Ottobre 16th, 2018 Riccardo Fucile
E PUO’ RESTARE AL VIMINALE NONOSTANTE ABBIA DICHIARATO CHE RIFAREBBE LA STESSA COSA… E GLI ITALIANI PERBENE DOVREBBERO ANCORA CREDERE CHE LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI
Fine dei domiciliari per Mimmo Lucano, il sindaco, oggi sospeso di Riace, confinato in casa dal 2 ottobre scorso quando è stato arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Il tribunale del Riesame, di fronte al quale oggi si è celebrata l’udienza, ha revocato la misura disposta dal giudice di Locri sostituendola con il divieto di dimora.
Lucano dunque sarà libero ma non potrà più stare nella “sua” Riace, divenuta in queste settimane il centro nevralgico di mobilitazioni e assemblee antirazziste.
Sotto casa del sindaco, sabato 6 ottobre ha sfilato un gigantesco corteo di oltre 6mila persone per mostrargli solidarietà e chiederne la liberazione.
Questa sera Lucano è stato liberato, ma dal suo “paese dell’accoglienza” dovrà andare via.
Vediamo di approfondire: l’arresto per un reato così minimo era già una anomalia, visto che le contestazioni più gravi erano cadute.
Comunque, in punta di diritto, i domiciliari ci stanno se esiste il pericolo di fuga o il pericolo di reiterazione del reato.
Quest’ultimo non esiste più dal momento che uno non esercita più le funzioni di sindaco. Il primo non è mai esistito.
Eppure Lucano è stato prima arrestato e ora gli è stato imposto il divieto di dimora, neanche fosse un mafioso.
Ma vediamo un altro indagato illustre: Salvini è indagato per un reato ben più grave, il sequestro di persona, ma nessun mandato di arresto è stato mai richiesto.
Anche il questo caso non esiste il pericolo di fuga ma esiste quello di reiterazione del reato.
Per una semplice ragione: che Salvini stesso, il giorno che ha saputo di essere indagato, ha ribadito che “rifarebbe la stessa cosa”, come risulta da video e dichiarazioni alla stampa.
Quindi il giudice avrebbe dovuto spiccare il mandato di arresto, cosa che si è ben guardato bene dal fare, nonostante esistessero i presupposti giuridici.
Questa è la giustizia in Italia: e poi gli italiani “perbene” dovrebbero ancora credere che la legge è uguale per tutti.
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Ottobre 16th, 2018 Riccardo Fucile
IMPRESE, BANCHE, ASSICURAZIONI CHE A LORO VOLTA SCARICHERANNO TUTTO SUGLI ITALIANI
Qualcuno il conto salato lo deve pagare.
Perchè il maxi-deficit al 2,4% – ora sul binario rovente Roma-Bruxelles e quindi tutt’altro che scontato – non basta comunque a coprire il ricco menù della manovra deciso da Matteo Salvini e Luigi Di Maio.
E così, tra le 46 pagine del Documento programmatico di bilancio – la sintesi della manovra – spunta chi deve aprire il portafoglio: imprese, banche e assicurazioni.
Il bersaglio del governo gialloverde per trovare la quadra sulle coperture è il mondo produttivo. I sacrifici non sono emotivi, ma sostanziali: le risorse saranno prelevate e utilizzate a un altro scopo, che esula da quelli interni.
I malumori sono pronti ad esplodere. Così come l’impatto sui cittadini.
Chi è rimasto ampiamente frastornato dalla lettura del Dpb è sicuramente il mondo delle imprese.
Con eccezione dell’intervento sull’Ires, che passa dal 24% al 15%, e del rifinanziamento dell’iper e del super-ammortamento, voluti dal centrosinistra, nel documento inviato alla Commissione europea c’è ben poco.
E quel poco, cioè la mini flat tax per gli autonomi, è stata ridotta a briciole: 546 milioni stanziati nel 2019 per una tassazione agevolata che sarà valida solamente per i ricavi fino a 65mila euro.
Non c’è la soglia dei 100mila euro, che voleva la Lega, ed entro la quale si sarebbe dovuta pagare un’aliquota aggiuntiva del 5 per cento. Non solo.
La flat tax genera un contraccolpo pesante. La tassa piatta, infatti, annulla il maggiore beneficio che si otteneva con il combinato disposto Iri-Ace, cioè l’imposta sul reddito patrimoniale e l’agevolazione introdotta nel 2011 per favorire il rafforzamento della struttura, sempre patrimoniale, delle imprese.
