Agosto 7th, 2013 Riccardo Fucile
PAROLA D’ORDINE: NON ATTACCARE NAPOLITANO
«Spero ancora che Giorgio Napolitano ci ripensi a settembre, ora è tutto nelle sue mani». Silvio
Berlusconi lascia Roma per ritirarsi ad Arcore e allo stato maggiore del partito rassegna poco più che una speranza.
Non si fa grandi illusioni, nonostante gli incoraggiamenti di Gianni Letta, di Angelino Alfano, dei ministri
Ad alimentare quella che a Palazzo Grazioli definiscono con un certo minimalismo una «trepida fiammella» è la nota pubblicata ieri dal Quirinale.
Sebbene quelle poche righe altro non sono che un avvertimento a non esercitare pressioni, a non interferire. Berlusconi e i suoi si appigliano nonostante tutto a quel «non ci sono allo stato posizioni definite», con cui in realtà Napolitano si augura che non vi sia alcuna «intrusione in una fase di esame e riflessione che richiede il massimo di ponderazione e serenità ».
Parole che seguono certe interpretazioni di stampa ritenute forzate e l’incontro di due giorni fa con cui i capigruppo Pdl chiedevano che fosse restituita l’«agibilità politica» al loro capo condannato in via definitiva per frode fiscale.
Il fatto è che il Quirinale, nel rigettare qualsiasi interferenza, non dà nulla di scontato e soprattutto lascia intendere che nessuna decisione sarà adottata ad horas, tantomeno in settimana, come l’inquilino di Palazzo Grazioli in un primo momento si attendeva.
Se riflessione è in corso, al Colle, richiederà comunque tempo. Ed è la ragione per cui Silvio Berlusconi, a sorpresa, non si trattiene oltre e lascia nel tardo pomeriggio Roma per concedersi giorni di relax tra Arcore e (forse) Porto Rotondo.
Servirà , spiega ai suoi, anche a stemperare il clima dopo la tempesta dei giorni scorsi, a far scendere la temperatura.
Il Cavaliere resta stremato, pessimista, spaventato dalla possibile, ulteriore escalation giudiziaria dei prossimi mesi.
Nulla accadrà nel prossimo mese, forse anche due, del resto il leader condannato ha tempo fino al 15 ottobre per optare tra domiciliari e servizi sociali.
Opzione rispetto alla quale anche ieri è stato categorico: «Io non scelgo nessuna alternativa, se non pensano di dovermi salvare, allora io andrò in carcere » non tenendo conto del fatto che l’ipotesi è già esclusa dalle leggi in vigore, oltre che dalla Procura di Milano
Di più. Per tutto il giorno lo stato maggiore del partito, dalla Gelmini allo stesso Bondi (che domenica si era lanciato in una filippica contro Napolitano), hanno preso le difese del Quirinale dall’ennesimo attacco di Beppe Grillo.
È la strategia del momento, con un obiettivo ben preciso, non proprio disinteressato: alimentare un clima «favorevole » attorno al Colle.
E non è un caso se anche dopo l’«incidente » dell’intervista al Mattino in cui il presidente di sezione che lo ha condannato, Antonio Esposito, Silvio Berlusconi è rimasto silente.
Si scatena il fuoco di fila di tutto il Pdl per delegittimare la sentenza, ma tace ufficialmente il leader.
Che pure, racconta chi lo ha incontrato, è rimasto in un primo momento amareggiato, sconvolto dalle parole del magistrato. Sono la «prova – dal suo punto di vista – che tutto era già deciso, che la sentenza era già scritta, che dovevo essere condannato». Poi, col trascorrere delle ore, il quadro muta, Berlusconi sente gli avvocati che lo illuminano sulle «opportunità », sul varco che quell’intervista apre.
«Il Colle non può non tenerne conto» nel valutare la situazione, è il ragionamento che prende campo e che alimenta, a sua volta, speranze e illusioni.
Ma non per questo vuole abbassare la guardia.
Lascia Roma anche perchè la giunta delle elezioni del Senato che oggi dovrà esaminare il nodo della decadenza farà slittare i lavori a settembre.
Non c’è bisogno di presidiare il «territorio» ma «dobbiamo continuare a difenderci, a far capire alla gente che la persecuzione è in atto, che mi vogliono in carcere» ha scandito Berlusconi dopo aver riunito ancora una volta coordinatori e dirigenti nella sua residenza prima di partire.
