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SCONFITTA ELETTORALE IN SPAGNA, SI DIMETTE IL PREMIER SANCHEZ

Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile

CONVOCATE ELEZIONI ANTICIPATE

Il premier spagnolo Pedro Sanchez è intervenuto questa mattina alle 11 alla Moncloa e ha annunciato le sue dimissioni. Nello stessa occasione ha sciolto il parlamento e ha convocato le elezioni anticipate il 23 luglio dopo la sconfitta alle amministrative di ieri.
È stata un’ecatombe il voto di ieri, domenica, in Spagna, per il Psoe, il Partito socialista del premier Pedro Sanchez, che ha perso praticamente tutti i posti che contano nelle elezioni amministrative, come la Comunità Valenciana, l’Extremadura e Siviglia, ed è riuscito a mettere a segno un risultato molto buono solo nella Castilla-La Mancha, dove Emiliano Garcìa-Page conserva la maggioranza assoluta.
La sconfitta è stata forte e inaspettata per il Psoe, che in queste elezioni aspirava a preservare e persino aumentare la presa sul territorio raggiunta nel 2019, nonostante i sondaggi dessero risultati molto ravvicinati tra i blocchi di destra e di sinistra.
E invece il Pp ha messo k.o. il Psoe, che in queste elezioni ha perso sei dei nove governi regionali che guidava (Comunità Valenciana, Estremadura, Aragona, Baleari, Canarie e La Rioja) e 15 dei 22 capoluoghi di provincia.
Un sondaggio per le elezioni politiche di fine anno
Considerato un sondaggio per le elezioni politiche di fine anno, le consultazioni sono un ottimo viatico per i Popolari. “Abbiamo ottenuto una chiara vittoria e la Spagna ha mosso i primi passi verso una nuova era politica”, ha esultato il leader Alberto Nunez Feijoo. Uno “tsunami” di destra si è abbattuto su “tutte le regioni della Spagna”, ha confermato Javier Lamban, il leader socialista dell’Aragona che ha perso il seggio a favore del Pp.
“Siamo di fronte a un’innegabile ondata di destra in Spagna guidata da PP e Vox”, ha concordato Miguel Angel Revilla, che anche lui ha perso la carica di capo del governo regionale della Cantabria. È anche vero però che il Partito popolare sarà in grado di governare nelle sei regioni conquistate solo con il sostegno dell’estrema destra di Vox, uscita anch’essa vincitrice, il che rappresenta un grosso grattacapo per Feijoo.
Vox, partner indispensabile
Vox, terzo partito in Parlamento, spera di diventare un partner indispensabile per il PP, sia a livello regionale che, in definitiva, a livello nazionale.
Situazione diversa però a Madrid, dove i candidati del PP Isabel Dìaz Ayuso e Josè Luis Martìnez-Almeida governeranno la Comunità e la città con la maggioranza assoluta, e Vox è rimasto a bocca asciutta mentre Màs Madrid e il PSOE hanno faticato e Podemos e Cs sono scomparsi dalla mappa. Ayuso ha raggiunto l’obiettivo di governare senza dipendere da Vox e ha vinto con una comoda maggioranza assoluta, 71 seggi e oltre il 47% dei voti, 6 seggi in più rispetto a quelli ottenuti alle elezioni del maggio 2021.
Almeida, seppur più tirato, ha ottenuto anche lui la maggioranza assoluta con 29 consiglieri, il 44,5% dei voti, affrancandosi anche dalla dipendenza da Vox.
Una delle sconfitte più significative per il Psoe nelle elezioni regionali è stata quella della Comunità Valenciana, dove il Pp ha recuperato l’egemonia che aveva tra il 1995 e il 2015 tornando a essere la prima forza politica contro un Psoe che non è riuscito a raggiungere una maggioranza sufficiente per rieditare il governo. A La Rioja, l’unica comunità autonoma che il Psoe considerava perduta, il Pp ha ottenuto la maggioranza assoluta. D’altra parte, con la perdita dei governi di Estremadura e Aragona, il Psoe perde anche due dei suoi esponenti di maggior impatto mediatico: Guillermo Fernàndez Vara e Javier Lambàn, che è anche uno dei più critici del governo di Pedro Sànchez. L’altro ‘barone’ socialista critico nei confronti del governo è il presidente di Castilla-La Mancha, Emiliano Garcìa-Page, l’unico che ha ottenuto un buon risultato, riconfermando la sua maggioranza assoluta.
(da Repubblica)