La perdita per le imprese, in termini di sgravi, è di 2 miliardi.
Sull’onda di un tema politico molto cavalcato dall’inizio del governo, M5S e Lega hanno deciso di puntare dritto alle banche: il prossimo anno dovranno dare 3,3 miliardi allo Stato.
La cifra emerge dalla somma di quattro misure che si è deciso di recapitare agli istituti di credito.
Interventi fiscali non meglio precisati valgono 1,3 miliardi nel 2019 (900 milioni nel 2020 e 500 milioni nel 2021), il rinvio degli sgravi su svalutazioni e perdite vale 900 milioni nel 2019 (zero nei successivi), il nuovo trattamento fiscale sulla svalutazione dei crediti vale 1,1 miliardi.
Per un totale, appunto, di 3,3 miliardi il prossimo anno.
Le banche sono in fibrillazione da giorni. Il rischio legato alle tasse, come sottolineato dall’Abi, è l’aumento dei rischi per i clienti, soprattutto quelli futuri: potrebbero avere meno credito e a prezzi più alti rispetto a quelli attuali.
C’è da poi da considerare che l’aumento della tassazione va a impattare nei rapporti tra banche e imprese visti dall’ottica del finanziamento delle prime alle seconde: il flusso potrebbe essere meno consistente, con una ricaduta negativa pesante sulla produzione. Recentemente la Banca d’Italia ha ricordato che il credito bancario rappresenta “una componente storicamente importante in Italia” e questa considerazione resta anche se il peso delle banche sulle passività delle imprese si è ridimensionato negli ultimi anni.
Anche le assicurazioni non gioiscono.
La rideterminazione dell’acconto di imposta sui premi assicurativi, infatti, sottrarrà loro circa 1 miliardo. Il meccanismo prevede l’innalzamento dell’aliquota dell’imposta sui premi assicurativi: oggi è fissata al 59% per il prossimo anno e al 74% per gli anni successivi. Il governo ha deciso di portarla al 75% già nel 2019, al 90% nel 2020 e al 100% dal 2021 in poi.
Alcuni titoli, come quelli di Unipol e UnipolSai ne hanno risentito in Borsa, ma i malumori sono esplosi già anche a livello di management. “Bisogna fare molta attenzione a trattare questi argomenti con la dovuta attenzione perchè siamo uno dei sistemi portanti del sistema nazionale”, ha ammonito il numero uno di Generali, Gabriele Galateri di Genola.
Per trovare la quadra l’esecutivo ha pensato anche al più classico degli interventi, a cui ricorre ogni governo quando la coperta è troppo corta e non c’è altro ambito da cui attingere risorse: i tagli ai ministeri.
Misura che però è generatrice di grandi fibrillazioni nei delicati equilibri intergovernativi, a maggior ragione oggi che gli stessi ministeri sono espressione di due forze politiche, Lega e 5 Stelle.
Ne consegue, quindi, una diatriba tra chi deve cedere di più rispetto al coinquilino di governo.
In totale dovranno arrivare 2,5 miliardi all’interno di una spending review che ammonta a 3,6 miliardi. Ma necessari. Perchè una revisione della spesa pubblica senza tagli ai ministeri è di fatto impossibile, come dimostrano i tentativi, andati a vuoti, degli ultimi governi.
Il puzzle delle coperture si tiene insieme a fatica perchè poggia su voci alquanto fragili. La maggior parte delle risorse – pari a 21,9 miliardi – sono legate al maggior deficit e quindi alla trattativa ad alta tensione con Bruxelles.
Poi ci sono i sacrifici chiesti a imprese, banche, assicurazioni e ministeri con appunto relativi mugugni.
Nel Dpb figurano ancora 1,8 miliardi di coperture da specificare visto che è previsto 1 miliardo di incasso dalla voce ‘altre misure’ e 0,7 milioni da ‘altro’.
In tutto si raccolgono così 33,5 miliardi a fronte di misure che nel Documento di bilancio sono quantificate in 33,5 miliardi. La coperta c’è, ma ha maglie larghissime che rischiano di sfilarsi l’una dall’altra.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 16th, 2018 Riccardo Fucile
NEL 2019 LO STANZIAMENTO E’ ZERO ALTRO CHE 1,5 MILIARDI… E NEL 2020 E 2021, AMMESSO CHE CI ARRIVINO VIVI, SI ARRIVA SOLO A 720 MILIONI
L’annuncio, messo nero su bianco nel comunicato stampa di palazzo Chigi che elenca le misure della manovra, parla di un ampliamento enorme, “14 volte rispetto a prima”, e di una dotazione di 1,5 miliardi.