La decisione maturata, col sostegno della responsabile organizzazione Santanchè e di Verdini, soprattutto, è quella di promuovere in queste settimane di agosto delle iniziative a livello locale, con l’aiuto dei coordinatori regionali.
Una sorta di campagna da «Salvate il soldato Silvio», con raccolta di firme, gazebo e piccole manifestazioni.
Ma senza mai alzare i toni contro la magistratura, tanto meno contro il governo o il capo dello Stato, è l’ordine di scuderia.
Il Berlusconi che abbandona Roma lascia sotto la cenere tuttavia la fiamma destinata a divampare ancora una volta tra falchi e colombe. I pidiellini in Transatlantico sono di nuovo trincea.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Agosto 7th, 2013 Riccardo Fucile
UN IMPERO FONDATO SUI FONDI NERI: LA CARRIERA DI CHI, DOPO AVER PAGATO POLITICI, GIUDICI E FINANZIERI, HA PURE CAMBIATO LE LEGGI IN SUO FAVORE
Secondo Angelo Panebianco, editorialista del Corriere (e non solo lui), la condanna definitiva di B. per frode fiscale non dipende dal fatto che B. è un frodatore fiscale, ma dallo “squilibrio di potenza fra magistrati e politica”.
Perchè in Italia la politica sarebbe “un potere debole e diviso” che non riesce a riformare il “potere molto più forte e unito” della magistratura.
Solo separando le carriere, abolendo l’azione penale obbligatoria, trasformando il pm in “avvocato dell’accusa”, spogliando il Csm, cambiando la scuola e il reclutamento delle toghe e rimpolpando i poteri del governo nella Costituzione si eviteranno sentenze come quella del 1° agosto.
Forse Panebianco non sa che in tutte le democrazie del mondo, anche quelle che hanno da sempre nel loro ordinamento le riforme da lui auspicate, capita di continuo che uomini politici vengano condannati se frodano il fisco, con l’aggiunta che vengono pure arrestati e, un attimo prima, cacciati dalla vita politica.
Ma soprattutto il nostro esperto di nonsisachè ignora la carriera di B., che froda il fisco da quando aveva i calzoni corti.
E se non fu scoperto all’epoca è perchè con i fondi neri corrompeva politici, Guardia di Finanza e giudici che avrebbero potuto scoperchiare le sue frodi fin dagli anni 70. Chi conosce il curriculum del neo-pregiudicato non si stupisce per la condanna dell’altro giorno, ma per il fatto che sia rimasto a piede libero fino a oggi.
La prima visita.
Il 12 novembre 1979 una squadretta della Guardia di Finanza ispeziona l’Edilnord Centri Residenziali Sas che sta realizzando a Segrate la città -satellite di Milano2, sospettata di varie irregolarità tributarie.
Nel cantiere, con alcuni operai, c’è un omino spelacchiato e imbrillantinato che si presenta come “semplice consulente” della società .
È Silvio Berlusconi, il proprietario, iscritto da un anno alla loggia deviata P2. I finanzieri vogliono sapere perchè abbia prestato fideiussioni personali in favore di Edilnord e Sogeat, società il cui capitale è ufficialmente controllato da misteriosi soci svizzeri.
Ma lui fa lo gnorri e mette a verbale: “Ho svolto un ruolo molto importante nei confronti dell’Edilnord Centri Residenziali e della Società generale attrezzature Sas, perchè entrambe mi hanno fin dall’inizio affidato l’incarico professionale della progettazione e della direzione del complesso residenziale Milano 2”.
Anzichè ridergli in faccia e approfondire le indagini, il maggiore Massimo Maria Berruti che guida la squadra si beve tutto, chiude l’ispezione in meno di un mese, nonostante le anomalie finanziarie riscontrate e archivia tutto con una relazione rose e fiori.
Poi, il 12 marzo 1980, si dimette dalle Fiamme Gialle. Per qualche mese lavora per l’avvocato d’affari Alessandro Carnelutti, titolare a Milano di un importante studio legale con sedi a New York e Londra, dove si appoggia all’avvocato inglese David Mackenzie Mills.
Poi Berruti inizia a lavorare per il gruppo Fininvest, specializzandosi in operazioni finanziarie estere e in contratti per i calciatori stranieri del Milan.
Gli altri due graduati che erano con lui nel blitz del ’79 sono il colonnello Salvatore Gallo e il capitano Alberto Corrado.
