Marzo 25th, 2017 Riccardo Fucile
LO STUDIO DEL CEPS: “UN PUNTO IN MENO DEL PIL ALL’ANNO, A RISCHIO 184 MILIARDI DI ESPORTAZIONI VERSO IL MERCATO EUROPEO, FUGA DELLE MULTINAZIONALI”
È la settimana della Brexit. Mentre da Roma, i leader dei 27 membri superstiti della Ue tentano di ridefinire un’idea d’Europa, dalla capitale dell’ex impero britannico Theresa May aprirà formalmente, mercoledì, il processo che porterà la Gran Bretagna (anche se non necessariamente tutta) fuori dall’Unione.
Nonostante l’ottimismo di facciata a cui il governo inglese si abbarbica ostinatamente da mesi, è un autentico salto nel buio. Nessuno guadagna dalla ritirata inglese, ma il conto di questo risorgente nazionalismo o di questa nostalgia di insularità , è sproporzionatamente a carico dei sudditi di Elisabetta.
Per la Ue la Brexit pesa per circa mezzo punto del Pil dei 27 paesi rimasti nell’arco di dieci anni.
Per il Regno Unito le perdite sono pari a quasi un punto del Pil nazionale all’anno. Le cifre le mette in fila il Ceps – il think tank diretto da Daniel Gros – in uno studio per conto del Parlamento europeo, appena pubblicato.
Il terreno del divorzio è un interscambio paragonabile, per volume, all’intero commercio Usa-Europa, attraverso l’Atlantico, che è solo di un quinto più grande di quello attraverso la Manica. Ci sono 306 miliardi di euro di esportazioni europee in Inghilterra, contro solo 184 miliardi di importazioni.
Ma l’export europeo è in qualche misura marginale rispetto all’economia europea (equivale a circa il 2,5 per cento del Pil) mentre per Londra quei 184 miliardi di beni venduti in Europa valgono il 7,5 per cento del Pil. In altre parole, se Londra chiude il mercato agli europei, il colpo può essere assorbito sul continente, mentre per gli inglesi sarebbe una catastrofe. Tanto più se ci si aggiungono i servizi, quelli della City in testa che, per gli inglesi valgono altri 122 miliardi di export.
E i contributi al bilancio comunitario? Il buco determinato dalla partenza inglese è pari, secondo il Ceps, a 9 miliardi di euro l’anno, che però, secondo lo studio, sarebbe abbastanza agevole per Bruxelles recuperare.
Se Londra restasse nel mercato unico, le si potrebbe chiedere di continuare a versare la sua quota. Se se ne andasse, e venissero applicate le regole standard del Wto, i soldi arriverebbero da dazi e tariffe, che nel caso dei manufatti, sono pari al 5 per cento circa.
Le due ipotesi – Londra nel mercato unico o Londra come un qualsiasi partner Wto – sono cruciali anche per stabilire la forchetta dell’impatto economico della Brexit.
Su chi lo subisce, il Ceps non ha dubbi.
In rapporto al rispettivo Pil (quello della Ue è cinque volte più grande) la Brexit costa a Londra 10-15 volte di più che ai 27 della Ue (naturalmente, per paesi strettamente legati alla Gran Bretagna, come Irlanda e Olanda il costo è maggiore).
Ma proprio perchè l’economia inglese è cinque volte più piccola di quella europea, fa più effetto guardare l’impatto in cifre assolute: in soldi, Londra rinuncia ad quantità di soldi due-tre volte superiore.
Ma che cifra è? La Brexit costa alla Ue lo 0,11 per cento del Pil in caso di uscita morbida (cioè, con Londra che resta nel mercato unico) fino allo 0,52 per cento in caso di “hard Brexit”, cioè con i rapporti che restano regolati dalle norme Wto.
Stiamo però parlando di cifre complessive, cioè di perdite nell’arco di dieci anni.
Per la Gran Bretagna, invece, le perdite vanno dall’1,31 per cento, nell’ipotesi soft, al 4,21 per cento del Pil, nell’ipotesi hard, sempre nell’arco di dieci anni. Ma la Brexit ha un effetto a cascata.
Se l’uscita dalla Ue (il calcolo lo fa lo stesso Tesoro britannico) dovesse comportare anche la fuga delle multinazionali dal piccolo mercato britannico, le perdite cumulate arriverebbero al 7,5 per cento del Pil, cioè lo 0,75 per cento ogni anno.
E’ l’incubo di Downing Street, che ha spinto Theresa May a minacciare ritorsioni, sotto forma di un dumping fiscale, cioè di un taglio tanto aggressivo delle imposte sulle imprese, da compensare l’effetto Brexit.