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ELEZIONI AMMINISTRATIVE IN SPAGNA, IL PARTITO POPOLARE SUPERA I SOCIALISTI

Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile

IL CENTRODESTRA STRAPPA SIVIGLIA E VALENCIA A SANCHEZ

Una prova elettorale per il premier Pedro Sanchez, in vista del voto nazionale a cui saranno chiamati i cittadini spagnoli nel prossimo autunno. Un test che, però, ha visto i popolari e la destra strappare diversi territori ai socialisti. Nelle urne, aperte dalle 9 alle 20, le schede per rinnovare tutti i Comuni del Paese e i governi di 12 comunità autonome su 17. I primi risultati sono iniziati ad arrivare dopo le 21 di oggi, 28 maggio. Positivo il dato dell’affluenza, in crescita rispetto alla precedente tornata delle amministrative.
A livello comunale, la partecipazione al voto registrata alle ore 18 è passata dal 49,93% del 2019 al 51,48% odierno, nonostante la pioggia, oggi, abbia sferzato diverse zone del Paese. Già dalle prime proiezioni pubblicate sui media spagnoli si era capito che il Partito popolare avrebbe conquistato la maggioranza sia nella Comunità di Madrid sia nel Consiglio comunale della capitale, feudi dei conservatori. Così è stato.
Il partito guidato da Alberto Núñez Feijóo è primo anche a Valencia e a Siviglia, precedentemente governate dai progressisti. Per la maggioranza assoluta, però, sarà necessario allearsi con l’estrema destra di Vox. Popolari in testa anche ad Aragona. I socialisti, invece, riuscirebbero a mantenere il controllo di Castiglia-La Mancia. A Barcellona, vince il partito indipendentista Uniti per la Catalogna. Il sorpasso del Partito popolare sui socialisti si concretizza anche in termini di voti complessivi. Rispetto a quattro anni fa, quando la formazione guidata oggi da Sanchez aveva ottenuto circa 1,5 milioni voti in più dei popolari.
L’esito elettorale – parziale, ma arrivato al 90% delle schede scrutinate – rivela che ai popolari è andato il 31,5% dei consensi, più di 6,8 milioni di voti. Ai socialisti, il 28,2%, circa 6,1 milioni di schede.
Crolla Ciudadanos, passato dall’8.7% del 2019 all’1,3% di oggi: tesoretto da 2 milioni di voti sperperato, in quattro anni, dai liberali, fermatisi sotto la soglia delle 270 mila preferenze. Raddoppia il consenso di Vox, arrivato al 7,1% nel Paese: nel 2019, la formazione di destra si era fermata al 3,5%.
(da agenzie)

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FDI “COSTRETTA” A RIMUOVERE IL COMMISSARIO DI NOVI LIGURE DOPO LE FRASI OMOFOBE