Il nome di Gallo verrà trovato nelle liste della loggia P2. Corrado verrà arrestato nel ’94 e poi condannato con Berruti per i depistaggi nell’inchiesta sulle mazzette Fininvest.
Versate a chi? Alla Guardia di finanza, naturalmente.
San Bettino vede e provvede.
Nel 1980 Berlusconi rischia di ritrovarsi un’altra volta la Finanza in casa. Allarmatissimo, scrive una lettera all’amico Bettino Craxi, leader del Psi che sostiene il governo Cossiga: “Caro Bettino, come ti ho accennato verbalmente, Radio Fante ha annunciato che dopo la visita a Torino, Guffanti e Cabassi, la Polizia tributaria si interesserà a me… Ti ringrazio per quello che crederai sia giusto fare” (lettera pubblicata dal fotografo di Craxi, Umberto Cicconi, in Segreti e misfatti, Roma 2005).
Che si sappia, anche quella volta le Fiamme Gialle si tengono alla larga dal Biscione. Che evidentemente ha sempre più cose da nascondere.
Giudici venduti e no
Il 24 maggio 1984 il vicecapo dell’Ufficio Istruzione di Roma, Renato Squillante, interroga B., assistito dall’avvocato Cesare Previti e imputato “ai sensi dell’articolo 1 della legge 15/12/69 n. 932” per interruzione di pubblico servizio a causa delle presunte antenne abusive sul Monte Cavo che interferiscono nelle frequenze radio della Protezione civile e dell’aeroporto di Fiumicino.
Gli imputati sono un centinaio. Ma la posizione di B. viene subito archiviata il 20 luglio 1985, mentre altri 45 rimarranno sulla graticola fino al 1992 e se la caveranno solo grazie al-l’amnistia.
Non potevano sapere che Squillante e Previti avevano conti comunicanti in Svizzera. Insomma, che il giudice romano era a libro paga della Fininvest.
Il 16 ottobre 1984 i pretori di Torino, Pescara e Roma, Giuseppe Casalbore, Nicola Trifuoggi e Adriano Sansa, sequestrano gli impianti che consentono a Canale 5, Italia 1 e Rete 4 di trasmettere in contemporanea in tutt’Italia in spregio alla legge.
Craxi neutralizza le ordinanze con due “decreti Berlusconi”.
Mills e la Fininvest occulta
Nel 1989 l’avvocato Mills, consulente Fininvest da alcuni anni, costituisce per conto del gruppo Berlusconi la All Iberian e decine di altre società offshore (la Kpmg, per conto della Procura di Milano, arriverà a contarne 64) domiciliate nelle isole del Canale (all’ombra di Sua Maestà britannica), nelle Isole Vergini e in altri paradisi fiscali.
Ordine è partito dai responsabili della finanza estera del gruppo, Candia Camaggi e Giorgio Vanoni.
Nasce così il “Comparto B” della Fininvest, “very discreet”, cioè occulto e in gran parte mai dichiarato nei bilanci consolidati, alimentato perlopiù dalla Silvio Berlusconi Finanziaria Sa (società lussemburghese regolarmente registrata a bilancio), ma anche da denaro proveniente dal Cavaliere in persona (in contanti, tramite “spalloni” che lo portano da Milano oltre il confine elvetico).
Sul conto svizzero di All Iberian, in soli sei anni, transitano in nero quasi mille miliardi di lire. Usati per operazioni riservate e inconfessabili, come confermeranno le sentenze definitive All Iberian, Mills e Mediaset.
Anzitutto, B. versa 23 miliardi a Craxi tra il 1990 e il ’91.
Gira soldi di nascosto ai suoi prestanome Renato Della Valle e Leo Kirch: non potendo, per la legge Mammì, detenere piຠdel 10% di Telepiàº, B. finanzia occultamente le teste di legno che rilevano le sue quote eccedenti.
Acquista per 456 miliardi il capitale di Telecinco, la tv spagnola, di cui per la legge antitrust di Madrid non potrebbe controllare più del 25%.
Presta soldi a Giulio Margara, presidente di Auditel e direttore di Upa, l’associazione utenti pubblicitari.
Gira 16 miliardi a Previti, in parte per pagarlo in nero in parte perchè versi tangenti a giudici romani come Squillante e Vittorio Metta (autore della sentenza comprata che nel 1990 scippa la Mondadori a De Benedetti per regalarla alla Fininvest).
