsità  mostruose»
Subito dopo l’interrogatorio di sabato scorso tutti i politici chiamati in causa – lo stesso Rutelli, Bianco e Renzi – avevano accusato Lusi di mentire. Ieri il livello dello scontro si è alzato con l’annuncio del leader dell’Api di una denuncia per calunnia che sarà  presentata questa mattina.
«Si tratta di falsità  mostruose e grossolane», afferma Rutelli e il suo avvocato Titta Madia afferma: «Eventuali mail e appunti non possono che riguardare l’ordinaria attività  politica e la normale dialettica sull’uso delle risorse del partito».

Fiorenza Sarzanini
(da “Il Corriere della Sera“)

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RIFORME: BOCCIATO IN COMMISSIONE IL SENATO FEDERALE

Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile

RESPINTO L’EMENDAMENTO DELLA LEGA PER TRASFORMARE PALAZZO MADAMA IN UNA CAMERA DELLE REGIONI.. DOMANI LA PROPOSTA PASSERA’ IN AULA E IL CARROCCIO PRESENTERA’ LA PROPOSTA DI MODIFICA LEGATA AL SEMI-PRESIDENZIALISMO VOLUTO DAL PDL

Aveva avuto la precedenza sull’emendamento per il taglio dei deputati, ma il Senato federale, almeno per ora, non ci sarà .
La commissione Affari costituzionali del Senato ha infatti respinto l’emendamento della Lega per trasformare Palazzo Madama in una Camera delle Regioni.
Il voto è finito 13-13 e, visto che il pareggio nella votazione comporta il respingimento della proposta, il testo non è passato.
In favore hanno votato, oltre al Carroccio, anche Pdl e Coesione nazionale.
Contrari invece Pd, Terzo polo, Idv e Alberto Tedesco, l’ex Pd ora al Misto.
Si è astenuto il presidente della commissione e relatore, Carlo Vizzini.
Prima della votazione è stato respinto anche un sub-emendamento al testo della Lega a firma Benedetti Valentini (Pdl) che proponeva di togliere ai ‘senatori regionali’ (eletti dai consigli regionali e che nella proposta Calderoli possono partecipare alle sedute del Senato con diritto di voto sulle materie concorrenti) le prerogative parlamentari, compresa la diaria.
Sono stati invece ritirati tutti i sub-emendamenti del Pdl che puntavano a ‘mitigare’ il testo della Lega perchè il Carroccio ha fatto sapere che non li avrebbe appoggiati.
Ora la battaglia si sposta in Aula dove domani la Lega ripresenterà  la proposta di modifica e in assemblea ha i numeri favorevoli.
Dall’esito della votazione dipenderà  anche il via libera alla riduzione del numero dei senatori, dopo il taglio della composizione della Camera (da 630 a 508 deputati).
Se passasse l’emendamento della Lega si avrebbe sì una riduzione, ma di appena 4 componenti.
Una proposta legata a filo doppio con il semi-presidenzialismo voluto dal Pdl e che verrà  messo in votazione in commissione solo dopo che sarà  stato votato in Aula il Senato federale.

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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LO SPETTRO DELLE URNE SPAVENTA I PARTITI

Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile

IN ATTESA DEL CONSIGLIO EUROPEO SI NAVIGA A VISTA…. E ANCHE IN CASO DI FALLIMENTO NON C’E’ ACCORDO SUL DA FARSI

Mancano tre giorni al Consiglio europeo, e la politica trattiene il fiato perchè ormai tutto dipende da quanto succederà  a Bruxelles.
Se il governo andrà  avanti o meno, se ci sarà  un Monti-bis (prospettiva molto evocata in una intervista dal sottosegretario Catricalà ) o viceversa saremo chiamati alle urne in ottobre, lo capiremo venerdì mattina, al momento di tirare le somme del vertice.
Negli stati maggiori dei partiti si percepisce l’umile consapevolezza che, stavolta, la posta è troppo grande per affrettare le decisioni, quali esse siano.
Idem nei palazzi romani che contano: «Navighiamo a vista», è l’immancabile risposta. Con la postilla prudenziale: «Tutto può accadere, e non dipende solo da noi».
Se Monti farà  ritorno da Bruxelles sulle note della marcia trionfale, avendo piegato le resistenze di Frau Merkel, è certo che nessuno avrà  il coraggio di tendergli lo sgambetto.
Anzi, si può scommettere che destra e sinistra faranno a gara per prendersi il «bonus», vantando i meriti del comportamento responsabile.
Addirittura tornerebbe in auge la tesi (assolutamente minoritaria) di chi vorrebbe un coinvolgimento diretto dei partiti nel governo: fermo restando, come sottolinea Catricalà , il parere determinante del presidente Napolitano.
Perfino nel caso in cui l’esito del summit fosse in chiaroscuro, un po’ bene e un po’ male, il partito delle elezioni faticherebbe a imporsi, complice il calendario (per votare in autunno, le Camere andrebbero sciolte entro i primi giorni di agosto).
Quasi impossibile prevedere che cosa accadrebbe, invece, se il Professore tornasse dal vertice a mani vuote.
Dai centristi Monti non deve attendersi brutte sorprese, saranno comunque dalla sua parte.
Fonti Pd garantiscono che, di sua iniziativa, Bersani non staccherà  comunque la spina. Però certo starà  a vedere quanto combinano sull’altra sponda.
Dove ancora ieri i segnali risultavano contraddittori.
Berlusconi si tiene la mente aperta a qualunque sviluppo, per cui chi lo va a trovare ne esce con le idee confuse. Molto dipenderà  dal trend elettorale.
Se ad esempio stasera Alessandra Ghisleri gli confermerà  il recupero di consensi delle due precedenti settimane, in questo caso il Cavaliere avrà  un motivo in più per attendere gli sviluppi.
Personaggi del suo giro ieri scommettevano (a torto o a ragione) che il fenomeno Grillo non durerà , far cadere Monti significherebbe ridargli fiato, dunque un errore da matita blu.
Berlusconi, ahilui, non è più il solo protagonista da quelle parti.
C’è pure il gruppo dirigente Pdl dove un peso determinante l’hanno acquisito da ultimo gli ex di An. I quali tutti, chi più chi meno, non vedono l’ora di godersi la probabile sconfitta, sempre minore della tragedia che si attendono nel 2013.
Il segretario Alfano tiene in grande considerazione il loro pensiero, tanto da lanciare giovedì scorso una specie di ultimatum: mai più voteremo quello su cui non siamo d’accordo.
Quel «mai più» deve essere risuonato troppo perentorio e troppo poco prudente.
E comunque il Pdl non intende ritrovarsi con il cerino delle elezioni in mano. Alle urne occorre eventualmente arrivare, sussurrano in Via dell’Umiltà , con un percorso concordato col Pd, magari in un sapiente gioco delle parti…
Fatto sta che ora Alfano precisa: al governo non abbiamo messo alcuna scadenza.
Il guaio è, ringhia Cicchitto, che «qualche ministro c’è la mette tutta per far saltare il banco con delle vere provocazioni nei nostri confronti, come è accaduto sulla legge anti-corruzione e adesso sulla riforma Fornero».
Nella santa barbara dei partiti, pure una scintilla involontaria è sufficiente a provocare il botto.

Ugo Magri
(da “La Stampa“)

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DIVISE DALLA STORIA O CREATE IN LABORATORIO: GLI ACCORPAMENTI (IM)POSSIBILI DELLE PROVINCE

Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile

VIAGGIO TRA SERBATOIO DI POLTRONE CHE NESSUNO E’ MAI RIUSCITO AD ELIMINARE…ENTI A TESTATA MULTIPLA E CITTA’ RIVALI COSTRETTE A IMMAGINARSI RIUNITE PER SOPRAVVIVERE AI TAGLI DEL GOVERNO