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

LUI PROVA A DIFENDERSI: “MI HANNO HACKERATO IL PROFILO”, MA IL PARTITO NON GLI CREDE

Il commissario di Fratelli d’Italia a Novi Ligure (Alessandria), Alessio Butti, è stato sollevato dal suo incarico dopo alcuni post di stampo omofobo apparsi sui suoi social. «Non sono minimamente sensibile alle menate lgbt e agli appelli contro l’omofobia e altre amenità che una certa cultura vuole imporci», si leggeva.
E ancora: «I pederasti (tendenza o pratica erotica che nel significato originario del termine è costituita dal rapporto sessuale di un adulto con un adolescente, nell’uso moderno è stato adottare per indicare l’omosessualità maschile, ndr) possono sgranare rosari a raffica, ottenere anche valanghe di voti, ma restano dei reietti da cui girare alla larga, per il loro stile di vita e per l’intima malvagità di cui questo genere di persone sono capaci».
Il post era carico di insulti, rivolti anche a chi «i pederasti li ha messi al mondo». Secondo il commissario di Fdi «dovrebbero vergognarsi». Queste frasi – che sono spuntate ieri sera sul profilo di Butti, nella stessa giornata in cui è stato celebrato il Pride ad Alessandria – non lasciano spazio a fraintendimenti e sono bastate a Fratelli d’Italia per fare fuori il proprio commissario di Novi Ligure, dove oggi si vota al ballottaggio per il sindaco.
La condanna da più fronti
Immediata la condanna da parte di più bandiere politiche. A partire dall’ex candidato sindaco di Novi Ligure, Giacomo Perocchio, ora alleato di Fratelli d’Italia, che ha definito le parole di Butti «ignobili». Condivide la presa di posizione dei vertici di Fdi e sostiene che «a prescindere dalle idee politiche e dalle differenti posizioni su alcuni temi esistono limiti che non si possono superare, a meno che non si sia nostalgici di regimi della prima metà del secolo scorso».
Concorda il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto che chiede una presa di distanza da parte di Giorgia Meloni e dalla Ministra delle pari opportunità, Eugenia Roccella. «Parole inaccettabili e indegne di un paese civile», ha scritto su Twitter.
La versione di Butti
Ma Butti non ci sta. E dà la sua versione dei fatti. Con un post su Facebook ha disconosciuto i contenuti incriminati puntando il dito contro una presunta manomissione del suo profilo. «Ho rispetto della comunità Lgbt, tra cui ho molti miei amici e conoscenti. Sono affermazioni che depreco e che non rappresentano il mio pensiero», ha scritto. «Appena rientrato in possesso del mio profilo, ho rimosso prontamente il commento ma non posso garantire che altri miei amici abbiano ricevuto messaggi di questo tenore», ha aggiunto. Una versione che sembra non aver convinto i vertici del suo partito, i quali nonostante la giustificazione hanno comunque deciso di sollevarlo da ogni incarico per Fratelli d’Italia.
(da agenzie)

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LA IRREFRENABILE PASSIONE DELLA MELONI PER GLI EVASORI FISCALI

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

ORA CHI PAGA LE TASSE E’ UNO CHE PAGA “IL PIZZO DI STATO”