Scala di nascosto i gruppi Rinascente, Standa e Mondadori in barba alla normativa Consob .
E soprattutto, tramite alcune offshore, intermedia l’acquisto di film dalle major di Hollywood, facendone lievitare i costi per 368 milioni di dollari e dunque abbattendo gli utili di Mediaset per tutti gli anni 90, consentendo al gruppo di pagare meno imposte e al beneficiario dei conti esterni, cioè a se stesso, di accumulare una fortuna extrabilancio ed esentasse. E cosà via.
Resta pure il sospetto che parte del denaro di destinazione ignota sia servito a pagare i politici del pentapartito per la legge Mammì del 1990 sull’emittenza: quella che consente a B. di tenersi tutt’e tre le reti Fininvest in barba a qualunque minimo principio antitrust.
Lo testimoniano i responsabili della Fiduciaria Orefici, che aiuta il Cavaliere a foraggiare il conto All Iberian: il dirigente Fininvest Mario Moranzoni confidò loro che “i politici costano, c’è in ballo la Mammà”.
Per le presunte tangenti Fininvest in cambio di quella legge, la magistratura romana indagherà Gianni Letta e Adriano Galliani, ma l’ufficio Gip guidato da Squillante negherà il loro arresto, e l’inchiesta finirà nel nulla.
Le Fiamme Sporche
Nel 1989 il responsabile servizi fiscali della Fininvest, Salvatore Sciascia, altro ex finanziere passato alla corte del Cavaliere, si libera di una verifica fiscale a Videotime (la società Fininvest che racchiude Canale5, Rete4 e Italia1) versando ai finanzieri una tangente di 100 milioni di lire.
Lo stesso fa nel 1991 con 130 milioni scuciti per ammorbidire un’ispezione a Mondadori. E poi nel 1992 con altri 100 milioni per una visita delle Fiamme Gialle a Mediolanum.
E ancora nel 1994 con 50 milioni perchè i finanzieri chiudano un occhio, o possibilmente due, durante un blitz disposto dalla Procura di Roma e dal Garante per l’editoria sulla reale proprietà di Telepiù: che, se dovesse risultare ancora in mano a B. tramite i soliti prestanome (così com’è nella realtà ), porterebbe al-l’immediata revoca delle concessioni per Canale5, Rete4 e Italia1.
Ma anche quella volta i finanzieri corrotti se ne vanno con gli occhi bendati. Nel ’94, appena un sottufficiale confessa a Di Pietro di aver ricevuto parte di una tangente Fininvest, esplode lo scandalo Fiamme Sporche, che in poche settimane porta all’arresto di un centinaio di finanzieri corrotti e all’incriminazione di oltre 500 imprenditori e manager corruttori (il Gotha dell’imprenditoria milanese).
Confessano quasi tutti. Tranne uno: Silvio B., che non può ammettere nulla perchè è appenadivenuto presidente del Consiglio. Sciascia dice che ha fatto tutto per ordine di Paolo Berlusconi, Silvio non c’entra nulla.
Intanto l’avvocato Berruti chiama l’ex collega Corrado (quello dell’ispezione del 1979), ormai in pensione, perchè tappi la bocca sulle mazzette Fininvest il capobanda, colonnello Angelo Tanca. E così avviene.
Quando il pool Mani Pulite ha pronta la richiesta di cattura per Sciascia e Paolo, il governo di Silvio vieta la manette per corruzione col decreto Biondi.
È il 14 luglio ’94.
L’Italia si ribella, Bossi e Fini si defilano, B. è costretto a ritirare il decreto a furor di popolo, così finiscono dentro Sciascia, Paolo, Corrado e Berruti. Il quale, si scopre, prima di orchestrare il depistaggio è volato a Roma per incontrare il premier a Palazzo Chigi. La prova che ha fatto tutto Silvio, non Paolo.
Di qui l’invito a comparire durante la conferenza Onu di Napoli e poi il processo. Primo grado: condannati Silvio e Sciascia, assolto Paolo.
Appello: prescritto Silvio, condannato Sciascia.
Cassazione: condannato Sciascia, assolto per insufficienza di prove Silvio, perchè potrebbe essere stato Paolo, che però non può essere riprocessato una volta assolto.
La prova contro Silvio potrebbe, anzi dovrebbe fornirla Mills, sentito come testimone al processo: purtroppo è stato corrotto con 600mila dollari e mente ai giudici, salvando il Cavaliere.