Ma sul risarcimento alle vittime delle crisi bancarie è già giallo.
Nel Documento programmatico di bilancio inviato a Bruxelles, infatti, lo stanziamento previsto per questa misura nel 2019 è pari a zero.
E nel 2020 e 2021, le risorse a disposizione sono pari a 360 milioni per ciascuno anno. La somma, 720 milioni, non combacia comunque con l’importo indicato nel comunicato.
Il tema sta molto a cuore ai 5 Stelle, che hanno fatto delle banche e del risarcimento ai truffati uno dei loro cavalli di battaglia contro il Pd di Matteo Renzi e l’allora ministra per le Riforme Maria Elena Boschi.
Erano i tempi di Banca Etruria, fallita insieme ad altri tre istituti, e del crac delle venete. I pentastellati sposarono subito la causa delle vittime delle truffe bancarie e si impegnarono per risarcire tutti. Impegno ribadito, tra l’altro, durante l’ultima campagna elettorale.
Ora, però, le risorse annunciate non trovano conferma nel Dpb. Una fonte di governo ha spiegato a Reuters che “gli 1,5 miliardi sono un obiettivo di legislatura, da raggiungere cioè in cinque anni”.
Si sa da dove saranno presi questi soldi, e cioè dai conti correnti e dalle polizze dormienti, ma nel comunicato di palazzo Chigi si è omesso di indicare l’arco temporale.
Se fosse confermato il timing della legislatura si tratterebbe di un impegno monco, da completare in un momento successivo, dato che i documenti di bilancio guardano oggi al triennio 2019-2021.
Impegno quantomai azzardato visto che la manovra ha fatto già fatica a trovare la quadra per il prossimo anno.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 16th, 2018 Riccardo Fucile
LE SIMULAZIONI DELLE SOCIETA’ SPECIALIZZATE AVVERTONO CHE LA RENDITA SARA’ MOLTO PIU’ BASSA… UN ESEMPIO: DA 1500 EURO SI SCENDE A 1.125 (LA DIFFERENZA CHIEDETELA A SALVINI)
Si potrà staccare prima, in alcuni casi anche cinque anni e mezzo in anticipo.
La pensione, però, subirà un drastico taglio, sino a un quarto dell’assegno.
Le simulazioni realizzate in esclusiva per «L’Economia» del Corriere della Sera da Progetica, società di consulenza in pianificazione finanziaria e previdenziale, mostrano i possibili effetti dell’introduzione della «quota 100», cioè la somma dell’età anagrafica (62 anni) e dell’anzianità contributiva (38) come requisito per accedere al pensionamento.
La misura è prevista nel Contratto ed è stata richiamata nella Nota di aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza), varato nei giorni scorsi dal governo.
I costi immediati sono molto pesanti.
Dopo i rilievi del presidente dell’Inps Tito Boeri – che ha parlato di 100 miliardi di debito in più sulle spalle degli italiani di domani – si parla comunque di un rimando della partenza delle nuove misure ad aprile, giusto un mese prima delle elezioni europee.
I numeri «magici», da 22 a 26
Chi ha cominciato a lavorare fra i 22 e i 26 anni con continuità di carriera otterrà i maggiori benefici dall’introduzione di Quota 100, cioè la somma di 62 anni di età e 38 di contributi. Il conto, però, sarà molto salato.
Potrà anticipare il pensionamento sino a 5 anni e sei mesi, ma il suo vitalizio subirà un taglio del 25%. Gli effetti sull’età di pensionamento e sul rapporto fra pensione e ultimo stipendio saranno molto diversi a seconda dell’età e dell’inizio della contribuzione.
Per i più anziani
«Gli effetti simulati sulle età di pensionamento indicano che con Quota 100 non cambierà nulla per chi ha iniziato presto a lavorare, per esempio a 18 anni – dice lo studio di Progetica –. Per questi profili continuerà a essere raggiunto per primo il requisito di pensione anticipata, basato sui contributi versati.
