Marzo 5th, 2017 Riccardo Fucile
E LA SINDACA DISERTA PER LA SECONDA VOLTA IL CONFRONTO CON CHI L’HA SOSTENUTA
Rischia di aprirsi il divario tra Chiara Appendino e i comitati cittadini che l’hanno sostenuta.
Per la seconda volta i gruppi dell’ “Assemblea 21” hanno invitato la sindaca M5s per discutere delle azioni del governo della città e sabato 4 marzo per la seconda volta lei non si è presentata.
Questo sabato il tema era il bilancio preventivo, un modo di programmare le spese e perseguire le promesse fatte in campagna elettorale dopo i limiti trovati nel 2016: nessun esponente della giunta si è presentato, soltanto i consiglieri che hanno cercato di rispondere alle domande delle circa duecento persone in sala. L’assenza — si apprende — era dettata da ragioni istituzionali: il bilancio preventivo del 2017 è ancora in fase di elaborazione e prima dovrà essere presentato in giunta e poi al consiglio comunale. Quindi verrà illustrata nel corso di un incontro aperto che l’amministrazione sta organizzando.
I comitati restano perplessi: “Più Appendino non si presenta più si apre il divario tra quello che dicono e quello che fanno — ha dichiarato la moderatrice dell’incontro, Katia G. dell’Assemblea 21, prima dell’inizio -. Dopo il suo ingresso nel ‘palazzo’, la distanza è aumentata”.
A questi gruppi, composti da ambientalisti contrari ai centri commerciali e zoo, ma anche i movimenti per la casa e per l’acqua pubblica, gruppi in cui convergono anche centri sociali e sindacati di base, si era rivolto il Movimento 5 stelle durante la campagna elettorale promettendo proposte per ora rimaste sulla carta.
Questi comitati prima hanno accettato le spiegazioni dei consiglieri pentastellati sulle difficoltà finanziarie, ma ora che si può decidere come utilizzare i soldi pubblici vogliono intervenire e fanno sentire il loro fiato sul collo.
“Vogliamo che ci dicano una cosa, cioè che le promesse non sono state fatte soltanto per prendere i nostri voti”, continua Katia.
A lei ha risposto la consigliera Maura Paoli: “Gli assessori e la sindaca non ci sono, ma stanno organizzando un evento sul bilancio che dovrebbe essere a metà del mese”, dopo la presentazione del documento.
All’assemblea, invece, sono intervenuti quasi tutti i consiglieri che hanno tentato di dare risposte alle venti domande dei comitati.
Molte di quelle risposte avevano un carattere “istituzionale”, come sul tema degli oneri di urbanizzazione, le somme che i privati devono versare all’amministrazione dopo aver ottenuto una concessione edilizia: “Quando sono entrato in consiglio comunale ho chiesto i dati sulle spese per la manutenzione del verde, del suolo pubblico e dell’edilizia sociale, è emerso che sono in calo e ho capito che potevamo vincolare l’uso di quelle somme per questi ambiti”, ha spiegato il consigliere Damiano Carretto, un tempo contrario ai profitti derivanti dalle concessioni edilizie.
La realpolitik ha prevalso su molti ideali.
Discorso simile sull’utilizzo del dividendo dell’azienda idrica, punto molto contestato dal Comitato acqua pubblica: “Dobbiamo utilizzare quel dividendo per il welfare e i servizi educativi — ha detto la consigliera Daniela Albano -. Certo, non chiederemo mai più l’accesso alle riserve del bilancio come fatto lo scorso anno perchè era stato messo nel bilancio preventivo del 2016. Abbiamo avuto rassicurazioni dalla sindaca”. Sulla trasformazione di Smat in azienda pubblica precisa che “la volontà c’è e la stiamo portando avanti”.
A molti, però, l’incontro è sembrato una lezioncina sui bilanci.
A esprimere questa critica è stato Emilio Soave dell’associazione ambientalista Pro Natura: “Avete la responsabilità , e la possibilità , di fare scelte politiche, decidere degli indirizzi e perseguirli. Gli strumenti ci sono”.
Tanti sono gli scontenti.
Gli ambientalisti continuano a rimanere contrari allo zoo. Daniele, esponente dei Si Cobas, dice che si sono dimenticati delle persone ai margini, così come un’occupante di una casa ha ricordato che la requisizione delle case sfitte era una proposta su cui ora i consiglieri fanno marcia indietro per via delle leggi.
Andrea Giambartolomei
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 5th, 2017 Riccardo Fucile
I PRECARI DELLE TELEFONATE NON HANNO ALTERNATIVE DI OCCUPAZIONE
“Pensavo sarebbe stato solo un lavoretto per mantenermi all’università e non pesare più sui miei genitori. Ormai, però, sono qua da due anni: in giro non trovo altro e ho pure mollato gli studi”.
Marika, 24 anni, viene dalla Basilicata e dopo il liceo si è trasferita a Milano per studiare mediazione linguistica. La sua vita oggi è un call center da 400 euro al mese, che possono salire fino a 700 se le cose vanno alla grande.
È una di quelle voci che vi chiamano da un numero sconosciuto mentre tornate a casa da lavoro, a cui più o meno garbatamente fate sapere di non essere interessati.
È una operatrice outbound, incaricata di andare a caccia di nuovi clienti. “Siamo l’ultima ruota del carro, quelli più utili eppure peggio pagati”.
Negli anni il loro numero è cresciuto a dismisura: per le aziende le telefonate sulle utenze private dei cittadini rappresentano uno straordinario strumento di marketing a basso costo. In alcun modo, però, ciò ha significato una regolarizzazione del personale. “Con l’uscita di Tutta la vita davanti, ahimè, il mondo dei call center fu messo in burletta. Parliamo di migliaia di lavoratori, che subiscono sulla loro pelle ogni vento di crisi”.