Il pizzo non è più solo quello che la mafia chiede alle attività commerciali, agli imprenditori, che inquina l’economia e avvelena il tessuto sociale. Ora c’è anche una forma di «pizzo di Stato». Almeno secondo le teorie della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha sostanzialmente equiparato il recupero dell’evasione a un’attività criminale.
Dal palco di Catania, durante il comizio di chiusura della campagna elettorale in vista del voto di oggi e domani, ha scelto una formula scioccante in una città, in una regione, dove il «pizzo» è un male assoluto ben noto.
Meloni ha superato anche il maestro in materia, il Silvio Berlusconi nel pieno delle energie fisiche. È cambiato l’accento, dal milanese al romanesco, lo stile senza barzellette era più adirato, e così pure il contenuto è andato oltre quello solito della destra, sdoganato proprio dal fondatore di Forza Italia, fautore dell’evasione «per necessità».
«La lotta all’evasione si fa davvero dove sta l’evasione, le big company, banche, frodi sull’Iva e non il piccolo commerciante a cui vai a chiedere il pizzo di Stato, perché deve fare caccia al gettito», ha detto Meloni.
Il governo Meloni non si limita alle dichiarazioni. Mentre su vari punti si è fermato alle promesse, in materia di sanatorie fiscali ha già varato una serie di leggi e leggine, con un messaggio politico forte: l’allargamento delle maglie sul contrasto a chi evade sia una delle priorità.
La testimonianza pratica è recente, arriva dal decreto Bollette, approvato in settimana definitivamente a colpi di fiducia al Senato. Quel provvedimento dà una carezza agli evasori sotto forma dell’ennesimo condono con l’introduzione di alcune cause «di non punibilità dei reati tributari»: un titolo formale nasconde un piccolo scudo penale.
L’intervento evita problemi con la giustizia per chi trova un accordo con il fisco o si mette in regola con i pagamenti dopo che è stato scoperto un mancato versamento di Iva, di ritenute dovute o un’indebita compensazione di crediti non spettanti.
Una misura inserita fin dalla stesura iniziale del decreto, che in teoria avrebbe dovuto prevedere iniziative contro il caro bollette. A nulla sono valse le critiche delle opposizioni, la maggioranza ha respinto l’ipotesi di modifica durante l’iter parlamentare.
L’input meloniano non accettava scostamenti. Niente di nuovo, perché si colloca in prosecuzione con la legge di Bilancio, una collezione di piccoli condoni e misure speciali, per cui è stata trovata la definizione di «tregua fiscale». Come se fosse una battaglia.
La norma più clamorosa è il cosiddetto “salva calcio”, che consente alle società sportive di spalmare i debiti su cinque anni, cavandosela con una mini maggiorazione del 3 per cento. Musica per le orecchie dei presidenti dei club.
Ma la destra di governo non dimentica nessuno. E così ha previsto nella manovra la rottamazione delle cartelle sotto i mille euro, comprese nell’arco temporale 2000-2015, incluse le multe stradali. Tra le sanatorie c’è poi la risoluzione delle controversie pendenti: si chiude tutto versando il 90 per cento per chi è al primo grado di giudizio, evitando di portare avanti il contenzioso.
Senza dimenticare il condono a chi ha guadagnato con la tassazione agevolata delle criptovalute. E chissà se in questo elenco ci siano solo i «piccoli commercianti» che Meloni vuole salvaguardare dal fisco brutto e cattivo o ne hanno beneficiato gli investitori abili a spostare i capitali.
La trance elettorale della presidente del Consiglio si è manifestata quando ha annunciato che il suo governo ha vietato la «carne sintetica», dimenticando che ha solo varato un disegno di legge, fermo ancora in commissione al Senato. Poco male, contava il furore della propaganda in un comizio trasceso a un certo punto a metà tra il coaching e lo sciamanesimo: «Gli unici limiti sono quelli che tu decidi di importi», ha detto impartendo lezioni di vita alla platea.
Il climax di Meloni in versione Vox – nel senso del celebre comizio tenuto in Spagna a favore del partito di estrema destra – ha toccato l’apice quando ha dovuto parlare della Rai. Non le è parso vero di poter dismettere il ruolo istituzionale per assumere la postura feroce della propaganda, da leader di Fratelli d’Italia. «Voglio liberare la cultura italiana da un sistema nel quale non potevi lavorare se non ti dichiaravi di una certa parte politica», ha detto.
Un annuncio di piazza pulita. Intanto, già per far capire il clima, il servizio pubblico ha trasmesso in diretta, su Rainews, il suo intervento. Spazzando così via la par condicio, senza nemmeno passare per l’abolizione della legge. Ieri i componenti del Pd della Vigilanza hanno chiesto al direttore Paolo Petrecca di riferire in commissione.
L’Usigrai, l’unione sindacale della Rai, ha espresso la sua forte preoccupazione: «Il canale all news del servizio pubblico ha trasmesso l’intervista integrale alla presidente del Consiglio al festival dell’economia di Trento e il comizio di chiusura della campagna elettorale del centrodestra in Sicilia, ignorando le iniziative delle altre forze politiche che contemporaneamente erano in programma in altre città».
(da agenzie)

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L’EGEMONIA DELLA LAGNA

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

GIORGIA MELONI, SEGNO IDENTIFICATIVO IL VITTIMISMO

Rileggendo vecchie cose, trovo che nel dicembre 2009, nella tradizionale poesia satirica di fine anno sulla Repubblica, raccontavo la Rai (in ottonari) nella stessa precisa maniera in cui la racconterei adesso.
“C’è la fiction su Claretta/e il talk-show senza Santoro:/lo conduce una subretta/ chiama tutti ‘mio tesoro’/. C’è una Rai per longobardi/ coi grugniti in sensurround/ e una Rai che un po’ più tardi/ si collega a Casa Pound./ Ma nell’interrogazione/ di Gasparri e Capezzone/ si denuncia la cultura/ di sinistra che perdura”.
Sono passati 14 anni. Era in sella il quarto governo Berlusconi. Ministra della Gioventù la precoce Giorgia Meloni (chissà se già allora, sulla sua poltrona di ministro, aveva il vezzo di definirsi underdog). Direttore generale della Rai Mauro Masi, dimenticato attore del berlusconismo come soluzione finale.
Lo schema è identico, immutabile: dire che la Rai è “nelle mani della sinistra” anche se non è vero. È nelle mani dei governi, tutti i governi, e lo è da sempre. E dirlo per creare un alibi alla propria prepotenza. È questa la sola vera “narrazione di destra” che abbia conquistato una indubbia egemonia: lagnarsi. Fingersi vittime dei soprusi altrui per indorare i propri soprusi, e spacciarli per la riscossa degli oppressi. Del famoso merito, che almeno in teoria dovrebbe essere una bandiera della destra, chi se ne frega.
(da La Repubblica)