Un impatto tra lo scarso e il modesto, compreso tra pochi mesi e due anni, si ha invece per coloro che hanno iniziato a lavorare tardi, intorno ai 30 anni, e per coloro che hanno avuto carriere intermittenti, come precari e donne.
I maggiori benefici di questo meccanismo riguarderanno chi ha iniziato a lavorare in fasce intermedie, tra i 22 ed i 26 anni. Per alcuni profili, infatti, l’anticipo potrebbe superare i 5 anni: addirittura cinque anni e sei mesi per un trentacinquenne che ha cominciato a 26».
Il rischio del quarto
Andando avanti con l’età , non cambierà nulla per chi ha cominciato a lavorare a diciotto anni: pure in questi casi, infatti, scatterà per primo il requisito per la pensione anticipata. Per chi ha cominciato fra i 22 e i 26 anni, l’anticipo potrà andare dai 4 anni e sei mesi per un cinquantenne, ai 3 anni e 8 mesi per un sessantenne.
Quando si parla di pensioni, però, tempo e denaro non vanno quasi mai d’accordo: staccare prima significa subire un taglio del vitalizio.
«Per chi potrebbe continuare a lavorare – prosegue lo studio – il rovescio della medaglia dell’andare prima in pensione è quello di versare meno contributi, e avere quindi una pensione più bassa a causa dei meccanismi di calcolo basati sulla speranza di vita».
Un trentenne che ha cominciato a 26 anni, per esempio, con Quota 100 potrebbe smettere 5 anni e sei mesi prima rispetto al requisito richiesto per la pensione di vecchiaia: il suo assegno, però, si ridurrà di un quarto.
L’impatto sarebbe naturalmente inferiore per i disoccupati, perchè la riduzione sarebbe dovuta solamente al meccanismo di calcolo contributivo e non anche ai minori contributi versati.
Bisogna fra l’altro tener presente che le simulazioni ipotizzano una vita lavorativa senza buchi contributivi dall’inizio sino all’età della pensione: una situazione sempre più rara nell’attuale mondo del lavoro.
L’età di mezzo
Quota 100, in sostanza, riguarda soprattutto coloro che hanno iniziato a lavorare in età di mezzo e con continuità , ma le simulazioni ricordano come andare in pensione prima non abbia solo benefici.
Per coloro che intendono pianificare una serenità economica al tempo della pensione, ritirarsi prima dal lavoro significa infatti destinare maggiori versamenti in previdenza integrativa per integrare l’assegno pubblico, se si vuole evitare una riduzione del proprio tenore di vita.
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 16th, 2018 Riccardo Fucile
“LA DECISIONE DI NON VALIDARE I NUMERI DEL DEF E’ STATA PRESA SULLA BASE DEI DATI UFFICIALI DELLA MANOVRA TRASMESSI DAL MINISTERO DELLE FINANZE”
La validazione delle stime programmatiche “riguarda il quadro nella sua interezza” e la decisione dell’Upb di non validare i numeri della Nota al Def è stata presa “sulla base esclusivamente delle variabili esogene e delle informazioni sulla struttura della manovra fornite dal Mef, informazioni che non si devono ritenere nè parziali nè obsolete”.
È quanto puntualizza lo stesso Upb dopo aver notato come nel Draft budgetary plan si affermi “sorprendentemente” che le previsioni sono state “pubblicate in tempi diversi e sulla base di informazioni parziali o obsolete”.
“Nel Dpb 2019 pubblicato in data odierna – si legge in una nota diffusa dell’Autorità dei conti pubblici – il Governo, dando conto della mancata validazione da parte dell’Upb delle previsioni macroeconomiche programmatiche 2019, afferma sorprendentemente a pagina 6 che ‘oggetto di discussione dovrebbe essere unicamente la valutazione dell’impatto sul quadro macroeconomico della manovra di finanza pubblica, e non la misura in cui la previsione ufficiale si discosta da quelle formulate da altri analisti, pubblicate in tempi diversi e sulla base di informazioni parziali o obsolete’.
Al riguardo – viene precisato nel comunicato – l’UPB ribadisce che la validazione delle previsioni macroeconomiche programmatiche riguarda il quadro nella sua interezza”.