A parlare così è Riccardo Saccone, funzionario della SLC Cgil. Nel 2008, quando arrivò nelle sale il famoso film di Paolo Virzì che metteva in scena il nuovo precariato armato di cuffia e microfono, il settore era già sotto pressione.
Si radicò l’idea che i call center fossero l’approdo degli ultimi, le cavie di un mondo del lavoro che cercava la strada per abbattere anche le residue tutele rimaste. “Non era del tutto falso, eppure da allora le cose sono peggiorate: ogni passo in avanti sul piano legislativo è stato vanificato dalla congiuntura economica”.
ochi in Italia conoscono il meccanismo come Saccone, che è un dipendente di Wind prestato al sindacato. “Io sono un privilegiato, perchè i lavoratori dei call center in-house guadagnano quasi tre volte un collega dell’outsourcing. Ma se il mercato andrà nella direzione di una ulteriore compressione dei costi, quanto può durare questa generosità nei miei confronti?”.
Vodafone e Wind hanno assottigliato parecchio il comparto interno, mentre nei servizi di customer care di Telecom resistono 10 mila persone. “Nel complesso il 60-70% del lavoro nelle telco è già stato esternalizzato, altrove le percentuali sono più alte”.
Sono nate così, da Milano alla Sicilia, decine di società che hanno ovviato alle esigenze di aziende e pubbliche amministrazioni.
In un mondo sempre meno frontale tutti quanti hanno bisogno di servizi di customer care, di sviluppare l’e-commerce oppure avvicinare nuovi clienti: nuove imprese nate dal nulla e cooperative si sono fatte trovare pronte.
Alcune sono durate il tempo di una commessa, altre sono diventate Almaviva.
“Sono entrata nel 2000 a 23 anni: ancora ci chiamavano Cosmed e la sede era a Torre Spaccata. Eravamo 800 persone molto motivate, una famiglia” ricorda Tiziana Perrone. Poche settimane fa la sua esperienza in azienda, che nel frattempo era arrivata a contare 45 mila dipendenti a livello mondiale, è terminata nel peggiore dei modi.
Tiziana è tra i 1666 lavoratori licenziati a fine 2016 nella sede romana di Almaviva Contact.
Una vertenza aspra, che ha diviso sindacati e lavoratori. La maggior parte di questi ultimi prestava servizio 20 ore la settimana per uno stipendio medio di 700 euro al mese. “I primi anni il lavoro è stato stimolante, c’era un’atmosfera di novità e espansione. Con il tempo il servizio è peggiorato e siamo tornati al cottimo. Ogni giorno lo stress cresceva, ci eravamo accorti che così non si poteva reggere. Tre anni dopo eravamo in cassa integrazione.
Oggi i call center non fanno più per me” spiega Tiziana, che a 39 anni è ancora in attesa di Naspi e Tfr e non ha alcuna fiducia nel piano di ricollocamento presentato di recente dal governo.
La crisi di Almaviva, leader del settore, dice molto di un sistema malato. Dal 2011 al 2015 l’azienda ha bruciato oltre il 30% dei suoi ricavi. Una dopo l’altra, ha perso le gare più importanti: quelle per il Comune di Milano e di Roma, una parte del servizio erogato per Sky e per Enel.
Non era più concorrenziale rispetto a pretendenti meno strutturate e più aggressive, perchè aveva deciso di non delocalizzare all’estero e, gravata da lavoratori anziani a tempo indeterminato, non usufruiva più degli incentivi alle assunzioni. Almaviva si è allora adeguata al contesto: mentre chiudeva l’inbound, ha effettuato nuovi colloqui per cercare personale adatto a contattare nuovi clienti. L’outbound, che oggi conta circa 30 mila lavoratori sugli 80 mila del settore, costa decisamente meno e frutta di più.
“Un epilogo micidiale, l’ultimo capitolo di un film già scritto” commenta amaro Riccardo Saccone. “
Gli ultimi anni sono stati infernali: i tagli lineari delle aziende agli appalti di customer care hanno fatto molto male, in un settore in cui l’80% dei costi sono rappresentati dal lavoro.
Qualsiasi manovra per contrarre le spese va a scapito di dipendenti pagati ai minimi, che non godono di ammortizzatori sociali ordinari o altre garanzie. Paghiamo soprattutto la mancanza di regole nella gestione delle gare. Pur di vincere commesse sempre più magre le aziende hanno fatto di tutto: finchè potevano campavano con gli incentivi, poi sono andate a produrre all’estero. La dittatura del massimo ribasso ci ha portato sin qui, la delocalizzazione ha fatto il resto”.
La situazione è precipitata attorno al 2011, quando i ricavi delle grandi aziende hanno iniziato a crollare. Le due circolari dell’allora ministro Cesare Damiano, che avevano stabilizzato migliaia di precari, hanno portato solo benefici relativi
Gli scioperi di fine 2015 e le contrattazioni con i sindacati, radicati solo in tempi relativamente recenti nelle aziende, hanno fatto approvare la clausola sociale, che garantisce al lavoratore di continuare a operare su un appalto anche se cambia il committente. I casi in cui è stata rispettata sono molto rari.
Simile il discorso per l’articolo 24 bis del decreto legge 83 del 2012, che obbliga a comunicare dove il call center è situato e cerca di colpire chi sposta il lavoro all’estero.
“Le poche regole esistenti sono sistematicamente disattese, siamo arrivati al punto di non ritorno” dice Antonella Berardocco. È a casa da un anno, dopo averne passati sette a rispondere ai telefoni della E-care di Cesano Boscone, alle porte di Milano. Persa la commessa di Fastweb, l’azienda ha ridotto sensibilmente il proprio impegno in Italia.
Nel frattempo aprivano sedi in Albania e Romania. Ormai è tutto fuori dai confini, la nuova moda sono i call center in India.