L’hanno combinata davvero grossa, a Fermo. Anche lì volevano la Provincia e ne hanno ammazzate due.
È una banalissima questione di numeri. Con 175.047 abitanti, 860 chilometri quadrati e 40 Comuni, Fermo non rispetta nemmeno uno dei tre parametri (minimo 350 mila abitanti, minimo 3 mila chilometri quadrati, minimo 50 Comuni) che gli potrebbero garantire la sopravvivenza, secondo il progetto del ministro Filippo Patroni Griffi.
Il bello è che anche Ascoli Piceno adesso è nei guai: divisa praticamente a metà  per consentire la nascita di Fermo, è destinata a dissolversi.
A meno che i fermani, due anni dopo aver brindato alla nuova Provincia, non vogliano tornare indietro.
In caso contrario, c’è sempre Macerata…
E Lodi? Ci aveva messo qualche secolo per affrancarsi da Milano.
Nel 1992, alla fine della Prima repubblica era riuscita ai lodigiani una impresa che nemmeno ai tempi del Barbarossa era stata possibile.
Poi, dopo soltanto vent’anni di «indipendenza», la più cocente delle delusioni.
La Provincia di Lodi dovrà  mestamente sparire. Tornando assieme a Milano.
Corsi e ricorsi vichiani…
Per non parlare di Rimini. Anche sulla romagnola s’era assaporato, in quel 1992, il miele dell’«indipendenza».
L’indipendenza da Forlì, obbligata a una doppia concessione: mollare 27 Comuni a Rimini e allargare la denominazione provinciale a Cesena.
Ma ora si dovrà  fare marcia indietro. In una nuova grande Provincia romagnola che comprenda anche Ravenna? Chissà ?
Certo è che neppure il referendum con il quale sette Comuni dell’alta Valmarecchia già  appartenenti alla Provincia di Pesaro Urbino fra cui San Leo – dove Cagliostro trascorse gli ultimi anni di vita in prigionia e una mano sconosciuta non fa mai mancare un fiore fresco nella rocca in sua memoria e ogni agosto ospita un imponente raduno di massoni – hanno decretato tre anni fa l’annessione a Rimini l’hanno potuta salvare. Ma tant’è.
Comunque vada, un risultato la proposta di Patroni Griffi certamente la otterrà : quello di segnare una nuova era nella guerra dei campanili provinciali.
In Emilia potrà  rinascere una sola Provincia sui territori di Parma e Piacenza, come ai tempi dei Papi Farnese.
E in Toscana, dove teoricamente potrebbe sopravvivere una sola delle Province esistenti, quella di Firenze, che ne sarà  di Arezzo?
Fiorentini e aretini si guardano in cagnesco dalla battaglia di Anghiari di sei secoli fa. Cruciale per i destini della Toscana e la supremazia di Firenze, fu poco più di una rissa da stadio, se dobbiamo credere a ciò che scrisse Niccolò Machiavelli: «Ed in tanta rotta e in sì lunga zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì che un uomo, il quale non di ferite ne d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò».
Pare certo che morirono più cavalli che cristiani, ma a Sansepolcro, ne potete stare certi, c’è qualcuno che ancora gli girano.
Come siamo pronti a giurare che a Siena c’è chi non si rassegna al fatto che buona parte dei famosi «paschi» da cui ha preso il nome la grande e oggi ferita banca cittadina, il Monte dei paschi, siano finiti sotto giurisdizione grossetana. Rimpiangendo i fasti di quando i borghi maremmani erano cinti dalle mura senesi.
Al tempo stesso, chissà  quanti livornesi stanno ripassando in vista di un possibile matrimonio con Pisa la lista dei proverbi, cominciando dal più famoso: «Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio».
Per tornare a epoche più recenti, da quando c’è l’Italia unita non c’è politico che non abbia fatto propaganda promettendo la Provincia.
Non è trascorsa praticamente legislatura che non venisse proposta l’istituzione della Provincia di Melfi, rivendicando una vocazione storica della città  lucana.
«Onorevoli senatori, già  nel 1866 Melfi e il suo circondario…».
Nel 1866 il brigante Carmine Crocco, prozio dell’attore Michele Placido (che ne va fierissimo) che cinque anni prima aveva occupato e tenuto in pugno Melfi, era già  in carcere, dove sarebbe morto nel 1905.
Dopo Melfi fu la volta di Nola, «importantissimo nodo di transito e centro di confluenza e riferimento, già  dall’antichità …».
Quindi Aversa, Sibari, Sala Consilina, al Sud. Busto Arsizio, Pinerolo, Bassano del Grappa, al Nord.
E Civitavecchia, nel Centro.
Il massimo, però, erano le Province a testata multipla.
Per esempio, quella della Venezia orientale: con due capoluoghi come Portogruaro e San Donà  di Piave. O quella del Basso Lazio, capitali Cassino, Formia e Sora. Oppure l’Arcipelago Toscano.
Ma il top è la proposta di creare la Provincia Ufita-Baronia-Calore-Alta Irpinia partorita da Lello di Gioia, nato a San Marco La Catola, nel foggiano, che allargò così gli orizzonti di chi ignorava l’Ufita: «Trattasi di un fiume lungo chilometri 49 che, nato dal monte Formicolo, affluisce nel fiume Calore Irpino che scorre fra l’Irpinia e il Sannio…».
Dai e dai, alla fine le Province a testata multipla hanno superato il muro della diffidenza.
Ecco allora Verbano-Cusio-Ossola. Ed ecco dunque Barletta-Andria-Trani, la mitica Bat. Dieci comuni in tutto, tre dei quali capoluoghi di Provincia.
Gli altri sette, perchè no?
Nel 1861, all’Unità  d’Italia, c’erano 59 Province.
La loro estensione era misurata più o meno sul tempo necessario ad attraversarle completamente: una giornata di cavallo.
Nonostante il declino degli equini per il trasporto umano, nel 1947 erano diventate 91. Mica poche, ma non c’erano le Regioni, che per quanto previste dalla Costituzione, sarebbero nate soltanto nel 1970.
Dovevano sopravvivere giusto il tempo per passare il testimone a quegli enti, poi però nessuno ha avuto il coraggio di impartirgli l’estrema unzione, e sono rimaste spesso come formidabile serbatoio di poltrone, posti di sottogoverno e soldi.
Quanti? Secondo il Sole 24 Ore , nel 2008 costavano 17 miliardi di euro, con un aumento di ben il 70% rispetto al 2000.
Non limitandosi alla semplice sopravvivenza, si sono moltiplicate con rapidità  sconcertante.
Nel 1974 erano diventate 95. Nel 1992, 103.
Nel 2001, poi, ci ha pensato la Regione autonoma della Sardegna, raddoppiando in un sol colpo le sue Province, da 4 a 8.
E nel 2004 la stessa maggioranza guidata da Berlusconi, che ha vinto quattro anni dopo le elezioni promettendo di abolirle, ha completato l’opera portando il totale a 109 (Trento e Bolzano comprese).
Con risultati esilaranti.
La Provincia di Fermo, ancora: una specie di scissione dell’atomo che ha avuto come effetto la crescita improvvida dei consiglieri provinciali; dai 30 di Ascoli Piceno ai 24+24=48 delle due nuove entità  spezzettate.
Costo supplementare dell’operazione un paio di milioncini, per gradire.
Quindi la Provincia di Monza e della Brianza, che ha fatto vacillare per un attimo il record negativo di estensione territoriale che apparteneva a Trieste: 212 chilometri quadrati.
Con i suoi 363 chilometri quadrati copre la superficie di un quadrato di 19 chilometri di lato.
Ma la Provincia italiana più cementificata (dice l’Istat che oltre metà  del territorio non è più naturale) si salverà  perchè oltre a essere popolosissima (840 mila abitanti) ha 55 Comuni. C’è anche Arcore, residenza del Cavaliere…

Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera“)

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IL PIANO CHE DIMEZZA LE PROVINCE: IN EMILIA NE SALTEREBBERO 7 SU 9, IN SICILIA 5 SU 9, DIMEZZATE IN PIEMONTE

Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile

IN TOSCANA SAREBBE AL SICURO SOLO FIRENZE… TAGLI IN BASE AGLI ABITANTI, ALL’ESTENSIONE E AI COMUNI COMPRESI… NE RESTREBBERO 54, MA GLI ACCORPAMENTI POTREBBERO SALIRE

Che cosa potrà  inventare Mario Cardinali se davvero il primo «spaventoso» effetto del decreto legge che ha in mente il ministro Filippo Patroni Griffi sarà  l’accorpamento della Provincia di Pisa con quella di Livorno?
Una simile eventualità  terrà  sulle spine lui e tutti gli altri livornesi.
Ma ne siamo certi: per il fondatore del mensile satirico il Vernacoliere , autore di titoli folgoranti come «Primi spaventosi effetti delle radiazioni – È nato un pisano furbo», pubblicati nel maggio 1986, subito dopo la catastrofe atomica di Chernobyl, sarà  una sfida estrema.
Niente affatto fantascientifica.
Perchè la prossima puntata della saga infinita delle Province potrebbe davvero proporre questa e altre situazioni simili.
Come ci si è arrivati?
Ricapitoliamo quanto accaduto a partire dal 2008, quando questi enti sembravano diventati il nemico pubblico numero uno tanto della destra quanto della sinistra.
«Aboliremo le Province, è nel nostro programma», sentenziò Silvio Berlusconi il 10 aprile del 2008, a «Porta a porta», alla vigilia delle elezioni che l’avrebbero riportato a Palazzo Chigi.
Il suo avversario Walter Veltroni l’aveva già  anticipato: «Cominceremo da subito, abolendo le Province nelle aree metropolitane».
Archiviato il voto, s’innescò la marcia indietro.
«Vorrei abolire le Province per risparmiare ma la Lega non è d’accordo», disse il Cavaliere l’11 dicembre 2008.
E il 22 aprile 2010 alzò bandiera bianca: «Abbiamo fatto un calcolo e abolendo le Province si risparmiano solo 200 milioni. Troppo poco per iniziare una manovra che scontenterebbe i cittadini. Però non concederemo più nessuna nuova Provincia».
Consci della fragilità  di certe promesse, alcuni politici si erano invece già  attrezzati per allargare le frontiere del mondo provinciale.
Esempi? Se il leghista Davide Caparini chiedeva l’istituzione della nuova Provincia della Valcamonica (capoluogo Breno, 5.014 abitanti), il suo collega di partito proponeva di creare in Trentino-Alto Adige una terza Provincia autonoma: la Ladinia.
Ironia della sorte, il relativo disegno di legge vedeva la luce poche settimane prima che il ministro del Carroccio Roberto Calderoli fosse costretto a presentare una proposta per ridurre le Province. La famosa lettera della Banca centrale europea recapitata il 5 agosto 2011 al governo italiano parlava chiaro: «C’è l’esigenza di un forte impegno ad abolire o fondere alcuni strati amministrativi intermedi, come le Province».
E pure la Lega si dovette piegare.
Ma per finta: il taglio svanì in poche ore come neve al sole di Ferragosto.
Poi è arrivato Mario Monti, e nel decreto salva Italia è comparsa una disposizione all’apparenza categorica.
Il trasferimento a Comuni e Regioni delle funzioni attribuite alle Province, relegate a organi non più elettivi con un numero limitato di consiglieri scelti dalle amministrazioni comunali.
All’inizio questa tagliola doveva scattare automaticamente entro aprile 2012.
Poi è successo il finimondo. Mentre il presidente berlusconiano della Provincia di Latina Armando Cusani ringhiava «noi ce ne andiamo dall’Unione delle Province italiane», il segretario di Rifondazione comunista dava man forte ai rivoltosi con queste parole: «Vi appoggiamo perchè la vostra è una battaglia di democrazia».
Così nella versione definitiva del salva Italia è spuntato un comma che prevede una legge dello Stato, da emanarsi entro dicembre prossimo, per rendere operativa la riforma.
Un modo per prendere tempo e rimandare la resa dei conti. Organizzando la resistenza.