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NEL NUOVO LIBRO GIORDANO BRUNO GUERRI DEMOLISCE PREGIUDIZI E CLICHE’ SU D’ANNUNZIO: PARLAVA DI “CAMICIE SORDIDE”, NON NERE. E RISOLUTIVA È LA SUA OPPOSIZIONE ALL’ALLEANZA CON HITLER, “RIDICOLO IMBIANCHINO COI BAFFI ALLA CHARLOT”

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

IL MISTERO DELLA BELLA E GIOVANE ALTOATESINA (POI RICOMPARSA A BERLINO DURANTE LA GUERRA) CHE POTREBBE ESSERGLI STATA MESSA ACCANTO PER FINIRLO, A 75 ANNI

È un libro inconsueto in tutto, per me, fin dall’origine. Di solito scelgo io l’argomento, invece stavolta l’idea è partita dalla Rizzoli: Massimo Turchetta e Andrea Cane, vecchi amici da quando lavoravamo tutti alla Mondadori. Non c’è stato bisogno di spiegarmi che razza di libro avessero in mente, avevo già in casa i primi due della collana, Berlinguer di Fabrizio Rondolino e Montanelli di Marco Travaglio. Mi erano piaciuti subito quei volumi, da lettore e da ex editore: grande formato, molte foto, caratteri ampi e leggibilissimi, strilli e sommari, come si trattasse di un lungo articolo; la carta emana – all’acquisto e per giorni – un delicato profumo di rose nel camerino di Marilyn Monroe.
Turchetta e Cane volevano un testo su d’Annunzio, e qui sono stato sul punto di dire di no: per ricompensa di averlo resuscitato, quell’uomo mi sta mangiando vivo. Se fino a qualche anno fa ero il signor Guerri, adesso per molti sono «quello di d’Annunzio» o «quello del Vittoriale». E sì che faccio anche altre cose, scrivo altri libri. Per esempio, è enorme la soddisfazione che mi ha dato nel 2022 il mio secondo saggio su Ernesto Buonaiuti. Eretico o santo. Il prete scomunicato che ispira papa Francesco (La Nave di Teseo). Il primo, nel 2001, si intitolava Ernesto Buonaiuti. Eretico o profeta (Mondadori), e risvegliò l’attenzione su quell’uomo martirizzato dalla Chiesa e dallo Stato. Finalmente, il 2 settembre 2022, l’Avvenire (dico l’Avvenire) è uscito con una pagina per riconoscere che, sì, era un profeta, la Chiesa sta andando nella direzione da lui indicata più di un secolo fa. Per il riconoscimento della santità, bisognerà aspettare ancora, ma ci si arriverà.
Insomma, non avevo voglia di scrivere altro su d’Annunzio dopo L’amante guerriero, La mia vita carnale, Disobbedisco (Mondadori). Poi, l’illuminazione: occorreva un ultimo saggio breve – 450.000 battute – e di sintesi, corredato da fotografie che meglio ancora del testo illustrassero la sua vita inimitabile, o meglio la sua vita come opera d’arte. Occorreva dare il colpo di grazia al cumulo di pregiudizi che si è accumulato su di lui nel corso dei decenni. Incredibilmente si è conservata intatta la condanna che la borghesia piccina e provinciale di fine Ottocento diffuse a piene mani per la sua libertà sessuale e l’amore per il lusso, come se noi non rivendicassimo, orgogliosamente, la stessa libertà di sesso e di acquisti.
Altro scandalo, il suo passare dalla Destra alla Sinistra, nel 1898, per opporsi alle leggi liberticide che il governo stava per varare, dopo aver fatto sparare a cannonate sui manifestanti che protestavano per l’aumento del prezzo del pane. Come se noi non pretendessimo la libertà di cambiare idea politica.
Infine, l’enorme equivoco sul suo essere fascista, perché accettò da Mussolini il denaro per edificare il Vittoriale degli Italiani. Ma d’Annunzio aveva donato il Vittoriale allo Stato, che lo dichiarò monumento nazionale. Lo Stato dunque investiva su se stesso, e fu uno dei migliori affari che capo del governo abbia fatto. In cambio di una modesta somma di circa 10 milioni di euro, oggi abbiamo il parco più bello d’Italia (premio nel 2012), 3000 metri quadrati coperti contenenti 20.000 meraviglie e 33.000 volumi preziosi, 3 milioni di pezzi d’archivio e un museo che è insieme motore di cultura e di economia.
Pur non essendo quel che oggi si definisce «antifascista», d’Annunzio parlava di «camicie sordide», non nere, di «soperchieria di ossa e muscoli». E risolutiva è la sua opposizione all’alleanza con Hitler, «ridicolo imbianchino coi baffi alla Charlot». Ebbe la fortuna di morire nel marzo 1938, prima che accadesse il peggio, e forse non fu un caso: la bella e giovane altoatesina – poi ricomparsa a Berlino durante la guerra – potrebbe essergli stata messa accanto per finirlo, a 75 anni, con un veleno o con il sesso e la cocaina.
Accettai dunque di scrivere il libro, e velocemente. Avevo tre mesi per la consegna del testo, e ci ho messo meno. Di solito in una prima stesura riesco a stendere da due a cinque pagine al giorno, stavolta sono arrivato fino a venti. Le parole venivano una dietro l’altra, senza inciampi. Non c’è stato bisogno di scaletta, la storia scorreva con naturalezza, anche saltando da un’epoca all’altra, da un tema all’altro, con il gusto – senza pudore – di intromettermi per raccontare i miei rapporti con lui e il Vittoriale. Era il frutto di una lunga conoscenza, come quelle vecchie coppie che sanno bene i discorsi dell’altro, e potrebbero concluderli a metà frase
(da La Stampa)