In ogni caso, rispetto allo scenario a legislazione vigente, “la valutazione dell’impatto positivo della manovra sulla crescita reale è risultata, per tutti i previsori del panel Upb (CER, Prometeia, REF.ricerche), inferiore a quella implicita nella previsione del Governo. Un divario ancora più ampio rispetto alle stime ufficiali, sempre per tutti i previsori del panel Upb, si riscontra nella valutazione dell’impatto della manovra sulla crescita nominale”.
L’Ufficio ribadisce quindi che la decisione “è stata presa utilizzando il modello di previsione dell’Upb e quelli degli istituti che fanno parte del panel, sulla base esclusivamente delle variabili esogene e delle informazioni sulla struttura della manovra fornite dal Ministero dell’Economia e finanze dopo la pubblicazione della Nadef, informazioni che non si devono ritenere nè parziali nè obsolete”.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 16th, 2018 Riccardo Fucile
UN MINISTRO DEGLI INTERNI ITALIANO CHE VA ALL’ASSEMBLEA DELLA CONFINDUSTRIA RUSSA VI FA PENSARE QUALCOSA?… NESSUN IMPRENDITORE ITALIANO AL SEGUITO, CONTRARIAMENTE A QUANTO ANNUNCIATO
Toccata e fuga a Mosca. Domani (mercoledì), Matteo Salvini farà una gita in Russia: in programma, solo l’Assemblea della Confindustria locale.
Obiettivo: accelerare la rimozione delle sanzioni.
La delegazione scelta per questo viaggio è ristretta: oltre allo stesso ministro dell’Interno, ne fanno parte Andrea Paganella, suo capo di gabinetto, ma soprattutto braccio destro dello spin doctor digitale Luca Morisi, l’inventore della “Bestia” (il sistema che gestisce la potente comunicazione social del segretario della Lega), anche lui oggi al Viminale.
Poi, ci saranno il portavoce, Matteo Pandini e un ragazzo dello staff comunicazione. Gruppetto interessante per un incontro tutto economico.
“Abbiamo bisogno — ha detto il presidente di Confindustria russa, Ernesto Ferlenghi, in un’intervista al quotidiano Izvestia alla vigilia della visita — che il governo ascolti la nostra voce, comprenda come le imprese stanno soffrendo a causa delle sanzioni e fornisca sostegno, attraverso canali politici. Il sogno del 99% dei nostri soci è che le sanzioni vengano revocate, perchè limitano e impediscono il nostro sviluppo in Russia”.
Va ricordato che l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno varato una serie di sanzioni contro la Russia dopo l’annessione della Crimea da parte di Mosca, nel marzo del 2014, in seguito alla rivolta ucraina nel Donbass per ripristinare la Costituzione contro il presidente filo-russo, Yanukovich.
Proprio quell’episodio è al centro, oggi, del rovesciamento della comunicazione ufficiale. Capofila dell’operazione, Marcello Foa, attualmente presidente della Rai: da anni sostiene come in quella rivolta contro la Russia, ci fu un contributo importante di milizie paramilitari neo naziste.
D’altra parte, lo stesso Salvini sostiene la legittimità di quell’annessione: “C’è stato un referendum”, ha detto a giugno al Washington Post, senza accennare al fatto che si trattò di una consultazione viziata.
E nella stessa intervista ha accusato “potenze straniere” di aver finanziato “la pseudo-rivoluzione” ucraina.
Ecco dunque che il cerchio si chiude e si rivela il nesso tra imprenditori e comunicatori: la strada della rimozione delle sanzioni passa per un nuovo racconto di quella storia.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 16th, 2018 Riccardo Fucile
IL CONSIGLIERE REGIONALE TREVISI: “ABBIAMO FATTO IL POSSIBILE, MA AVEVAMO CONTRO SALVINI”… DESTINATI A FARE LA RUOTA DI SCORTA DEI RAZZISTI
La resa e le scuse. I consiglieri pugliesi del Movimento 5 Stelle sono tornati in Regione con queste parole stampate in volto: “Non ce l’abbiamo fatta a fermare la Tap”.
Antonio Trevisi, che dello stop al gasdotto Trans Adriatic ha fatto la sua principale battaglia, in lotta anche con il vicepremier Matteo Salvini, non nasconde l’amarezza poche ore dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il premier Giuseppe Conte: “Siamo stati ottimisti, un po’ troppo ingenui, ma siamo una forza giovane, sbagliamo e pagheremo. Sono il primo a sentirmi sconfitto e deluso, ma non ho commesso errori”.
L’errore non è forse stato promettere lo stop della Tap in campagna elettorale?