Scontato, dunque, che quella legge prevista dal salva Italia stia incontrando serie difficoltà  in Parlamento, dove è stata sollevata perfino la solita questione della «copertura finanziaria».
E fosse soltanto quello il problema.
Il pericolo più grande a quanto pare viene dalla Corte costituzionale, che il 6 novembre esaminerà  i ricorsi prontamente presentati contro il decreto di dicembre.
Se li dovesse accogliere, come dicono molti esperti, la riforma di Monti salterebbe e le Province resterebbero in vita esattamente come oggi.
Ecco perciò che accanto al piano A, avviato sul binario morto, è spuntato un piano B.
Da attuarsi forse con decreto legge, in parallelo alla revisione della spesa, che potrebbe contenere anche una micidiale pillola avvelenata per tutti gli enti locali.
Ossia il divieto alla costituzione di nuovi enti o società  per funzioni che può svolgere direttamente l’amministrazione.
Per evitare rischi di ricorsi alla Consulta il piano B prevede che le Province mantengano tre funzioni quali strade, ambiente e gestione delle aree vaste.
Le giunte saranno comunque azzerate e i consigli, non più elettivi, ridotti all’osso come previsto dal decreto salva Italia.
Il numero degli enti verrebbe però tagliato, utilizzando criteri in parte simili a quelli della proposta abortita di Calderoli.
Sopravviveranno soltanto le Province in gradi di soddisfare almeno due dei seguenti tre requisiti: superficie di almeno 3.000 chilometri quadrati, popolazione superiore a 350 mila abitanti e oltre 50 Comuni presenti nel territorio.
Dalle attuali 107 (tolte la Valle d’Aosta e le Province autonome di Trento e Bolzano) si passerebbe a 54.
Meno di quelle (59) esistenti nel 1861.
In realtà , attenendosi scrupolosamente ai parametri, il loro numero dovrebbe addirittura scendere a 50. Si è tuttavia stabilito di salvare i capoluoghi di Regione che pur non hanno i requisiti, come Venezia, Ancona, Trieste e Campobasso.
Dieci Province, inoltre, dovrebbero scomparire in un secondo momento se e quando verranno finalmente istituite, com’è previsto fin dal 1990, le città  metropolitane.
Nell’elenco, oltre alla stessa Venezia, troviamo Roma, Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari e Reggio Calabria.
Ma non significa che di questi enti definiti da Berlusconi il 5 marzo del 2008 (naturalmente prima dei vari ripensamenti) «inutili e fonti di costo per i cittadini» ne rimarrà  appena una quarantina. Con i criteri di cui sopra, in Toscana scomparirebbero tutte le Province tranne Firenze. Idem in Liguria, con l’eccezione di Genova.
Nell’Emilia-Romagna, sette su nove. In Sicilia, cinque su nove. In Piemonte, la metà  esatta.
E qui comincerà  il gioco degli accorpamenti. Siena e Grosseto accetteranno la coabitazione? Pisa e Livorno, così vicine, saranno disposte a mettere da parte antiche rivalità ? Prato si rassegnerà  a rientrare a Firenze oppure preferirà  Pistoia? Modena e Reggio-Emilia continueranno a essere separate dall’aceto balsamico? E come reagiranno i lodigiani davanti alla prospettiva di essere riuniti ai milanesi?
Tanto basta per dare le dimensioni delle complicazioni che potrebbe portare con sè un’operazione del genere.
Nè rassicura il fatto che l’agguerrita Unione delle Province guidata da Giuseppe Castiglione potrebbe perfino essere d’accordo con lo schema di massima.
Senza poi considerare variabili di altro genere, ma tutt’altro che trascurabili. Ricordate com’è evaporata la scorsa estate la proposta calderoliana?
In partenza dovevano finire sotto la tagliola tutte le Province con meno di 300 mila anime: 37. Ma a patto, fu chiarito, che avessero anche un’estensione inferiore a 3 mila chilometri quadrati: e si scese a 29.
Poi, rivendicando l’autonomia, insorse il governatore del Friuli-Venezia Giulia Renzo Tondo: eccoci a 27.
Quindi i siciliani contestarono l’ipotesi di sopprimere Enna e Caltanissetta (25). Infine protestò il presidente sardo Ugo Cappellacci (22).
E il presidente della provincia di Isernia, Luigi Mazzullo, avanzò il sospetto che a Roma avevano preso l’insolazione (21).
Poche ore dopo, l’annuncio: abbiamo scherzato. Sicuri che non si possa ripetere?

Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera“)

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MANCATI PAGAMENTI TRA IMPRESE: IN CINQUE MESI SONO CRESCIUTI DEL 47%

Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile

ALLA BASE IL CROLLO DEI CONSUMI, LA SRETTA AI PRESTITI BNACARI E I CREDITI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE… I DATI ELABORATI DA UNIMPRESA SU 130.000 AZIENDE

E’ allarme rosso sui mancati pagamenti fra le imprese: nei primi 5 mesi del 2012 sono cresciuti del 47%.
Le aziende non incassano più e le fatture da pagare restano nel cassetto.
Lo rivela un’indagine di Unimpresa che individua tre motivi in particolare: il crollo dei consumi, la stretta ai prestiti bancari e i crediti della Pubblica amministrazione congelati.
L’indagine è stata condotta incrociando i dati delle 130.000 associate di Unimpresa, raccolti nelle 60 sedi sul territorio nazionale, con le informazioni estrapolate da alcune basi dati pubbliche e provate.
Dallo studio emerge un quadro sostanzialmente omogeneo in tutta la Penisola, con una crescita della percentuale di mancati pagamenti leggermente più alta al Mezzogiorno (49,4%) rispetto al Centro-Nord (45,3%).
Quanto ai settori economici, in cima alla “classifica” c’è l’edilizia, poi il commercio, l’artigianato, la piccola industria e l’agricoltura.
La spirale negativa, si legge nella nota di Unimpresa, si fonda su tre ragioni principali, che hanno portato, tra altro, il Paese in recessione.
La crisi ha anzitutto fatto crollare i consumi, modificando i comportamenti delle famiglie che ricorrono alla spesa low cost ormai in maniera sistematica per arrivare alla fine del mese: nel carrello della spesa finiscono solo le offerte speciali e i prodotti scontati, con il risultato di un crollo del fatturato che parte dal piccolo commercio e dalla grande distribuzione e arriva a investire l’intera filiera produttiva, trasporti inclusi.
La seconda ragione sta nella crisi di liquidità  innescata dalla stretta al credito da parte delle banche.
Il terzo fattore che contribuisce a bloccare i pagamenti fra le imprese è il congelamento dei crediti che le stesse imprese vantano nei confronti della pubblica amministrazione: una montagna di 70 miliardi di euro non erosa dalle recenti manovre del Governo, ambiziose ma di difficile attuazione.
Secondo il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi, “siamo sempre più vicini al baratro: dobbiamo constatare giorno dopo giorno che si stanno avverando tutte le nostre previsioni”.
“E mentre il Paese affonda prendiamo atto che al Governo interessano di più le faccende internazionali. E’ chiaro che la svolta passa anche per una ricetta unica dell’Unione europea, ma nel nostro Paese esistono malattie particolari che richiederebbero medicine ad hoc. E si tratta di misure urgenti, senza le quali – afferma – alle fine di quest’anno potremmo fare i conti con un quadro devastante. A nostro giudizio il ciclo economico può ripartire anche ricorrendo a importanti investimenti pubblici, da rilanciare in tempi rapidissimi”, conclude Longobardi.