9 processi aboliti per legge
Ma le tangenti c’erano, e quello che il gruppo Berlusconi ha da nascondere alla Guardia di Finanza è più che evidente.
Lo dimostra la miriade di processi nati da quei fondi neri negli anni 90, quando i giudici e i finanzieri corrotti iniziano a scarseggiare.
Non potendoli neutralizzare a monte a suon di mazzette, B. li cancella a valle con una raffica di leggi ad personam: falso in bilancio, condoni fiscali ed ex Cirielli.
Risultato: 2 processi fulminati perchè il reato non c’è più, cancellato dall’imputato (All Iberian-2 e Sme-2) e 8 caduti in prescrizione. L’ultimo, per il semplice decorrere del tempo, sulla divulgazione dell’intercettazione della telefonata segreta e rubata tra Fassino e Consorte. Gli altri 7: corruzione del giudice Metta per la sentenza Mondadori e caso All Iberian-1 per i 23 miliardi a Craxi (prescritti grazie alle attenuanti generiche); falsi in bilancio Fininvest anni 90; altri falsi in bilancio per i 1550 miliardi di lire di fondi neri sottratti al consolidato col sistema All Iberian; fondi neri nel passaggio del calciatore Lentini dal Torino al Milan; corruzione giudiziaria del teste Mills (prescritti grazie al-l’ex Cirielli); appropriazioni indebite e i falsi in bilancio e la gran parte delle frodi fiscali sui diritti Mediaset (prescritti grazie al combinato disposto della legge sul falso in bilancio e all’ex Cirielli). I reati superstiti, e cioè le frodi fiscali del 2002 e 2003, per un totale di 7 milioni di euro (su un totale di 360 milioni di dollari, ormai evaporati), sono miracolosamente giunti in Cassazione per la sentenza definitiva del 1° agosto prima della solita falcidie.
Sarebbe questo il sintomo di una politica debole e di una giustizia forte?
E che c’entra, con questa fogna, la politica?
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 7th, 2013 Riccardo Fucile
FIUMI DI INCHIOSTRO PER CHIEDERE UN SALVACONDOTTO PER BERLUSCONI AL CAPO DELLO STATO
Smussare, anestetizzare, deviare, depistare, sminuire. 
A quasi una settimana dalla sentenza del primo agosto, prende sempre più forma sui quotidiani il partitone trasversale dell’impunità per Silvio Berlusconi.
La sua “agibilità politica”, nuova definizione che imperversa in editoriali, cronache e retroscena, non sta più a cuore solo ai pasdaran del centrodestra.
Il salvacondotto per il Cavaliere, ammesso che si trovi una forma, è anche il salvacondotto per Enrico Letta e il suo governo delle larghe intese, perpetuazione politica della maggioranza che già sostenne Mario Monti.
Due anni di regime dell’inciucio, sotto la protezione del Colle.
Con il premier Letta che ieri ha sentenziato: “Basta giochini che fanno male al Paese, non c’è alternativa alla stabilità ”.
Proprio in questa chiave, spicca l’editoriale di Angelo Panebianco, fama di politologo moderato, sul Corriere della Sera di ieri.
Per il quotidiano di Ferruccio de Bortoli c’è una riforma da fare, quella “più difficile”. La giustizia, ovviamente.
Sostiene Panebianco: “Così come non c’è stata mai nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la terza”.
L’impunità come le colonne d’Ercole del nuovo regime. Nelle sue considerazioni, il politologo unisce Napolitano e Berlusconi in una sola direzione.
Addirittura fa suo l’attacco rivolto ai magistrati dal condannato domenica scorsa, sul palco davanti Palazzo Grazioli, e scrive: “La magistratura è l’unico potere forte oggi esistente in questo Paese e lo è perchè tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli”. Per rimediare allo “squilibrio” c’è un solo “rimedio”. Quello indicato dal Quirinale il giorno stesso della sentenza di B. Altro che contentino.
Il sentiero arato da Panebianco tratteggia una impunità gigantesca, per tutto il Sistema.
Il potere politico deve diventare “forte” per imporre una rivoluzione culturale ai magistrati.
Una rieducazione di stampo siberiano: “si incida sulla mentalità ”, “si iniettino dosi massicce di sapere empirico”.
Panebianco è senza freni: “Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà . È ormai inaccettabile che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale”.