Per assurdo c’è sempre più bisogno di questa funzione: assicurazioni, vino, aziende alimentari hanno potenziato l’outbound. Online è pieno di annunci: ho visto offerte da tre euro all’ora più provvigioni” aggiunge.
Nella sede romana di e-Care lavorava Marta, 35 anni, originaria del Congo. “Ho lavorato per qualche mese su una commessa di Lottomatica, mi sono trovata bene” racconta.
“Ho fatto un corso intensivo di tre giorni e mi hanno presa, lavoravo part-time per 500 euro. Mi chiamavano i tabaccai per avere informazioni sui gratta e vinci e cittadini dubbiosi sulle loro scommesse.
Un giorno uno mi chiese cosa dovesse fare con una vincita di 50 mila euro: gli risposi di portarla in banca, un po’ prima di subito. Il problema è che avevo contratti molto brevi, rinnovati sempre all’ultimo momento. Proprio quando pensavo di aver imparato il mestiere sono spariti nel nulla” spiega.
Un anno fa la Cgil denunciò l’affidamento di una commessa da parte di Poste Italiane a 0,29 centesimi di euro al minuto, circa la metà di quanto servirebbe a garantire una giusta retribuzione al lavoratore.
A febbraio 18 addetti del call center di regione Lombardia, dopo il passaggio dell’appalto dalla società per cui erano impiegati a una ditta siciliana, hanno trovato il loro badge disattivato senza preavviso. Alcuni di loro seguivano quella commessa da 13 anni e, si sarebbe poi scoperto, da mesi erano senza stipendio.
Se il pubblico non dà il buon esempio, cosa si può pretendere dai privati? Nulla. Così il settore è diventato una giungla, dove avventurismo e illegalità hanno trovato terreno fertile.
Praticoni trasformati in “classe padrona” hanno dato vita ad aziende fragili e fantasiose, con l’unico obiettivo di lucrare finchè possibile.
Il punto più basso fu toccato nel novembre 2012, quando una inchiesta svelò la “scalata” dei Bellocco di Rosarno alla Blue Call di Cernusco sul Naviglio, periferia Est di Milano. In due anni la ndrangheta si era mangiata una azienda da 600 dipendenti, un gigante dai piedi d’argilla divenuto bancomat dei clan.
Più volte i magistrati antimafia si sono occupati degli interessi della criminalità organizzata nel settore. Inevitabile, visto il giro di affari e la tendenza all’avventurismo con cui nascono e sono guidate numerose imprese nel Sud Italia. Lungo lo Jonico pugliese e nel catanese sono sorti distretti da migliaia di lavoratori. Di scarsa qualità , ma vitali in territori asfittici da un punto di vista economico. Qui più che altrove il call center non è un lavoretto e chi trova un posto lo tiene stretto. In regioni in cui la disoccupazione giovanile supera abbondantemente il 50%, la questione assume toni drammatici. Secondo Assocontact, l’associazione delle imprese che forniscono assistenza al cliente, il tasso di turnover viaggia tra l’1 e il 5% nelle principali aziende.
Un tempo il settore era magmatico, oggi la flessibilità è quasi solo in uscita. A totale discapito della qualità , in un lavoro stressante dove i cali di concentrazione non sono tollerati.
Lavoro che, nella maggior parte dei casi, non è più quello di un centralinista, ma di un assistente specializzato su più fronti. “Io ho 31 anni, ho ancora fiducia e voglia di lottare. Ma che ne sarà dei miei colleghi anziani o di quelli disabili” si chiede Valentina Borzi.
“Ho lavorato al call center Qè di Paternò per otto anni, fino al licenziamento collettivo del 28 novembre. Gli ultimi mesi sono stati un calvario: le commesse perse, gli stipendi non pagati, lo sciopero ad oltranza. Fino al giorno in cui abbiamo trovato il capannone chiuso e i proprietari dell’azienda spariti. A oggi non hanno ancora dichiarato il fallimento e ci dobbiamo affidare ad un tribunale per ottenere i nostri diritti”.
La vicenda, non la sola in Sicilia, è finita nel peggiore dei modi.
A comportarsi in questo modo una azienda che era arrivata a impiegare fino a 600 lavoratori e che aveva tra i propri clienti Sky, Enel e Wind.
Gli ex dipendenti Qè non ci stanno e hanno dato vita a un movimento insolitamente coeso e battagliero: i loro appelli circolano in rete e hanno trovato il sostegno di testimonial famosi.
“Ho iniziato a lavorare quando mi mancavano sei esami alla laurea. Ora, dopo aver messo da parte gli studi per la sicurezza economica, sono tornata sui banchi. Non mi sono mai ritrovata nei racconti sull’inferno dei call center: io gestivo una commessa delicata e gratificante per conto di Inps. Il nostro territorio non può perdere le sue risorse”.
Come Valentina, buona parte dei colleghi sono stati assunti dai call center grazie alle agevolazioni e a una fiscalità che al Sud è particolarmente vantaggiosa. In questo modo il lavoro rimane a basso costo per anni e gli imprenditori possono contenere le spese e essere competitivi. Si creano continui moti di concorrenza sleale, che orientano di volta in volta un mercato dopato in cui lo stato perde sempre.
“Abbiamo provato per anni a professionalizzare il mestiere, a spiegare che non può essere governato con simili dinamiche. Date un occhio agli investimenti che ha fatto Microsost sulla sua struttura di Dublino. Parliamo di un canale di assistenza pregiato, non di rado gli operatori gestiscono pratiche complicate e sensibili: dai nostri conti correnti alla disoccupazione. Mentre aumenta la centralità dei call center, diminuiscono gli investimenti e di conseguenza la nostra sicurezza” dice Riccardo Saccone.
