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BANKITALIA: “PROBLEMI DEL PAESE NON SI RISOLVONO CON PIU’ DEBITO. SE TEMONO CHE IL DEBITORE FALLISCA, I RISPARMIATORI FUGGONO”

Ottobre 5th, 2018 Riccardo Fucile

“FALSO IL LUOGO COMUNE SULL’ITALIA FELICE SENZA LA CAMICIA DI FORZA FINANZIARIA DELL’EUROPA”

Il problema principale dell’economia italiana è lo spreco di risorse: a costi alti non segue una produzione efficiente.
A spiegarlo è il direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, nel corso di una lectio magistralis all’Università  di Venezia: “L’Italia sa fare un sacco di cose, ma le fa, in complesso, meno e peggio di quanto potrebbe”, afferma.
Non si dilunga su quale potrebbe essere la soluzione della questione, nè su quali siano le cause, ma tiene a precisare che, in ogni caso, non è attraverso l’indebitamento che uno Stato può risolvere i suoi problemi:
Le cause di questa situazione sono molteplici e non le discutiamo qui. Una cosa è certa: il problema non si risolve inducendo lo Stato a indebitarsi. Lo Stato può far molto in questo campo spendendo meglio e fissando norme che incentivino l’efficienza.
Rossi poi interviene su una delle questioni maggiormente dibattute negli ultimi giorni: quella dei timori dei mercati per le decisioni del governo.
Mercati, sottolinea, “essenzialmente vuol dire risparmiatori”, vuol dire, quindi persone che investono il loro denaro e che, per questa ragione osservano attentamente l’andamento del debito pubblico e le scelte economiche degli esecutivi.
Tutto ciò avviene perchè, spiega in sostanza il direttore generale, a nessuno piace perdere soldi.
E l’eventualità  di non guadagnare nulla dal denaro investito o, peggio, di perderlo in caso di default di uno Stato a un risparmiatore non può che fare paura. Nel suo discorso Rossi prende come esempio un soggetto che detiene titoli di Stato italiani e spiega:
Se mercati vuole dire essenzialmente risparmiatori, quelli nazionali sono diversi da quelli esteri? In altri termini, io che sono italiano tengo molto più volentieri nel mio portafoglio un BTP (un titolo dello Stato italiano) di un risparmiatore francese o tedesco, per ragioni patriottiche? Può darsi, ma è molto improbabile. I soldi sono soldi, a nessuno fa piacere perderli per amor di patria, salvo che in circostanze eccezionali, come ad esempio una guerra”.
Una differenza economica potrebbe essere che se lo Stato italiano, mettiamo, dovesse fallire, cioè non rimborsare a scadenza i propri titoli o farlo solo in parte, per cercare di risalire la china dovrebbe aumentare le tasse, colpendo quindi i propri cittadini ma non anche quelli francesi o tedeschi. Gli italiani potrebbero essere allora più restii a liberarsi di titoli pubblici nazionali, quando s’infittiscono notizie negative sulle finanze del loro Stato, nel tentativo di salvarlo e di non essere tassati.
Alla luce di queste constatazioni, continua Rossi, bisogna certamente fare attenzione al modo in cui le notizie economiche si divulgano, e in questo i media e gli studiosi del settore hanno delle responsabilità . Al contempo, però, semplificare in maniera grossolana non aiuta a comprendere:
Il luogo comune recita che l’economia italiana potrebbe essere prospera e felice se solo l’Europa, per stolidità  teutonica, e i mercati, per occasionali antipatie politiche, non le imponessero una camicia di forza finanziaria. In questo modo ipersemplificato di raccontare le cose vi sono grani di verità  e tonnellate di falsità . Le cose sono molto più intrecciate e complicate e il compito di chi ha a lungo studiato questi problemi è di farlo capire bene.

(da “Huffingtonpost”)

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TRE FURBATE PER FAR TORNARE I CONTI: CRESCITA GONFIATA, IL RITORNO DELLE CLAUSOLE E 10 MILIARDI DI TEORICHE PRIVATIZZAZIONI