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LA LOMBARDIA COME IL TRIANGOLO DELLE BERMUDA: OGNI GIORNO SPARISCONO 8 PERSONE: SOLO NEL 2022 QUASI IN 3 MILA SONO SCOMPARSI SENZA LASCIARE TRACCIA (GLI UOMINI IL DOPPIO DELLE DONNE)

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

A MILANO LE PERSONE CHE SI DANNO ALLA MACCHIA SONO AUMENTATE DEL 36%: NELLA MAGGIOR PARTE DI CASI SI TRATTA DI UNA SPARIZIONE VOLONTARIA. C’È CHI SE NE VA PERCHÉ SI È ROTTO LE PALLE DEL LAVORO O DELLA FAMIGLIA

La dirompente forza dei numeri: in Lombardia 8 persone sparite al giorno. Mai state così tante, e infatti, secondo l’ultimo scenario ufficiale disponibile, nel 2022 le complessive 2.988 scomparse (gli uomini sono il doppio delle donne) hanno generato significativi aumenti delle denunce nelle singole province. A partire (+36%) da quella di Milano, il cui totale di allontanamenti (1.087) corrisponde, sempre in media, a 3 nuovi casi al giorno.
Nell’82% degli episodi ci si imbatta in sparizioni volontarie. E in questa nostra società di invasivo monitoraggio tramite ogni attivazione di cellulari, pc e tablet, di acquisti e spostamenti «mappati» volenti o nolenti, ecco, andarsene senza lasciare traccia alcuna — almeno apparentemente — assume le coordinate di un’impresa da super-latitante
Non allontanamenti decisi in un tempo istantaneo e passibili di rivelatori indizi lasciati, quanto fughe pianificate: altrimenti non si spiega come a fronte di quelle 2.988 scomparse vi siano 806 persone ancora da rintracciare.
Si scappa per radicali scelte, per chiudere un’esperienza di vita o lavoro; certo si scappa per problemi economici, in famiglia oppure se magari titolari d’azienda; mai si scappa, oppure di rado, per prevenire un possibile reato (l’1% dei casi a leggere le denunce) e, ad esempio, abbandonare d’improvviso parenti o compagni violenti anticipando tragedie.
Ora, una credenza comune collega l’atto dello scomparire con il trasferimento in destinazioni lontane tipo i soliti luoghi caraibici. In realtà, di recente, possono «bastare» a garantire duratura copertura anche mete vicine come nell’Est Europa muovendosi nell’Ue.
E in ogni modo, fuor di retorica, la gestione del caso da parte delle forze dell’ordine, dunque la sua possibile soluzione, è relativa al metodo investigativo adottato, all’iniziale possesso di notizie mirate, alla storia pregressa dell’individuo da trovare, ai suoi eventuali errori commessi nella fase della partenza. Dopodiché l’argomento degli scomparsi è assai complesso, interseca scenari umani, segue dinamiche sia intime e locali, sia sociali e internazionali.
(da Il Corriere)