“Il processo va avanti da anni, ogni giorno un nuovo passetto. Ma ormai non c’è più nulla da tagliare: si incide la carne viva dei lavoratori”.
(da “Huffingtonpost“)
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Marzo 5th, 2017 Riccardo Fucile
“IL PRINCIPIO DELLA PRESUNZIONE DI INNOCENZA DEVE VALERE PER TUTTI”
Silvio non infierirà . Forza italia non voterà la sfiducia nei confronti del ministro Lotti. E’ quanto afferma Berlusconi in una intervista al Tempo.
“Il principio della presunzione di innocenza per me vale nei confronti di chiunque – ha detto Berlusconi – lo ripeto ancora una volta, non condivido l’utilizzo della giustizia come strumento di lotta politica. Voglio anche ricordare che, aldilà di ogni considerazione sul caso specifico del ministro Lotti, Forza Italia non ha mai votato la sfiducia individuale ad un ministro”.
Sulle indagini che coinvolgono il padre di Renzi, il leader di Fi è molto chiaro. “Non augurerò mai ad un avversario politico di essere vittima del sistema di persecuzione giudiziaria del quale sono stato vittima io. Tra l`altro Renzi non è neppure indagato. Battere Renzi è un compito che tocca a noi, proponendo soluzioni migliori delle sue e dimostrando agli italiani che siamo più adatti del Pd a governare il paese. La magistratura faccia le indagini che ritiene di compiere, ma la politica non c’entra nulla con questo. E poi la presunzione di innocenza vale per tutti, anche per le persone vicine a Renzi”.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 5th, 2017 Riccardo Fucile
28 CLAN, 900 AFFILIATI, UNO DEI PIU’ ALTI TASSI DI REATI… PROCURA SOTTO ORGANICO, REPARTI INVESTIGATIVI RIDOTTI
Procura e forze dell’ordine sotto organico rispetto ad altre realtà , costrette agli straordinari per contrastare l’escalation di omicidi, attentanti e rapine in provincia di Foggia.
Una situazione da molti definita “critica”, come dimostrano i tre morti ammazzati a Vieste e San Severo, più un probabile caso di lupara bianca a Torremaggiore. Tutto nell’ultimo mese.
Le mafie foggiane hanno creato una “situazione esplosiva” e oltre ai centri più caldi, l’attenzione è alta anche attorno a quanto avviene a Cerignola e al comune capoluogo, al centro di una guerra tra clan fino allo scorso settembre e ora all’apparenza dormiente.
A combattere in una delle province con il più alto tasso di reati in proporzione alla popolazione residente, ci sono in prima linea una Procura — che deve tenere sott’occhio un territorio molto esteso — e le forze dell’ordine, da tempo in attesa di rinforzi e di un ricambio generazionale.
In procura 4 sostituti in meno
A Foggia ci sono 18 sostituti procuratori e due aggiunti, coordinati da Leonardo Leone De Castris, magistrato di lungo corso e tra i papabili per la direzione della DDA di Lecce, rimasta sguarnita dopo il pensionamento di Cataldo Motta.
Diciotto sostituti contro 28 clan criminali e oltre 900 affiliati, secondo le stime del ministero dell’Interno risalenti alla primavera 2015. Hanno anche rischiato di rimanere in 17, nonostante dovrebbero essere in 22 a sorvegliare sulla Società foggiana e sulla mafia del Gargano.
Quattro in meno, dunque, per controllare tutta la provincia più Margherita di Savoia, Trinitapoli e San Ferdinando di Puglia, comuni che appartengono alla provincia BAT ma ricadono sotto la giurisdizione della procura foggiana. A conti fatti vuol dire circa 700mila persone, oltre a circa 30mila irregolari.
L’Antimafia? È a Bari
Di fronte a questi problemi, negli scorsi anni, era stata vagliata l’ipotesi di istituire una Direzione distrettuale antimafia. Una richiesta spinta anche dal basso, grazie ai movimenti Populus e a DauniAttiva.it.
Ma l’ipotesi sembra essere già tramontata perchè rimodellare la geografia giudiziaria ed elevare Foggia a capoluogo di distretto avrebbe comportato effetti a catena sulle sedi vicine.
Per comporre un distretto servono infatti tre tribunali: se Foggia fosse diventata autonoma, Bari sarebbe scesa a due tribunali sotto la sua competenza e questo avrebbe avuto effetti anche sulla DDA leccese.
Così la provincia dauna è rimasta sotto l’ala di Bari, dove due sostituti procuratori si occupano esclusivamente di quanto avviene tra Foggia-Basso Tavoliere e Gargano-Alto Tavoliere.
Arriva il Ros, ma restano i problemi
Ai numeri striminziti della procura — che grazie al lavoro di De Castris ha comunque ricevuto risorse dal Csm negli scorsi anni — si unisce un problema legato ai reparti investigativi, costretti a operare in un contesto difficile sia a livello territoriale che di numeri.
Basti pensare al reparto operativo dei carabinieri, impegnato in questo momento nelle indagini su tre omicidi (due di competenza dell’Antimafia barese) e un caso di lupara bianca facendo gli straordinari per chiudere il cerchio attorno all’escalation di violenza dei clan, soprattutto a San Severo e Vieste.
L’Arma ha recentemente istituito un nucleo del Ros — sarà operativo a breve — che dipenderà dalla sezione anticrimine di Bari. Difficoltà si registrano anche nella Polizia che può contare su quattro commissariati (Manfredonia, San Severo, Lucera e Cerignola) e attende un ricambio generazionale, definito da più parti “urgente”.
Libera Foggia: “Territorio difficile, servono più risorse”
“È ormai da tempo che le istituzioni locali e le forze dell’ordine raccontano delle difficoltà nel controllo del territorio anche a causa dell’organico. Il lavoro di procura, polizia e carabinieri è straordinario ma hanno bisogno di una mano.