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IL RITORNO DI BERLUSCONI AGITA IL PDL

Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile

A CHIANCIANO AL CONVEGNO PDL SI DISCUTE SULLA POSSIBILITA’ CHE IL CAVALIERE PARTECIPI ALLE PRIMARIE DI PARTITO… LA SITUAZIONE DIVENTEREBBE IMBARAZZANTE PER ALFANO

Le rinnovate ambizioni politiche di Silvio Berlusconi agitano il confronto interno al Pdl.
Una sua candidatura alle primarie di partito non è affatto esclusa, ma a dirlo potrà  essere solo il Cavaliere, avverte il segretario Angelino Alfano quasi a voler frenare l’entusiasmo con cui i giornali della destra, da Libero a Il Giornale, stanno spingendo il Cavaliere a riprendere il centro della scena.
Dopo aver sottolineato che in certa stampa esiste “un eccesso di zelo”, Alfano sottolinea che “quando e se” Berlusconi dovesse candidarsi, “lo dirà  lui soltanto e lo dirà  con chiarezza”.
“Noi – precisa – abbiamo scelto la strada delle primarie e ciò che conta e ciò che è bello lo scelgono i cittadini e non i giornalisti. Noi vogliamo fare in modo che ci sia una grande gara delle idee e tra le idee per scegliere il candidato alla premiership. Poi pensiamo che per vincere ci voglia una coalizione e lavoreremo per costruire un’ampia coalizione ancora in grado di non regalare questo nostro meraviglioso Paese alla sinistra, che non ha un programma di governo capace di tirarci fuori dalle secche della crisi”
“Penso che Berlusconi – dice ancora il segretario – sia un leader in campo che non è mai uscito dal campo, perchè la sua presenza e la sua forza politica sono sempre espresse: fino a novembre al governo e da novembre con l contributo e il sostegno a questo governo”.
Sostegno che andrà  avanti anche nelle prossime settimane in quanto l’ipotesi di elezioni ad ottobre sono secondo Alfano solo “un transfert psicologico di Bersani che scarica sul Popolo delle Libertà  le dichiarazioni pubbliche del suo responsabile dell’economia (Fassina, ndr)”.
“Noi abbiamo detto con chiarezza – prosegue – che non abbiamo mai dato una scadenza a questo governo e che lo stiamo sostenendo”.
La possibilità  di un ritorno di Silvio Berlusconi ha comunque segnato il confronto in corso a Muovititalia, l’iniziativa promossa a Chianciano dalla “Fondazione della libertà ” insieme all’associazione culturale Meridiana.
Se Berlusconi decidesse di candidarsi premier, mette in guardia l’ex ministro Altero Matteoli parlando al meeting, nessuno potrebbe dirgli di no.
“Nessuno ha mai messo in dubbio, a partire da Alfano, che il nostro leader è Berlusconi – sottolineato l’ex esponente di An – quindi se Berlusconi decidesse di ricandidarsi non ci sarebbe nessuno nel partito che gli potrebbe dire di no, E questa diatriba tra Berlusconi e Alfano è alimentata solo dai giornali. Alfano non ha nessuna voglia di mettersi in contrapposizione a Berlusconi”.
Matteoli boccia però l’ipotesi delle liste civiche da affiancare al Pdl. “Nascerebbe un altro partito? Io ho dato vita insieme ad altri al Pdl, non sono pentito, non sono contento di come funziona e dobbiamo farlo funzionare meglio. Ma per tutto il resto non è possibile pensare di poter fare lo spezzatino, ci renderebbe ridicoli e ci porterebbe sicuramente alla sconfitta”, commenta l’ex ministro.

