IL CONTO DELLA BREXIT: “L’USCITA DALL’EUROPA FA PIU’ MALE A LONDRA CHE ALLA UE”
LO STUDIO DEL CEPS: “UN PUNTO IN MENO DEL PIL ALL’ANNO, A RISCHIO 184 MILIARDI DI ESPORTAZIONI VERSO IL MERCATO EUROPEO, FUGA DELLE MULTINAZIONALI”
È la settimana della Brexit. Mentre da Roma, i leader dei 27 membri superstiti della Ue tentano di ridefinire un’idea d’Europa, dalla capitale dell’ex impero britannico Theresa May aprirà formalmente, mercoledì, il processo che porterà la Gran Bretagna (anche se non necessariamente tutta) fuori dall’Unione.
Nonostante l’ottimismo di facciata a cui il governo inglese si abbarbica ostinatamente da mesi, è un autentico salto nel buio. Nessuno guadagna dalla ritirata inglese, ma il conto di questo risorgente nazionalismo o di questa nostalgia di insularità , è sproporzionatamente a carico dei sudditi di Elisabetta.
Per la Ue la Brexit pesa per circa mezzo punto del Pil dei 27 paesi rimasti nell’arco di dieci anni.
Per il Regno Unito le perdite sono pari a quasi un punto del Pil nazionale all’anno. Le cifre le mette in fila il Ceps – il think tank diretto da Daniel Gros – in uno studio per conto del Parlamento europeo, appena pubblicato.
Il terreno del divorzio è un interscambio paragonabile, per volume, all’intero commercio Usa-Europa, attraverso l’Atlantico, che è solo di un quinto più grande di quello attraverso la Manica. Ci sono 306 miliardi di euro di esportazioni europee in Inghilterra, contro solo 184 miliardi di importazioni.
Ma l’export europeo è in qualche misura marginale rispetto all’economia europea (equivale a circa il 2,5 per cento del Pil) mentre per Londra quei 184 miliardi di beni venduti in Europa valgono il 7,5 per cento del Pil. In altre parole, se Londra chiude il mercato agli europei, il colpo può essere assorbito sul continente, mentre per gli inglesi sarebbe una catastrofe. Tanto più se ci si aggiungono i servizi, quelli della City in testa che, per gli inglesi valgono altri 122 miliardi di export.
E i contributi al bilancio comunitario? Il buco determinato dalla partenza inglese è pari, secondo il Ceps, a 9 miliardi di euro l’anno, che però, secondo lo studio, sarebbe abbastanza agevole per Bruxelles recuperare.
Se Londra restasse nel mercato unico, le si potrebbe chiedere di continuare a versare la sua quota. Se se ne andasse, e venissero applicate le regole standard del Wto, i soldi arriverebbero da dazi e tariffe, che nel caso dei manufatti, sono pari al 5 per cento circa.
Le due ipotesi – Londra nel mercato unico o Londra come un qualsiasi partner Wto – sono cruciali anche per stabilire la forchetta dell’impatto economico della Brexit.
Su chi lo subisce, il Ceps non ha dubbi.
In rapporto al rispettivo Pil (quello della Ue è cinque volte più grande) la Brexit costa a Londra 10-15 volte di più che ai 27 della Ue (naturalmente, per paesi strettamente legati alla Gran Bretagna, come Irlanda e Olanda il costo è maggiore).
Ma proprio perchè l’economia inglese è cinque volte più piccola di quella europea, fa più effetto guardare l’impatto in cifre assolute: in soldi, Londra rinuncia ad quantità di soldi due-tre volte superiore.
Ma che cifra è? La Brexit costa alla Ue lo 0,11 per cento del Pil in caso di uscita morbida (cioè, con Londra che resta nel mercato unico) fino allo 0,52 per cento in caso di “hard Brexit”, cioè con i rapporti che restano regolati dalle norme Wto.
Stiamo però parlando di cifre complessive, cioè di perdite nell’arco di dieci anni.
Per la Gran Bretagna, invece, le perdite vanno dall’1,31 per cento, nell’ipotesi soft, al 4,21 per cento del Pil, nell’ipotesi hard, sempre nell’arco di dieci anni. Ma la Brexit ha un effetto a cascata.
Se l’uscita dalla Ue (il calcolo lo fa lo stesso Tesoro britannico) dovesse comportare anche la fuga delle multinazionali dal piccolo mercato britannico, le perdite cumulate arriverebbero al 7,5 per cento del Pil, cioè lo 0,75 per cento ogni anno.
E’ l’incubo di Downing Street, che ha spinto Theresa May a minacciare ritorsioni, sotto forma di un dumping fiscale, cioè di un taglio tanto aggressivo delle imposte sulle imprese, da compensare l’effetto Brexit.
Difficile, tuttavia, in questo caso, che Bruxelles non reagisca con qualche ritorsione, sul piano, ad esempio, delle tariffe doganali. Questa spirale di minacce, ricatti, colpi bassi è il vero incubo — per tutti – della Brexit.
Si comincia mercoledì.
(da “La Repubblica”)
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