Sulla provincia di Foggia bisogna accendere le luci, la situazione è esplosiva”, spiega a ilfattoquotidiano.it Salvatore Spinelli, coordinatore provinciale di Libera. “Un tempo sembrava che le mafie foggiane non esistessero, si è sottovalutato il problema fino a renderle molto forti sul territorio. Ora più che mai è il momento di stare accanto agli inquirenti, che necessitano di strumenti e risorse per controllare uno dei territori più problematici, come raccontano le relazioni della Dia — continua — Dopo la presa di coscienza e le dichiarazioni d’intenti, ci vogliono gli investimenti”.
Andrea Tundo
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 5th, 2017 Riccardo Fucile
E’ L’APICE DELL’ESCALATION DELLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA NELLA ZONA… IL SINDACO AVEVA DOVUTO METTERE IN ATTO UNO SCIOPERO DELLA FAME PER FARSI RICEVERE DA MINNITI
Un “attacco allo Stato”. Una persona sola alla guida di una vecchia utilitaria, si avvicina ai mezzi della polizia parcheggiati per strada, spara con una pistola e poi accelera e fugge.
E’ quanto mostrano le immagini di una telecamera di videosorveglianza che hanno ripreso l’attentato compiuto la scorsa notte a San Severo contro mezzi della polizia parcheggiati dinanzi ad un albergo vicino alla stazione centrale, in Piazza della Costituzione.
Da quanto si è appreso, gli spari hanno raggiunto un furgone in dotazione al personale del Reparto mobile della Polizia che era parcheggiato dinanzi all’albergo dove alloggiano gli agenti che sono stati inviati da Bari.
E’ stato il portiere dell’albergo a sentire gli spari e dare l’allarme. I proiettili hanno danneggiato la carrozzeria del furgone in tre punti. Si indaga per accertare i motivi del gesto su cui, al momento, la questura non formula ipotesi specifiche
Il questore di Foggia, Piernicola Silvis, non esclude che vi sia un nesso tra l’episodio degli spari contro i mezzi della polizia della notte scorsa a San Severo e lo sgombero del Gran Ghetto che si trovava nel territorio comunale, ma al momento propende per l’ipotesi che si sia trattato di una reazione della criminalità locale al rafforzamento dei controlli disposto negli ultimi giorni per frenare l’escalation criminale.
I mezzi presi di mira dall’attentatore erano parcheggiati dinanzi ad un albergo dove è ospitato – precisa il questore – personale della polizia che nei giorni scorsi ha operato anche per i servizi di ordine pubblico durante lo sgombero del ghetto e che ora partecipa ai servizi di controllo della residenze in città dove sono stati trasferiti i migranti del ghetto.
Ma è probabile – ha aggiunto Silvis – che chi ha sparato abbia preso di mira i mezzi della polizia come ritorsione perchè l’incremento dei controlli ha infastidito molto la criminalità . Negli ultimi giorni dopo l’incremento di episodi criminali in città , infatti, il sindaco Francesco Miglio aveva fatto uno sciopero della fame per chiedere l’intervento del governo, ed aveva incontrato il ministro dell’Interno Minniti, ottenendo l’invio un primo incremento delle forze dell’ordine impegnate sul territorio
“Assistiamo preoccupati a questa escalation dei fenomeni criminosi nel nostro territorio” afferma il sindaco di San Severo, Francesco Miglio, che ha espresso la sua solidarietà al questore di Foggia, Silvis per “quest’ultimo episodio di inaudita gravità ” e che nei giorni, aveva attuato lo sciopero della fame per sollecitare l’intervento del governo dopo una serie di episodi messi in atto dalla criminalità .
Il 28 febbraio scorso Miglio aveva incontrato il ministro dell’Interno Marco Minniti. “Solo martedì scorso siamo stati rassicurati dal ministro dell’Interno a riguardo di azioni che saranno presto intraprese e valutate in un tavolo tecnico – afferma Miglio – e immediato è stato l’invio di uomini e mezzi del Reparto Prevenzione Crimine che in questi giorni hanno presidiato il territorio, ma la risposta della malavita ci ha lasciato basiti”.
“In pochi giorni – prosegue Miglio – i nostri negozi hanno subito altre rapine, questa volta sono state due macellerie ad essere prese di mira, poi un furto nottetempo in un esercizio commerciale a due passi dal Palazzo Municipale, quindi un auto che, non fermandosi ad un posto di blocco, nel darsi alla fuga ha travolto un ragazzo in bicicletta”.
(da “Huffingtonpost”)
“Insomma – aggiunge – San Severoha paura, si sente gravemente minacciata e colpita ed i suoi cittadini percepiscono che è in atto una vera e propria guerra nei confronti della città , dei suoi abitanti, per la stragrande maggioranza laboriosi ed ossequiosi delle regole del vivere civile, ma soprattutto, dopo questo vile gesto, è in atto una azione pericolosa e strategica contro lo Stato”. Quindi “ancora una volta e con forza chiediamo aiuto – prosegue -, chiediamo di non essere lasciati soli, chiediamo che con ogni urgenza vengano avviate azioni incisive ed immediate”. “Non ci facciamo intimidire, non ci facciamo prendere dallo scoramento – conclude – non assistiamo passivamente a questi ultimi eventi, chiedo a tutti di non mollare ed affrontare tutti insiemi questa emergenza”.