Ancora: “È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l’impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni”. L’editorialista pensa all’Ilva e nelle riflessioni è implicito l’impatto politico.
Con “dosi massicce di sapere empirico”, la Cassazione non avrebbe mai condannato definitivamente Berlusconi.
Quale potrebbe essere l’approdo di una riforma della giustizia?
Stefano Folli lo indica chiaramente sul Sole 24 Ore, il quotidiano confindustriale: “Una volta fatta la riforma, ci sarebbe spazio per chiudere con un’amnistia i carichi di una lunga stagione”. Lo scenario di Berlusconi in galera è quello con cui bisogna fare i conti.
Ma in nome del Paese, altro refrain caro ai sostenitori delle larghe intese, come La Stampa della Fiat, è necessario anche “normalizzare” la condanna.
Al punto da ritenere normale, appunto, il comizio di un condannato contro i magistrati. Dall’editoriale di Emanuele Macaluso sull’Unità di ieri: “Le manifestazioni dei fedelissimi di Berlusconi erano prevedibili e, tenuto conto di cos’è il Pdl, sono anche comprensibili”.
Il titolo, “Berlusconi era già fuorigioco”, è una variante al gioco dell’impunità di questi giorni. Sminuire, nascondere. È importante altro.
La frase chiave, al comizio di B. di domenica scorsa, è stata: “Il governo deve andare avanti”.
E così oggi si è generata una nuova attesa, dopo quella vissuta per la sentenza.
Come salvare Berlusconi? Con il lodo Sallusti, per esempio.
Il direttore del Giornale venne condannato dopo un processo per diffamazione e il capo dello Stato gli commutò la pena in senso pecuniario.
Questa è solo una delle tante ipotesi riportate ieri dai quotidiani. Un vero dibattito sull’impunità per Berlusconi. È normale? Per la cronaca, il Colle ieri ha smentito il quirinalista più autorevole dei media, Marzio Breda del Corsera, sulla possibilità di “una salvezza parlamentare” del Cavaliere. Come si procederà ?
A Palazzo Grazioli, ieri pomeriggio, Berlusconi prima di ripartire per Arcore ha tenuto riunioni su riunioni.
Coi legali è stata valutata la possibilità di chiedere la revisione della sentenza della Cassazione dopo le esternazioni di Esposito, presidente della sezione feriali.
I falchi gli hanno ripetuto che “il Colle vuole solo prendere tempo e imbrogliarlo” e che “si esce da questa situazione solo con le elezioni”.
Nel Pdl i fautori delle larghe intese sono le fatidiche colombe di Alfano e ministri pidiellini. L’impunità è un salvacondotto soprattutto per loro, per continuare a stare nell’esecutivo.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 7th, 2013 Riccardo Fucile
“NON È CHE NON POTEVA NON SAPERE” È LA FRASE DELLA POLEMICA PRONUNCIATA DAL GIUDICE ANTONIO ESPOSITO AL “MATTINO”
Pensava di fare un bel dono al vecchio amico giornalista: un’intervista esclusiva che tutti cercavano.
Dopo avere detto di no a tv, radio e grandi quotidiani nazionali, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha giudicato Berlusconi colpevole di frode fiscale, Antonio Esposito, 72 anni da Sarno, si è concesso al Mattino, per l’esattezza ad Antonio Manzo, 53 anni da Eboli.
Si erano conosciuti trenta anni prima, Esposito pretore a Sapri e Manzo cronista ventenne a caccia di scoop, oggi caporedattore e inviato speciale del Mattino.
Esposito si fidava di Manzo e il giorno della sentenza che ha condannato Berlusconi non gli aveva detto un no secco come ai colleghi ma solo: “Tranquillo, te la do l’intervista, quando le acque si calmano”.
Ora le acque si sono agitate e parecchio.
Il ministro della Giustizia Cancellieri sta valutando l’ipotesi dell’azione disciplinare nei confronti di Esposito e tre membri laici del Pdl che fanno parte del Csm — Filiberto Palumbo, Bartolomeo Romano e Nicolò Zanon — chiedono l’apertura di una pratica sulle sue dichiarazioni.
L’intervista a pochi giorni dalla sentenza, quando il dispositivo è noto ma la motivazione deve ancora essere stesa, è un’ingenuità che il fronte berlusconiano non si è fatta sfuggire.