Difficile, tuttavia, in questo caso, che Bruxelles non reagisca con qualche ritorsione, sul piano, ad esempio, delle tariffe doganali. Questa spirale di minacce, ricatti, colpi bassi è il vero incubo — per tutti – della Brexit.
Si comincia mercoledì.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 25th, 2017 Riccardo Fucile
LE RIVELAZIONI DELLA CNN: LA FBI INDAGA SU CONTATTI TRA MEMBRI DELLO STAFF DI TRUMP CON AGENTI SEGRETI RUSSI PER INFLUENZARE LE ELEZIONI PRESIDENZIALI
La CNN ha pubblicato un report il cui contenuto potrebbe fare davvero male alla Presidenza Trump
e addirittura — se quanto scritto venisse confermato — portare ad un impeachment del Presidente USA.
Secondo la CNN, che ha ottenuto le informazioni da alcuni funzionari, il Federal Bureau of Investigation sarebbe in possesso di informazioni in base alle quali persone coinvolte nella campagna elettorale di Donald Trump e collegate a Trimp sono state in contatto con sospetti agenti dei servizi segreti russi per coordinare la pubblicazione di informazioni atte a danneggiare la campagna della candidata del Partito Democratico Hillary Clinton.
Secondo le fonti della CNN è proprio questo il genere di indagini che sono state menzionate dal direttore del FBI James Comey durante la sua audizione al Congresso di lunedì 20 marzo.
Lunedì Comey ha detto che il Bureau non è in possesso di informazioni riguardanti le accuse mosse da Trump ad Obama di averlo fatto spiare dai servizi segreti e al tempo stesso ha dichiarato che i federali stanno investigando sui rapporti tra la campagna elettorale di Trump e agenti russi perchè esiste una “ragionevole accusa” a proposito di illeciti che sono stati commessi e che fanno supporre che cittadini americani (non è stato specificato quanti e quali) abbiano potuto agire come agenti al soldo di una potenza straniera.
Le fonti della CNN fanno sapere che “persone connesse con la campagna [di Trump] erano in contatto [con agenti russi] e risulterebbe che davano il via libera per la pubblicazione di informazioni” per indebolire la posizione della candidata repubblicana e che la Russia si è adoperata per condizionare il processo elettorale statunitense in favore di Trump.
Non è chiaro chi siano questi collaboratori del comitato elettorale di Donald Trump in contatto con sospetti agenti russi ma si sa invece che il Bureau ha già messo sotto indagine, per un’accusa simile quattro uomini che hanno lavorato per l’attuale Presidente: il Generale Michael Flynn ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Paul Manafort consigliere di Trump ed ex presidente del comitato elettorale accusato di aver legami con oligarchi russsi e di essersi adoperato a favore dei russi in Ucraina, in particolare Manafort — ha rivelato qualche giorno fa la NBC — ha avuto tra i suoi clienti Oleg Deripaska, un miliardario russo molto vicino a Vladimir Putin. Donald Trump ha fatto sapere di non essere a conoscenza dei rapporti tra Manafort e Deripaska.
Altri due collaboratori di Trump fino ad ora coinvolti nell’inchiesta sono Roger Stone che sostiene che i servizi segreti britannici spiassero Trump e Carter Page che per un breve periodo è stato consulente per la politica estera del comitato elettorale del candidato repubblicano.
Tutti e quattro hanno respinto ogni addebito e negato qualsivoglia coinvolgimento. Uno dei principali consiglieri di Trump per la politica estera, il senatore Jeff Session, si è incontrato più volte con l’ambasciatore russo Sergey Kislyak ma si era “dimenticato” di farne menzione quando venne interrogato dalla Commissione parlamentare.
Se quello che ha pubblicato la CNN è vero allora si aprirebbe la porta ad un’altra domanda davvero pericolosa per il Presidente: Donald Trump era al corrente dei rapporti tra agenti russi e membri dello staff del suo comitato elettorale?
Se la risposta risultasse essere affermativa allora difficilmente Trump potrebbe evitare l’impeachment da parte del Congresso (e c’è anche da chiedersi se Trump è in qualche modo ricattabile da Putin).
(da “NextQuotidiano”)
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Marzo 25th, 2017 Riccardo Fucile
I REPUBBLICANI COSTRETTI A RITIRARE LA LEGGE CHE DOVEVA ABROGARE LA RIFORMA SANITARIA DI OBAMA… DOPO IL BLOCCO MANCATO AGLI IMMIGRATI UNA SECONDA PESANTE SCONFITTA PER IL PRESIDENTE
Donald Trump incassa la prima sconfitta grave tra i “suoi”.
È costretto a ritirare il progetto di contro-riforma sanitaria, che doveva cancellare la nuova sanità introdotta nel 2010 da Barack Obama.