(da agenzie)
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Marzo 5th, 2017 Riccardo Fucile
IL CHE GUEVARA DEL TAVOLIERE LO ACCUSA DI CONFLITTO DI INTERESSI… MA LUI LE DIMISSIONI DA MAGISTRATO NON LE HA DATE
Il Che Guevara del Tavoliere (cit.) Michele Emiliano oggi in un colloquio sulla Stampa firmato da Amedeo La Mattina chiede le dimissioni di Andrea Orlando da ministro della Giustizia, definendolo in conflitto d’interessi per la sua corsa alla segreteria del Partito Democratico:
Michele Emiliano definisce la sua candidatura «rivoluzionaria, fuori dagli schemi, di totale rottura». Altro che il balletto di Andrea Orlando che, ricorda il governatore pugliese, è stato sempre seduto in Consiglio dei ministri, ha votato e condiviso tutte le scelte dei «1000 giorni che hanno rovinato l’Italia».
Tra l’altro, secondo Emiliano, Orlando sarebbe in conflitto di interessi tra la casacca di ministro della Giustizia e quella di candidato, con la vicenda Consip entrata in maniera prepotente nelle dinamiche del congresso.
Il Guardasigilli come può essere contemporaneamente parte politica e istituzionale, dovendo garantire il controllo super partes della giustizia? Orlando dovrebbe dimettersi da ministro, come Luca Lotti anche per altri motivi? Si rimette alla loro sensibilità . Orlando dice che è un errore trasformare le primarie in un «referendum contro Renzi».
La posizione di Emiliano è curiosa, soprattutto in relazione al fatto che il CSM ha aperto un procedimento disciplinare su di lui perchè ha violato la norma che vieta alle toghe di fare vita attiva nelle formazioni partitiche.
Ma il governatore della Puglia sembra piuttosto concentrato su altro:
Ma Emiliano sente odore di sangue, spera che alle primarie ci sia l’effetto «4 dicembre» quando al referendum costituzionale molti andarono a votare contro il premier. E che questi voti contro Renzi siano tutti per lui.
«Sento crescere attorno a me una grande attenzione, soprattutto tra la gente comune, non certo dei sepolcri imbiancati. Vengo accusato di sposare alcune posizioni simili a quelle dei 5 Stelle, ma io le ho sempre condivise».
Ne ha per tutti. Anche per i «cosiddetti big» del Pd che si sono schierati con Renzi e Orlando, i vari Franceschini, Martina, Delrio, Poletti, Letta, Cuperlo, Finocchiaro, Zingaretti. «E’ tutto l’establishment che mi vede come la peste nera. Hanno paura di me perchè non sono omologabile».
Emiliano non vuole tromboni e screditati. Ha sei deputati e due senatori della sua parte.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 5th, 2017 Riccardo Fucile
POSTI LETTO PER 400 PERSONE MAI UTILIZZATI… IL PIANO APPOGGIATO DALLA CROCE ROSSA FATTO ARENARE, L’IRA DEL SINDACO… I DUBBI DELLA PROTEZIONE CIVILE
La più grossa donazione ai comuni terremotati del Centro Italia non s’ha da fare. E non si capisce perchè. Si tratta di un intero campo di moduli abitativi che potrebbe ospitare 400 persone:
14 palazzine per un totale di 5mila metri quadrati di camere con bagno e riscaldamento, spazi comuni, cucine.
Un piccolo villaggio smontabile e multiuso, dunque. Che sarebbe stato utilissimo durante l’ultima emergenza maltempo, quando chi aveva finalmente trovato il coraggio di rientrare nelle propria casa piombò di nuovo nella paura per i terremoti del 18 gennaio e finì a dormire nelle tende della Protezione civile, sotto un metro di neve.
Eppure, la pratica della donazione finora più consistente (il campo vale un milione di euro) si è persa nel labirinto della burocrazia.
“Io m’arrendo… ma che devo fare?”, ringhia Sergio Pirozzi, il primo cittadino di Amatrice. Da due mesi insegue quei moduli, senza successo. E ora non sa nemmeno più con chi si deve arrabbiare.
Il “campo dono” non è nuovo. È stato fabbricato otto anni fa e utilizzato prima in Somalia e poi, più di recente, nei cantieri della metropolitana di Milano.
Da tre anni giace impacchettato in 37 container da quaranta piedi all’Interporto di Livorno.
E da qui che bisogna cominciare a raccontare questa storia. Da Livorno, dove ha sede la Ciano International, un’azienda che si occupa del catering nelle basi della Nato e delle Nazioni Unite.
A inizio anno i dirigenti della Ciano si rivolgono a Maurizio Scelli, ex deputato di Forza Italia ed ex capo della Croce Rossa italiana: vogliono donare quei container ad Amatrice, sostengono che siano conservati molto bene.
Scelli, con il quale hanno collaborato già in Iraq, li mette in contatto con Pirozzi. “Ero entusiasta della proposta”, ricorda il sindaco. “La mia idea era di farne due centri di Protezione civile nei comuni vicini ad Amatrice: a Posta e a Cittareale. Due aree attrezzate al servizio dell’Alta Valle del Velino, che potevano ospitare i volontari e, alla bisogna, gli sfollati”.
Siamo a metà gennaio, e tutto lascia presupporre che la donazione andrà a buon fine. Un’azienda con una certa reputazione internazionale regala un intero campo smontabile ai terremotati. Si offre pure di montarlo gratuitamente nel cratere.
Con l’intercessione di Scelli, la Croce Rossa mette a disposizione i tir per trasportarlo da Livorno nel Lazio.
E ci sono i sindaci di Posta e Cittareale che hanno trovato sia i terreni dove installarlo, sia chi getterà il cemento dove saranno piazzati.
Ancora Pirozzi: “A quel punto decido di coinvolgere la Protezione civile nazionale, che mi rimanda a quella del Lazio. Da lì in avanti, le cose sono diventate confuse”.
Il primo a esprimere dubbi pare essere in realtà un dirigente della Protezione civile Toscana, tanto che l’ingegnere della Ciano Andrea Chiesa scrive un messaggio a Scelli: “La tipologia della nostra donazione (non essendo moduli abitativi pronti alla consegna) non rientra nei loro interessi visto che hanno acquistato e che stanno continuando ad acquistare moduli abitativi nuovi”.