Ottobre 5th, 2018 Riccardo Fucile

MANOVRA DA 40 MILIARDI, PER LO PIU’ IN DEFICIT… UN PROGRAMMA DA TRUFFATORI

Una crescita ipertrofica, il ricorso monstre a quelle privatizzazioni che sono tradizionalmente foriere di delusioni, le clausole di salvaguardia sull’Iva che restano per il 2020 e il 2021.
È un tridente ambizioso, ma fragile nella sua struttura, quello che il governo gialloverde schiera nella Nota di aggiornamento al Def, la cornice della manovra, trasmessa alle Camere con una settimana di ritardo rispetto alla scadenza e dopo lunghissime giornate di fibrillazioni sulla direttrice Roma-Bruxelles, ma anche e soprattutto tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio sulla spartizione della torta, con il Tesoro preso d’assalto per trovare la quadra.
È un tridente spuntato perchè poggia su tre elementi che per l’esecutivo sono in grado di fare tornare i conti, ma per i principali osservatori e decisori – cioè Bruxelles e i mercati – la prospettiva si delinea già  come ben diversa, cioè indigesta.
Un tridente con tre “furbate” per provare a tenere in piedi la promessa di abbattere il debito di ben quattro punti percentuali in tre anni e di ridurre progressivamente il deficit.
Scavando, però, dentro l’operazione sui conti si scopre un vulnus profondo, quello relativo al cosiddetto saldo strutturale, l’indicatore a cui guarderà  Bruxelles per valutare la solidità  e la serietà  degli impegni.
In tutte le interlocuzioni che il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha avuto con la Commissione europea da quando è nato il governo fino a un mese, l’impegno è sempre stato quello di migliorare il deficit strutturale.
Ora, nella Nota, è previsto un peggioramento dello 0,8% per il 2019, 2020 e 2021.
E così, nero su bianco, il governo scrive che il processo di riduzione dell’indebitamento strutturale partirà  solo dal 2022.
Altra regola che il governo ammette già  di non potere rispettare è quella del debito. L’andamento è decrescente, ma il rapporto debito-Pil nel 2021 è previsto eccedere il benchmark di 3,9 punti percentuali.
La super crescita si diceva. Le stime del Pil (1,5% nel 2019, 1,6% nel 2020 e 1,4% nel 2021) sono portate a livelli molto distanti rispetto alle previsioni dei principali organismi nazionali e internazionali, che collocano in media l’asticella intorno all’1-1,1 per cento per il prossimo anno.
Come fa il governo a spingersi così in alto? La risposta si trova tra i numeri della Nota di aggiornamento, accompagnati da un ragionamento politico: l’impatto sul Pil delle misure previste, dal reddito di cittadinanza al superamento della Fornero, è pari allo 0,6 per cento per quanto riguarda il 2019, allo 0,5% nel 2020 e allo 0,3% l’anno successivo.
Che sia un’operazione ambiziosa lo riconosce lo stesso Tria nella prefazione che apre la Nota, rilanciando al rialzo: “Questi obiettivi di crescita economica sono ambiziosi ma realistici, e potrebbero essere oltrepassati, per almeno due motivi”.
Qui entrano in gioco altri due frecce che il governo pensa siano in grado di centrare il bersaglio della crescita, ma che rischiano alla fine di trasformarsi in boomerang: un piano di rilancio degli investimenti pubblici, che negli ultimi anni non sono mai decollati, e la convinzione – si legge sempre nel testo – “che una volta che il programma di politica economica del Governo sarà  approvato dal Parlamento, si dissolva l’incertezza che ha gravato sul mercato dei titoli di Stato negli ultimi mesi”. In pratica un’inversione dello spread, che però nelle ultime settimane ha mostrato una dinamica totalmente opposta: è salito, anche oltre gli 300 punti, quando le discussioni sulla manovra si focalizzavano su prospettive vicine allo schema finale tracciato per i conti pubblici.
Un’altra bacchetta magica che il governo è pronto a imbracciare è quella delle privatizzazioni.
Nel biennio 2019-2020 – è la stima del governo – si punta a incassare circa 10 miliardi in modo da riversarli nell’operazione di abbattimento del rapporto debito/Pil.
E’ una ricetta antica, che ora viene rispolverata, ma che negli ultimi anni ha avuto un iter alquanto complesso, portando un magro bottino nelle casse dello Stato.
Era il 1992 quando si pensò alle privatizzazioni per abbattere il debito. In mezzo ci sono più di 25 anni di operazioni travagliate e insuccessi.
Basta pensare al grande piano di dismissioni lanciato da Berlusconi nel 2001: si volevano portare a casa 60 miliardi, ma alla fine il risultato fu il trasferimento delle quote di Enel, Eni e altri asset strategici dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti.
C’è la storia del tentativo non riuscito su Alitalia e molti altri esempi.
La ricetta, riproposta, ingloba molte incognite e poche certezze. Pacchetto che contempla la vendita del patrimonio immobiliare e il proposito di rivedere di rivedere i canoni di concessionari, riferimento quest’ultimo alla vicenda Autostrade.
Capitolo clausole di salvaguardia sull’Iva.
Nel 2019 l’Iva non aumenterà  e si farà  ricorso all’extra deficit, ma nel 2020 e nel 2021 le clausole ci saranno ancora: saranno ridotte come portata, e questo porterà  a un beneficio sul deficit, ma l’altra faccia della medaglia contempla l’aumento, anche se limitato, dell’imposta.
Uno schema, quindi, che da una parte punta a un beneficio, ma dall’altro ha un costo politico altissimo. Ma appare una via obbligata perchè le risorse per coprire le misure, soprattutto nel 2020 e nel 2021, sono ridotte al lumicino.
Qui si innesta la seconda partita dell’operazione conti pubblici, cioè le misure da inserire nella manovra. Dopo l’ennesima giornata di tensioni sulla spartizione delle risorse, alla fine si decide una composizione che assegna 10 miliardi al reddito di cittadinanza (9 per le pensioni e il reddito, 1 per la riforma dei centri per l’impiego), 7 miliardi alla quota 100 per il superamento della legge Fornero sulle pensioni, 2 per la flat tax al 15% destinata alle partite Iva, 1 miliardi per le assunzioni nelle forze dell’ordine e 1,5 miliardi per i risparmiatori che hanno avuto perdite per colpa dei fallimenti bancari.
La spartizione è definita, ma non è detto che accontenti Salvini e Di Maio. Fonti di governo, infatti, riferiscono di malumori in capo al leader della Lega che sarebbe stato costretto a ridurre la portata della quota 100 per chiudere l’accordo con i 5 Stelle. L’importo di 7 miliardi, in effetti, delinea il bacino più ristretto tra tutti quelli ipotizzati nelle scorse settimane: 400mila uscite e quota 100 solo con la formula 62+38 (età  anagrafica+anni di contributi) a fronte di 495mila prepensionamenti che sarebbero stati garantiti se si avessero avuti a disposizione 8,5 miliardi.

(da “Huffingtonpost”)

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