(da “La Repubblica”)

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SCHAUBLE E IL DOSSIER DI BERLINO: “SE CROLLA L’EURO L’ECONOMIA TEDESCA CADRA’ DEL 10%”

Giugno 26th, 2012 Riccardo Fucile

INTERVISTA ALLO «SPIEGEL», IL MINISTRO DELLE FINANZE TEDESCO: NO ALLA DISINTEGRAZIONE, CI SARANNO 5 MILIONI DI DISOCCUPATI, A RISCHIO ANCHE VIAGGIARE”

È un vero incubo il futuro economico della Germania, e con lei di tutta l’eurozona, se la moneta unica dovesse crollare.
A tracciare i dettagli di questo scenario pauroso è uno studio dei tecnici del ministero delle Finanze tedesco, il gigantesco palazzo della Wilhelmstrasse, già  quartier generale di Hermann Gà¶ring e dell’amministrazione militare sovietica, dove ora regna Wolfgang Schà¤uble, uno dei protagonisti dell’europeismo tedesco.
Il rapporto è stato rivelato, nei punti fondamentali, dal settimanale «Der Spiegel», che ha citato un funzionario del ministero, secondo il quale «di fronte a queste prospettive, anche un salvataggio dell’euro a caro prezzo appare come il minore dei mali».
L’articolo dello «Spiegel», intitolato «Uno sguardo sull’abisso », è corredato da una serie di dati che confermano indicazioni «molto tetre» per tutti i Paesi dell’eurozona.
In un grafico, una freccia nera indica l’aumento della disoccupazione nel primo dei due anni successivi alla eventuale fine della moneta unica, mentre una freccia rossa indica la contrazione dell’economia.
E molti di questi valori percentuali, nei vari Stati, superano la doppia cifra, in particolare per quanto riguarda le nazioni più esposte, come per esempio l’Italia, dove il tasso di disoccupazione salirebbe al 12,3 per cento.
Ma anche la locomotiva tedesca, e questo è il vero punto critico dello studio degli uomini di Schà¤uble, verrebbe pesantemente danneggiata.
L’economia della Germania subirebbe una caduta del 9,2 per cento mentre il numero dei disoccupati salirebbe al 9,3 per cento.
I senza lavoro supererebbero i 5 milioni, una cifra quasi doppia rispetto a quella attuale Il ministero della Finanze tedesco non ha smentito nè confermato le rivelazioni dello «Spiegel », secondo cui il documento è stato tenuto fino a oggi riservato nel timore che i costi delle iniziative per salvare l’euro uscissero fuori da ogni controllo.
«Non prenderemo parte a speculazioni su presunti rapporti segreti», ha detto una portavoce. Ma a fianco dell’articolo del settimanale di Amburgo, in una lunga intervista, è lo stesso Schà¤uble ad avvertire che una disintegrazione «sarebbe assurda» e che l’unione monetaria, non solo non è stato assolutamente un errore, come gli era stato chiesto, ma è stata la «logica conseguenza» dell’integrazione comunitaria.
Il ministro, esponente di punta del partito cristiano democratico che fu di Helmut Kohl, avverte inoltre che una rottura della zona euro rimetterebbe in questione conquiste che sono ormai entrate nel patrimonio acquisito di tutti i cittadini, come il mercato unico e la libera circolazione.
Le rivelazioni sui calcoli che si sono fatti a Berlino sulle conseguenze di un collasso della moneta unica arrivano proprio in una settimana decisiva per il futuro europeo, con il vertice dei Ventisette che sarà  chiamato il 28 e 29 giugno a trovare delle ricette in grado di contribuire a superare la crisi.
In realtà , la linea cauta di Angela Merkel–convinta della necessità  di non distaccarsi da un rigido controllo delle discipline di bilancio, contraria alla condivisione dei debiti con i Paesi meno virtuosi dell’eurozona, indisponibile a provvedimenti per stimolare la crescita che si traducano in nuove spese–è sempre partita dalla premessa, almeno a parole, di un impegno prioritario per la difesa della moneta unica. «La fine dell’euro – è stata una delle frasi più frequenti della cancelliera – sarebbe la fine dell’Europa».
Intanto, sempre questa settimana, alla vigilia del summit di Bruxelles, Schà¤uble presenterà  la nuova legge finanziaria che prevede nel 2013 il pareggio di bilancio.
Questo dato era stato anticipato da alcuni istituti di ricerca, che avevano avvertito però nello stesso tempo delle pesanti conseguenze per i conti pubblici tedeschi di una escalation della crisi europea. In tutti i casi, insomma, la Germania non può dormire sonni tranquilli.

Paolo Lepri

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