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MA LA MELONI CHE CRITICAVA I SUOI PREDECESSORI PER L’USO ECCESSIVO DELLA DECRETAZIONE D’URGENZA E’ LA STESSA CHE UNA VOLTA A PALAZZO CHIGI GOVERNA A COLPI DI UN DECRETO A SETTIMANA E DUE VOTI DI FIDUCIA AL MESE?

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

IL PARLAMENTO E’ DI FATTO SVUOTATO: DA INIZIO LEGISLATURA SI CONTANO BEN 28 PROVVEDIMENTI D’URGENZA E SOLO 5 DDL. SEMPRE PIÙ LEGGI “IPPOPOTAMO” (COPYRIGHT SILVIO BERLUSCONI) CON COMMI SUI TEMI PIU’ DISPARATI

Qualcuno ancora ricorda la parabola dell’ippopotamo. La usava Silvio Berlusconi agli sgoccioli della sua ultima esperienza a Palazzo Chigi, nel 2011, quando voleva descrivere le distorsioni del processo legislativo e sostenere l’urgenza di riforme costituzionali. Il governo, si accalorava il Cavaliere, produceva leggi belle come “focosi destrieri purosangue”, che però finivano nella morsa del bicameralismo e venivano snaturate a forza di modifiche fino a diventare goffi “ippopotami”.
L’ippopotamo torna alla mente oggi, alla luce del richiamo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai presidenti delle Camere Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana, per la prassi di decreti gonfiati fino a includere le materie più diverse. Ma la teoria del Cavaliere, già discutibile dodici anni fa, regge ancor meno adesso. Perché è il governo per primo – per restare nella metafora – a produrre sempre più ippopotami. E a dettar legge in Parlamento, con decreti spesso zeppi delle materie più disparate, emendati da una sola Camera, per poi essere approvati a colpi di voti di fiducia.
Non è teoria. Si legga l’ultimo testo pubblicato in Gazzetta ufficiale, l’11 maggio, e firmato da Giorgia Meloni e sei ministri: all’articolo 1 c’è il commissariamento di Inail e Inps, all’articolo 2 le fondazioni lirico sinfoniche, dall’articolo 3 all’articolo 10 proroghe di termini in settori che vanno dallo sport agli asili, dalla sanità al “salvamento acquatico”, all’articolo 11 emissioni filateliche, all’articolo 12 una norma sui rifugiati. Un decreto omnibus che in Parlamento può solo ingrossarsi per effetto degli emendamenti prodotti dai partiti, certo, ma anche dai ministeri che spesso affidano a deputati e senatori le loro proposte per ridurre almeno in apparenza le “ingerenze” dell’esecutivo nella funzione che dovrebbe essere propria delle Camere. Dovrebbe, appunto.
La statistica è tristemente nota, riproduce una tendenza non nuova, ma sempre più radicata. Da inizio legislatura si contano ben 28 decreti legge (anche se uno poi abrogato): in media poco più di quattro al mese, uno a settimana, contro i tre circa di media mensili dei governi Draghi e Conte (fonte: Openpolis).
A fronte di questa superproduzione d’urgenza del Consiglio dei ministri, risultano approvate solo cinque leggi ordinarie, tra cui un ddl presentato dallo stesso governo, per introdurre ritocchi alla riforma Cartabia. E gli altri quattro? Sono sì di iniziativa parlamentare, ma tre sono serviti a istituire, come da prassi dopo ogni elezione, commissioni d’inchiesta (antimafia, sui rifiuti e sul femminicidio), e uno a regolare l’equo compenso, realizzando così – nota a margine, non banale – un progetto di legge presentato da Meloni nella scorsa legislatura.
L’effetto di ‘svuotamento’ dell’attività delle Camere non è solo teoria, si diceva. Al microscopio, si osservino i voti espressi a Montecitorio da ottobre. In tutto, 1832. Ebbene, 413 sono voti su emendamenti (norme approvate o bocciate). Ma nella stragrande maggioranza dei casi i deputati si sono espressi su ordini del giorno (925), su mozioni (198), su risoluzioni (72): vale a dire, su atti che indirizzano o impegnano il governo a fare qualcosa. Il governo, ancora una volta.
“Esiste” il problema della eccessiva decretazione, ammetteva ieri da Trento il ministro meloniano Luca Ciriani. “Esiste la necessità di garantire i gruppi parlamentari, che non possono essere mortificati: il nostro impegno è ridurre il numero dei decreti e aumentare i disegni di legge”.
La tendenza, già imputabile ai governi precedenti, è legata – secondo Ciriani – alla necessità di dare risposte a urgenze ed emergenze. Ma, obietta Ceccanti, «proprio in questa legislatura il fenomeno dovrebbe essere arginato, visti gli ampi numeri della maggioranza». Meloni l’ha promesso, poi tutto come prima.
E mentre i suoi sforzi riformatori si concentrano sull’elezione diretta del premier, per dare più stabilità e solidità ai futuri esecutivi, il diario dei primi sei mesi di questa legislatura racconta un Parlamento sempre più al lavoro a ricasco del governo.
Nelle Aule spadroneggiano i ministri, mentre i deputati e i senatori (ridotti da 945 a 600), navigano tra i commi dei decreti, facendo spola tra più commissioni e competenze diversissime. A Palazzo Madama: gli affari costituzionali insieme alla digitalizzazione, la cultura con lo sport, la sanità con il lavoro. I verbali restituiscono la cronaca di esangui discussioni, incastrate in un sudoku di presenze volanti e sostituzioni in corsa, per garantire i numeri al momento delle votazioni. Ma questa, forse, è un’altra storia.
(da La Repubblica)

