CHI PAGA LA MANOVRA
IMPRESE, BANCHE, ASSICURAZIONI CHE A LORO VOLTA SCARICHERANNO TUTTO SUGLI ITALIANI
Qualcuno il conto salato lo deve pagare.
Perchè il maxi-deficit al 2,4% – ora sul binario rovente Roma-Bruxelles e quindi tutt’altro che scontato – non basta comunque a coprire il ricco menù della manovra deciso da Matteo Salvini e Luigi Di Maio.
E così, tra le 46 pagine del Documento programmatico di bilancio – la sintesi della manovra – spunta chi deve aprire il portafoglio: imprese, banche e assicurazioni.
Il bersaglio del governo gialloverde per trovare la quadra sulle coperture è il mondo produttivo. I sacrifici non sono emotivi, ma sostanziali: le risorse saranno prelevate e utilizzate a un altro scopo, che esula da quelli interni.
I malumori sono pronti ad esplodere. Così come l’impatto sui cittadini.
Chi è rimasto ampiamente frastornato dalla lettura del Dpb è sicuramente il mondo delle imprese.
Con eccezione dell’intervento sull’Ires, che passa dal 24% al 15%, e del rifinanziamento dell’iper e del super-ammortamento, voluti dal centrosinistra, nel documento inviato alla Commissione europea c’è ben poco.
E quel poco, cioè la mini flat tax per gli autonomi, è stata ridotta a briciole: 546 milioni stanziati nel 2019 per una tassazione agevolata che sarà valida solamente per i ricavi fino a 65mila euro.
Non c’è la soglia dei 100mila euro, che voleva la Lega, ed entro la quale si sarebbe dovuta pagare un’aliquota aggiuntiva del 5 per cento. Non solo.
La flat tax genera un contraccolpo pesante. La tassa piatta, infatti, annulla il maggiore beneficio che si otteneva con il combinato disposto Iri-Ace, cioè l’imposta sul reddito patrimoniale e l’agevolazione introdotta nel 2011 per favorire il rafforzamento della struttura, sempre patrimoniale, delle imprese.
La perdita per le imprese, in termini di sgravi, è di 2 miliardi.
Sull’onda di un tema politico molto cavalcato dall’inizio del governo, M5S e Lega hanno deciso di puntare dritto alle banche: il prossimo anno dovranno dare 3,3 miliardi allo Stato.
La cifra emerge dalla somma di quattro misure che si è deciso di recapitare agli istituti di credito.
Interventi fiscali non meglio precisati valgono 1,3 miliardi nel 2019 (900 milioni nel 2020 e 500 milioni nel 2021), il rinvio degli sgravi su svalutazioni e perdite vale 900 milioni nel 2019 (zero nei successivi), il nuovo trattamento fiscale sulla svalutazione dei crediti vale 1,1 miliardi.
Per un totale, appunto, di 3,3 miliardi il prossimo anno.
Le banche sono in fibrillazione da giorni. Il rischio legato alle tasse, come sottolineato dall’Abi, è l’aumento dei rischi per i clienti, soprattutto quelli futuri: potrebbero avere meno credito e a prezzi più alti rispetto a quelli attuali.
C’è da poi da considerare che l’aumento della tassazione va a impattare nei rapporti tra banche e imprese visti dall’ottica del finanziamento delle prime alle seconde: il flusso potrebbe essere meno consistente, con una ricaduta negativa pesante sulla produzione. Recentemente la Banca d’Italia ha ricordato che il credito bancario rappresenta “una componente storicamente importante in Italia” e questa considerazione resta anche se il peso delle banche sulle passività delle imprese si è ridimensionato negli ultimi anni.
Anche le assicurazioni non gioiscono.
La rideterminazione dell’acconto di imposta sui premi assicurativi, infatti, sottrarrà loro circa 1 miliardo. Il meccanismo prevede l’innalzamento dell’aliquota dell’imposta sui premi assicurativi: oggi è fissata al 59% per il prossimo anno e al 74% per gli anni successivi. Il governo ha deciso di portarla al 75% già nel 2019, al 90% nel 2020 e al 100% dal 2021 in poi.
Alcuni titoli, come quelli di Unipol e UnipolSai ne hanno risentito in Borsa, ma i malumori sono esplosi già anche a livello di management. “Bisogna fare molta attenzione a trattare questi argomenti con la dovuta attenzione perchè siamo uno dei sistemi portanti del sistema nazionale”, ha ammonito il numero uno di Generali, Gabriele Galateri di Genola.
Per trovare la quadra l’esecutivo ha pensato anche al più classico degli interventi, a cui ricorre ogni governo quando la coperta è troppo corta e non c’è altro ambito da cui attingere risorse: i tagli ai ministeri.
Misura che però è generatrice di grandi fibrillazioni nei delicati equilibri intergovernativi, a maggior ragione oggi che gli stessi ministeri sono espressione di due forze politiche, Lega e 5 Stelle.
Ne consegue, quindi, una diatriba tra chi deve cedere di più rispetto al coinquilino di governo.
In totale dovranno arrivare 2,5 miliardi all’interno di una spending review che ammonta a 3,6 miliardi. Ma necessari. Perchè una revisione della spesa pubblica senza tagli ai ministeri è di fatto impossibile, come dimostrano i tentativi, andati a vuoti, degli ultimi governi.
Il puzzle delle coperture si tiene insieme a fatica perchè poggia su voci alquanto fragili. La maggior parte delle risorse – pari a 21,9 miliardi – sono legate al maggior deficit e quindi alla trattativa ad alta tensione con Bruxelles.
Poi ci sono i sacrifici chiesti a imprese, banche, assicurazioni e ministeri con appunto relativi mugugni.
Nel Dpb figurano ancora 1,8 miliardi di coperture da specificare visto che è previsto 1 miliardo di incasso dalla voce ‘altre misure’ e 0,7 milioni da ‘altro’.
In tutto si raccolgono così 33,5 miliardi a fronte di misure che nel Documento di bilancio sono quantificate in 33,5 miliardi. La coperta c’è, ma ha maglie larghissime che rischiano di sfilarsi l’una dall’altra.
(da “Huffingtonpost”)
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