“L’opera è stata blindata dal precedente governo e non ci sono appigli amministrativi per fermarla”.
Non lo sapevate? Non eravate a conoscenza delle penali?
“Le penali le possiamo pagare fino a un miliardo di euro. Ma qui siamo davanti a penali che possono arrivare fino a venti miliardi. Parliamo di una manovra di bilancio, il doppio del reddito di cittadinanza”.
Davvero, a febbraio, in campagna elettorale per le elezioni Politiche pensavate che le penali, per un’opera quasi conclusa in altri Paesi, fossero così basse? Alessandro Di Battista ha detto che sarebbero bastati quindici giorni per bloccare tutto e il Movimento in Puglia ha stravinto.
“E’ vero, si è fatta una grande campagna elettorale a riguardo ma probabilmente Di Battista è stato troppo ottimista quando ha parlato di 15 giorni, non è la frase di tutto il Movimento. Era preso dall’euforia”.
Quando il Movimento 5 Stelle è andato al governo con la Lega è cambiato lo scenario?
“La Lega vuole la Tap, infatti nel contratto di governo non c’è scritto nulla”.
I Movimenti No-Tap vi accusano di essere del “voltagabbana”, di non aver mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale. Vi dimetterete come chiedono?
“Io le promesse le ho sempre mantenute. Quello che posso dire è che non ce l’ho fatta, non ce l’abbiamo fatta. Quando nel 2015 sono stato eletto consigliere regionale la Tap era agli inizi, dopo quattro la situazione si è evoluta e si è evoluta in peggio. Ho fatto decine e decine di interrogazioni. Siamo arrivati tardi, ieri eravamo con le lacrime agli occhi. Capisco che oggi possiamo sembrare non più credibili, siamo facilmente attaccabili, non prenderemo più quelle percentuali, diamo a tutti i rivali politici la possibilità di attaccarci ma non c’è malafede. Chiediamo scusa”.
Ha qualcosa da rimproverare ai ministri M5s?
“I nostri ministri hanno fatto tutto il possibile ma dall’altra parte avevano Salvini. Io stanotte ci pensavo. Cosa ho sbagliato? Ma non trovavo una risposta. Siamo umani, non siamo supereroi, a me dispiace. La gente dirà che siamo come gli altri, che non siamo credibili, ma le montagne non si possono superare. Il governo si prende le sue responsabilità , il premier ha detto che si prende la responsabilità . Lui come premier ha detto che non se la sente di far pagare i cittadini italiani. Io ho ancora appeso il cartellone con cui ho invaso il consiglio regionale con scritto ‘Melendugno libera’”.
Ci sarà un referendum?
“Bisogna dirlo ai cittadini. Noi abbiamo proposto un referendum come M5s Regione Puglia, ma per farlo ci vogliono i tempi tecnici, si parla di un anno e anche se viene accettato i lavori vanno avanti. Ormai prendo atto delle decisioni del governo”
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 16th, 2018 Riccardo Fucile
LA PAGINA DELLA LEZZI SI RIEMPIE DI INSULTI E ACCUSE: “DIMETTITI SE HAI UNA DIGNITA'”
Il no al TAP? Costerebbe venti miliardi e così il governo del Cambiamento sembra essere ormai rassegnato a non bloccare la costruzione del gasdotto.
Il presidente del Consiglio e Avvocato del Popolo Giuseppe Conte prende tempo: «Ci prendiamo 36 ore per far valutare al ministero dell’Ambiente le nuove carte che ci avete fatto avere».
La ministra del Sud Barbara Lezzi uscendo dall’incontro con il premier e i parlamentari pugliesi però ha lasciato poche speranze dichiarando che fermare l’opera comporterebbe un costo troppo alto e «che questi costi il Paese non può permetterseli e noi non ce la sentiamo di addossarli sui cittadini».
Anche il ministro dell’Ambiente Costa ammette che dopo l’analisi dei documenti tecnici durata due mesi e mezzo «abbiamo le mani legate dal costo troppo alto che dovremmo far pagare al Paese per fermare l’opera, un costo che per senso di responsabilità non possiamo permetterci».
Ne è davvero passato di tempo da quando Alessandro Di Battista prometteva di fermare i lavori per il TAP “in due settimane”.