Il presidente della Cassazione Giorgio Santacroce ha convocato Esposito ieri pomeriggio nel Palazzaccio, alla presenza del segretario generale Franco Ippolito. Esposito si è difeso, ha smentito alcuni passi dell’intervista e ha prodotto un fax inviatogli dal Mattino con il testo concordato dopo una lunga telefonata con Manzo.
Il fax non contiene la frase che ha suscitato su di lui le maggiori critiche.
Santacroce ha preso atto e poi ha scritto una relazione urgente al ministro con allegato il fax, che pubblichiamo sopra.
Nell’intervista pubblicata dal Mattino, Esposito dopo avere parlato del principio del ‘non poteva non sapere’ in generale (“Potrebbe essere una argomentazione logica, ma non può mai diventare principio alla base di una sentenza”) risponde a una domanda precisa del cronista.
Manzo chiede “Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?”.
Esposito nel testo risponde:“Noi potremmo dire: tu venivi portato a conoscenza di quel che succedeva. Non è che tu non potevi non sapere perchè eri il capo. Teoricamente, il capo potrebbe non sapere. No, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Tu non potevi non sapere, perchè Tizio, Caio o Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito. È un po’ diverso dal non poteva non sapere”.
La domanda e la risposta non sono contenute nel testo concordato spedito via fax alle 19,30 di lunedì 5 agosto al numero di casa Esposito dalla segreteria di direzione del Mattino.
Il presidente Esposito dice il vero quando dichiara all’Ansa: “Il testo dell’intervista da pubblicare, inviatomi dal giornalista del Mattino, dopo il colloquio telefonico, via fax, alle ore 19,30 del 5 agosto 2013 è stato manipolato con l’inserimento, da parte del giornalista, della domanda…”.
Ma non è del tutto vero che la risposta sul principio “non poteva non sapere”, non sia mai stata data a Manzo.
Semplicemente l’inviato del Mattino ha scelto di fare il suo mestiere fino in fondo infischiandosene del fax inviato, dei decenni di consuetudine con il magistrato e delle conseguenze di questa sua scelta, pienamente legittima, sul giudice. “Quelle parole non erano contenute nel fax ma sono state dette dal giudice Esposito. Per questo abbiamo ritenuto fosse giusto pubblicarle”, spiega Antonio Manzo al Fatto.
Il giudice Esposito nel suo comunicato all’Ansa si duole per il comportamento del giornalista: “È sufficiente confrontare il testo dell’articolo pubblicato dal Mattino con il testo inviatomi alle ore 19,30 (data del fax), da pubblicare, per rendersi conto della gravissima manipolazione che ha consentito al giornalista di confezionare il titolo ‘Berlusconi condannato perchè sapeva non perchè non poteva non sapere’”.
Ma lo stesso Esposito nella conversazione registrata dal giornalista del Mattino e pubblicata sul sito internet della testata partenopea in serata, ha effettivamente accennato alla questione della motivazione possibile della condanna di Berlusconi. Nella conversazione registrata non c’è la domanda specifica sulla motivazione della condanna a Berlusconi.
Dallo spezzone pubblicato sembra di capire che Esposito voglia spiegare al giornalista un principio giuridico generale (‘è stato detto’) tanto che all’amico giornalista fa presente con accento campano: ‘nun me portà ngoppa a stu problem’, cioè non mi fare parlare della motivazione di Berlusconi.
Esposito dice effettivamente “potremmo dire eventualmente nella motivazione” ma poi aggiunge che “è sempre una valutazione di fatto”.
E, come si sa, la valutazione di fatto non dovrebbe essere permessa alla Cassazione, il che fa pensare che alla fine Esposito torni a parlare in generale.
Comunque lo scivolone mediatico di Esposito non avrà conseguenze sul piano del processo a Berlusconi, perchè il verdetto è già definitivo e neanche sul piano disciplinare.
L’articolo 2 della legge 269 del 2006 punisce solo “le pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione” mentre esclude quelli “definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria”, come la sentenza Berlusconi.
Nel 2011 dopo la sentenza sul caso Meredith, il presidente della Corte di Appello di Perugia — Claudio Pratillo Hellmann- ha parlato abbondantemente con la stampa prima del deposito della motivazione.
Nessuno ha avuto nulla da ridire.
Forse perchè è meno rischioso spiegare alla stampa l’assoluzione di Amanda Knox che la condanna di Berlusconi.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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