Da Amatrice, però, insistono per averli. Allora da Roma, intorno a metà febbraio, sempre la Protezione civile manda a Livorno due funzionari per verificarne lo stato di conservazione. “Li ho portati all’Interporto e ho fatto vedere loro il materiale”, dice l’ingegner Chiesa. “Mi hanno detto che avrebbero scritto una relazione per i loro superiori entro un paio di giorni. Da allora non li ho più sentiti”.
Da Amatrice lo staff del sindaco si agita e sollecita più volte la Protezione civile del Lazio per il trasferimento. Oggi no, domani no, dopodomani forse.
Nell’attesa, si diffonde la convinzione che non vogliano il campo perchè non è nuovo. Che esista, cioè, una precisa disposizione che vieti, nonostante l’emergenza, l’acquisizione di materiale usato.
“Assolutamente falso”, dichiara a Repubblica Carmelo Tulumello, direttore dell’Agenzia regionale di Protezione civile del Lazio. “La verità è che quel campo è una struttura mastodontica che richiede cementificazione e opere di urbanizzazione. Non c’era la garanzia dello stato in cui si trova, perchè durante l’ispezione i moduli erano visibili soltanto in parte. E poi chi li avrebbe smaltiti 37 container navali?”.
Il punto è che non si riesce a capire chi abbia materialmente fermato l’operazione. Perchè da una parte Tulumello sostiene di non avere posto alcun veto, e di aver fatto “solo delle osservazioni ai Comuni su cui ricadeva l’onere della gestione del campo”. Dall’altra Pirozzi e gli altri sindaci aspettavano un via libera, che non è arrivato. Nessuno ha detto formalmente no, ma nessuno si è preso la responsabilità di accettare la donazione.
L’epilogo è di pochi giorni fa: la Ciano sta cercando qualcun altro cui potrebbe servire un campo abitabile da 5mila metri quadrati e 400 posti.
Fabio Tonacci
(da “La Repubblica“)
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Marzo 5th, 2017 Riccardo Fucile
APERTA UN’ISTRUTTORIA SULLA MULTINAZIONALE DEGLI ISOLANTI… DA 42 GIORNI IL PRESIDIO DEI 187 DIPENDENTI
Nella storia della K-Flex di Roncello, in Brianza, c’è solo una certezza: il licenziamento dei 187 lavoratori del colosso della gomma plastica, dopo 42 giorni di presidio davanti all’ingresso dell’azienda.
Giorni e notti di resistenza vana, nelle tende a ridosso della fabbrica, ora che anche l’incontro al ministero dello Sviluppo economico è fallito.
Ma sul caso K-Flex il ministero ha aperto un’istruttoria per capire dove siano finiti i 12 milioni di euro di finanziamenti pubblici utilizzati dal gigante mondiale della chimica, che ha deciso di smantellare lo stabilimento.
Soldi che sarebbero dovuti rimanere sul suolo italiano e che invece sembra siano stati utilizzati per investimenti all’estero, come ha ammesso (in Assolombarda) Marta Spinelli, membro del cda e figlia del fondatore.
All’appello, però, mancano altri 23 milioni di euro, sempre dello Stato, che la proprietà avrebbe deciso di investire in Malesia, in Cina, negli Emirati Arabi Uniti e a Hong Kong. L’azienda ha anche due sedi produttive in Polonia.
Brianza, la vita ai cancelli della fabbrica dei lavoratori K-Flex
Per i lavoratori i sindaci della zona hanno deciso di cancellare le rette di nido, scuole e mensa. Sono 25 i primi cittadini della zona di Vimercate che vogliono tendere la mano alle maestranze senza stipendio. “C’è prima di tutto la dignità e loro stanno lottando perchè la loro non sia cancellata”, aveva detto Giorgio Monti, primo cittadino di Mezzago del Pd.
I gruppi di acquisto solidale hanno raccolto cibo da portare ai lavoratori in presidio e per le famiglie. Per 42 giorni, davanti ai cancelli di via Da Vinci, sono arrivati operai di altre aziende, per dire ai manifestanti “siamo con voi”.
Quando i lavoratori della K-Flex hanno bloccato la provinciale, hanno trovato gli automobilisti dalla loro parte.
Quello che non torna, nelle scelte della società , lo ha spiegato Matteo Moretti di Fictem Cgil Monza e Brianza: “Dai bilanci e dalla rendicontazione delle società controllate emerge in modo chiaro che la K-Flex ha utilizzato soldi pubblici per consolidare le proprie quote di mercato all’estero”.
Il gioco è semplice. La K-Flex acquisisce aziende estere senza futuro, accede ai finanziamenti messi a disposizione dalla Cassa Depositi e Prestiti (controllata all’80 per cento dal ministero dell’Economia) e con quei soldi “pubblici”, hanno a lungo sottolineano i sindacati, fa prosperare quelle aziende ricavando utili da capogiro. “Quel denaro è dei contribuenti italiani e poteva essere utilizzato per salvare il destino dei 187 operai dell’unica sede italiana, quella di Roncello”.
Nata nel 1989, la K-Flex è numero uno al mondo nella produzione di isolanti che gestiscono caldo e freddo con applicazioni in tutti i campi: ferroviario, navale, petrolifero.
Suoi i materiali con cui sono stati isolati il Teatro alla Scala e l’aeroporto di Malpensa. Un’azienda in salute la multinazionale con plancia di comando in Brianza: l’obiettivo, dichiarato dalla proprietà , è quello di raggiungere i 500 milioni di ricavi nel giro di due anni. Proprio in questi giorni, negli Stati Uniti, la Youngsville in Louisiana, l’azienda sta realizzando una nuova unità produttiva.