Promessa che — assieme a quella non mantenuta di chiudere l’Ilva — ha consentito al M5S di raccogliere enormi consensi elettorali in Puglia. Alla prova dei fatti però il governo scopre quello che tutti sapevano, ovvero che non è più possibile bloccare la costruzione del gasdotto che ha già ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie.
Su Facebook Barbara Lezzi tace e non ha dato nessuna comunicazione ai cittadini.
In ossequio al principio fondamentale della democrazia diretta che prevede un rapporto con l’elettore solo quando fa comodo.
E così mentre risuonano ancora le parole di Luigi Di Maio che il 9 settembre alla Fiera del Levante aveva detto che «il Movimento 5 Stelle era ed è no Tap» ribadendo che «è inutile pensare di fare un’opera senza discutere col sindaco e i cittadini, passando per tutte le organizzazioni che si battono contro quell’opera».
Eppure Marco Potì il sindaco di Melendugno (il comune nel cui territorio passa il tracciato di 8km del Tap) non sembra soddisfatto visto che l’ascolto non ha prodotto nessun risultato concreto.
Ma se la ministra del Sud evita accuratamente di farsi vedere sui social gli attivisti “No Tap” sono ben presenti e presidiano la pagina della Lezzi che si sta riempiendo di insulti e accuse di tradimento.
Il portavoce del movimento No Tap Gianluca Maggiore ha chiesto le dimissioni in blocco di tutti gli eletti del MoVimento 5 Stelle qualora dovessero ricominciare i lavori per il gasdotto.
Altri invece definiscono la Lezzi “inutile” e parlano di promesse sparate in aria e voti “rubati” illudendo gli elettori.
Il mancato stop al Tap viene visto come il tradimento di uno dei principali valori del M5S: la difesa dell’ambiente.
C’è chi ricorda come proprio su questo aspetto il governo abbia già mancato l’obiettivo quando dopo mesi di supercazzole ha sostanzialmente confermato l’accordo siglato dall’ex ministro Calenda sull’Ilva buttando a mare tutte le promesse sulla chiusura degli impianti e la riconversione dello stabilimento siderurgico.
C’è anche chi tira fuori la questione dell’autonomia finanziaria delle regioni del Nord mentre il Sud rimane la “cenerentola” d’Italia, dimenticato dal suo stesso ministro.
C’è anche però chi chiede alla Lezzi un passo indietro.
Dal momento che le promesse “fatte al comitato No Tap (e alla comunità leccese che ti ha votato massicciamente)” non sono state mantenute la ministra dovrebbe dimettersi.
C’è chi si chiede se per caso il MoVimento abbia mentito durante la campagna elettorale ma ieri la Lezzi ha dichiarato che «non avevamo a nostra disposizione una serie di dati che forniremo pubblicamente».
Il che significa che quando il M5S faceva quelle promesse non aveva in mano tutti gli elementi per poterne parlare e fare le promesse che ha fatto.
E la percezione è che — ancora una volta — sia la Lega di Matteo Salvini a dettare la linea dell’esecutivo gialloverde sulle questioni che stanno più a cuore agli attivisti pentastellati.
Pedemontana veneta e Terzo Valico dei Giovi sono due dossier caldi del M5S di lotta ma non per quello di governo.
E così l’unico cambiamento in atto è quello del MoVimento 5 Stelle. Peccato inizi a non piacere molto agli elettori.
(da “NextQuotidiano”)
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Ottobre 16th, 2018 Riccardo Fucile
A VILLACIDRO, IN SARDEGNA, IL POST DEI LEGHISTI SUI SOCIAL
Tre persone con tre fucili imbracciati e un cartello sul bancone: “Salvini premier, la rivoluzione del buonsenso”. Più la bandiera dei quattro mori
E’ la foto scattata da un militante sardo della Lega all’interno di un’armeria di Villacidro, un comune della provincia del Sud Sardegna.
“Ero con gli amici simpatizzanti e sostenitori della Lega – ha spiegato l’autore dello scatto – a discutere della stagione venatoria 2018-2019 e soprattutto a discutere e a prepararci per la campagna elettorale delle regionali 2019”.
Non ci sarebbe alcun intento “bellicoso”, secondo i protagonisti della vicenda, ma piuttosto una passione per l’attività venatoria.
Una versione che però non ha convinto più di tanto visto che molti a Villacidro hanno fermamente criticato la foto nell’armeria.
Evidentemente li conoscono.
(da agenzie)
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