La dèbacle arriva al termine di una giornata convulsa, segnata da lacerazioni tra i repubblicani. Il ritiro del progetto di legge voluto da Trump è una decisione obbligata, presa in un clima di caos, a pochi minuti dall’inizio di una votazione alla Camera dove la sua bocciatura era ormai un certezza.
L’opposizione democratica gongola, i repubblicani si sono rovinati da soli, con una guerra intestina tra fazioni del partito.
Alla prova più cruciale l’autorità del presidente è stata insufficiente a compattare il partito. Ora Trump e il suo interlocutore istituzionale, il presidente della Camera Paul Ryan, devono raccogliere i cocci, ripartire da zero.
Il presidente cerca di mascherare la sconfitta cambiando tema: “Ora occupiamoci della riforma fiscale, per ridurre le imposte”, annuncia in serata.
Il disastro sulla sanità ha ricadute politiche e di sostanza. Cominciando dalla seconda: gli americani per ora si tengono Obamacare. Nel bene e nel male.
La riforma del 2010 ha allargato la platea degli assicurati con quasi 20 milioni di cittadini che per la prima volta hanno avuto la copertura dell’assistenza medica e ospedaliera.
Inoltre è stato vietato alle compagnie assicurative rifiutare dei clienti perchè “già ammalati in passato”, una pratica che prima era corrente.
Con dei costi elevati, però, in certi casi a carico delle aziende, in altri dei cittadini stessi. E senza riuscire a calmierare i prezzi: nè le tariffe assicurative, nè quelle medico-ospedalieri, nè i prezzi dei farmaci.
L’alternativa repubblicana? Sarebbe stata ancora peggiore, peggiorando la situazione per 24 milioni di persone (stime indipendenti del Congressional Budget Office), in nome di un ritorno alla libertà di mercato più sfrenata.
Per esempio, nel disegno di legge repubblicano doveva scomparire il “servizio minimo obbligatorio”, che imponeva alle assicurazioni di rimborsare alcune prestazioni di base come il ricovero d’emergenza in un pronto soccorso o le spese del parto.
Nell’insieme dunque si può parlare – provvisoriamente – di scampato pericolo: gli americani si tengono il sistema che c’è, sia pure molto più inefficiente e costoso rispetto alla media dei paesi ricchi (soprattutto quelli nordeuropei).
La dimensione politica è quella più dirompente per Trump, che ha appena superato i due mesi alla Casa Bianca.
Finora questo presidente si era urtato ai “soliti nemici”: la stampa, l’opposizione democratica, i giudici, e parecchi governi stranieri urtati dalle sue gaffes. Muro col Messico o decreto sigilla-frontiere, smantellamento delle tutele ambientali, protezionismo: Trump grosso modo manteneva le promesse fatte allo zoccolo duro dei suoi elettori, e scontentava tutti gli altri.
La dèbacle sulla sanità invece lo mette contro i suoi, spacca la destra in modo traversale. E getta un’ombra sulla sua presunta capacità di rinnovare i metodi di Washington.
Trump fece campagna come l’ousider per eccellenza, l’anti-politico, il nemico della casta parlamentare, colui che avrebbe messo in riga deputati e senatori.
Vantò anche la sua abilità di negoziatore, sul modello del suo best-seller “The Art of The Deal”, promise di applicare al mondo politico i metodi decisionisti ed efficaci del businessman.
È scivolato su una prova fondamentale, perchè lo smantellamento di Obamacare è un trofeo ad alto valore simbolico per i repubblicani. Molto prima che Trump entrasse in politica, il Tea Party movement lo aveva preceduto e gli aveva spianato la strada, con manifestazioni di protesta che avevano segnato un revival del popolo di destra.
I nemici giurati del Tea Party erano due: i banchieri di Wall Street salvati a spese del contribuente; e la riforma sanitaria Obamacare.
Trump, che all’annuncio della sua candidatura nell’estate 2015 era abbastanza agnostico e possibilista su Obamacare, col progredire della campagna elettorale si allinedò completamente sul Tea Party e promise nel modo più solenne di distruggere la riforma sanitaria del suo predecessore.
Al dunque, i deputati repubblicani si sono divisi tra l’ala più intransigente che voleva spazzare via tutti i modesti progressi di Obamacare; e la componente moderata che voleva salvare gli aspetti più popolari, sia pure con qualche costo per il bilancio pubblico.
Trump ha creduto di risolvere la spaccatura con un ultimatum: giovedì sera ha imposto il voto alla Camera, senza essere sicuro di avere i numeri. Ventiquattr’ore dopo, la disfatta era ufficiale, iniziava la ritirata. E il presidente-decisionista si ritrova alla casella di partenza, con un nulla di fatto.
(da “La Repubblica”)
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