Le tute blu sono state davanti ai cancelli giorno e notte anche per evitare che la proprietà smontasse i macchinari per spedirli all’estero.
“Siamo imprenditori e andiamo dove il mercato ce lo chiede, dove c’è lavoro”, il punto di vista del fondatore Amedeo Spinelli. Due giorni fa, la proprietà ha confermato gli esuberi anche davanti alla richiesta del governo di un nuovo piano industriale. “Lo squilibrio tra domanda e offerta e le gravi carenze strutturali dello stabilimento di Roncello rendono impossibile potervi proseguire l’attività e anti-economico il mantenimento in essere del sito. La conseguenza è di dover cessare l’attività produttiva della sede di Via Leonardo da Vinci”.
Al momento gli unici lavoratori che la K-Flex intende salvare sono quelli del reparto ricerca e sviluppo e della logistica: 60 persone in tutto, che da quando è iniziata la protesta non sono mai usciti dallo stabilimento.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 5th, 2017 Riccardo Fucile
PER IL 67% L’ITALIA VA NELLA DIREZIONE SBAGLIATA
La crisi economica più lunga del dopoguerra sta segnando profondamente il clima sociale ben oltre la reale portata della crisi, se confrontiamo le opinioni degli italiani con quelle dei cittadini di molti altri Paesi, interpellati da Ipsos nel dicembre scorso. Solo il 18% dei nostri connazionali giudica molto o abbastanza positiva la situazione economica dell’Italia, contro una media del 42% di ottimisti registrata in 27 Paesi. Siamo al 23° posto, preceduti da Perù (72%) o Colombia (34%), Paesi con dati macroeconomici e un livello di ricchezza nettamente inferiori ai nostri ma con un’opinione pubblica più positiva.
Diminuiscono poi coloro che giudicano positivamente la situazione economica, scesi al 15%.
Gli italiani hanno interiorizzato la crisi e faticano a vedere vie d’uscita.
Uno su 2 prevede che la propria situazione rimarrà invariata nel prossimo futuro, 1 su 4 si aspetta un peggioramento e solo 1 su 5 un miglioramento.
Gli ottimisti sono in flessione del 2% rispetto al marzo 2016 e del 5% rispetto al 2015. Permane una diffusa inquietudine rispetto alla crisi, nonostante i segnali di ripresa: oltre 3 italiani su 4 si dichiarano molto (52%) o abbastanza (25%) preoccupati.
La maggioranza relativa (39%, + 2% rispetto a un anno fa) teme che il peggio debba ancora arrivare, il 30% ritiene che siamo all’apice della crisi e il 20% è convinto che il peggio sia passato.
Le preoccupazioni maggiori riguardano il lavoro, citato spontaneamente tra i problemi principali dall’80% degli intervistati, senza grandi variazioni negli ultimi anni, nonostante il miglioramento dei dati occupazionali.
Al 2° posto l’immigrazione (33%), il tema in più forte aumento (nel 2014 veniva menzionata solo dal 3%); al 3° posto la crescita economica e la sicurezza, entrambi citati dal 19% degli italiani.
A seguire, instabilità politica (16%), sanità (14%), corruzione (13%) e Fisco (11%).
Il rilievo dato ai singoli temi varia significativamente nei diversi segmenti sociali ed elettorali, con accentuazioni abbastanza prevedibili: l’occupazione è più citata nelle aree depresse, l’immigrazione tra i ceti più popolari e meno istruiti e gli elettori di centrodestra, come pure la sicurezza; la crescita economica presso i ceti dirigenti, le tasse presso i lavoratori autonomi.
Alla luce di queste preoccupazioni non stupisce, quindi, che 2 italiani su 3 (67%) ritengano che il Paese stia andando nella direzione sbagliata, con una crescita di 7 punti rispetto al marzo 2016, mentre solo il 15% è di parere opposto e il 18% sospende il giudizio.
E non stupisce neppure che 1 italiano su 2 esprima un giudizio negativo sul governo (52%) e sul premier Gentiloni (50%), allorchè 1 su 3 (rispettivamente il 32% e il 35%) si esprime in termini positivi.
Le valutazioni più negative sulla situazione attuale, sul futuro del Paese e sull’esecutivo e il premier sono espresse dalle persone più in difficoltà e dagli elettori dei partiti dell’opposizione che, nell’attuale scenario tripolare, rappresentano la maggioranza dei cittadini.
La situazione non è rosea ma la negatività e il pessimismo vanno al di là della situazione attuale che è sì caratterizzata da molti elementi critici ma anche da non pochi indicatori positivi.
Solo per fare qualche esempio: siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa (ma quasi 3 italiani su 4 lo ignorano), nel 2016 il nostro export ha fatto segnare un anno record, interi comparti economici ci vedono sul podio a livello mondiale, siamo all’avanguardia per fonti di energia rinnovabile, si conferma un’elevata propensione al risparmio, si stanno affermando nuovi paradigmi di consumo e i cittadini si mostrano più responsabili e attenti all’ambiente.
Le motivazioni che stanno alla base di questo clima sociale sono in larga misura riconducibili alla percezione di un peggioramento rispetto al passato e alla convinzione che il meglio lo abbiamo alle spalle: l’ascensore sociale si è fermato e il futuro appare ai più incerto e minaccioso. In questo contesto l’aspettativa di miglioramento è di gran lunga superiore ai risultati fin qui ottenuti.
E, sullo sfondo, c’è la disillusione rispetto ad un ceto dirigente (non solo politico) che in larga misura risulta delegittimato agli occhi dei cittadini e appare autoreferenziale e incapace di delineare obiettivi ambiziosi per far uscire il Paese dal clima plumbeo nel quale si trova.
Nando Pagnoncelli
(da “il Corriere della Sera)
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