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VENEZIA, L’ACQUA DEL CANAL GRANDE DIVENTA VERDE FOSFORESCENTE, IPOTESI LIQUIDO DI “TRACCIAMENTO”

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

SCATTA LA POLEMICA CONTRO GLI AMBIENTALISTI MA NON SONO LORO GLI AUTORI

Il primo pensiero è andato a una delle ormai frequenti azioni «dimostrative» a base di vernici contro monumenti e fontane d’Italia, in nome della tutela dell’ambiente. O forse a uno dei troppi atti di vandalismo e maleducazione da parte di qualche turista.
Un ennesimo sfregio alla delicata bellezza di Venezia, quello notato stamani, domenica 28 maggio, nel cuore della città, quasi sotto il Ponte di Rialto, dove in molti hanno segnalato la presenza di una chiazza color verde fluorescente, e si sono susseguite le ipotesi su cause e motivi.
Nessuna rivendicazione
A segnalarla, intorno alle ore 9:30, sono stati alcuni cittadini, che hanno avvisato la Polizia locale. Ma a differenza di altri blitz ecologisti, non c’è stata alcuna rivendicazione dell’atto. La città lagunare, come ogni domenica, era presa d’assalto dai turisti, e oggi ha anche ospitato la Vogalonga, una regata non competitiva lungo la Laguna, con quasi 2.000 barche a remi che hanno attraversato anche il Canal Grande e sfiorato la ‘macchia’ fosforescente.
Come per altri casi di questo genere, è scattata la caccia ai responsabili, ma soprattutto ad accertare se quel liquido potesse essere tossico o comunque dannoso per le acque lagunari.
La riunione con il Prefetto
Il Prefetto, Michele Di Bari, ha convocato una riunione urgente in Questura, con forze dell’ordine, polizia locale, vigili del fuoco e Agenzia regionale per l’ambiente, che hanno eseguito i prelievi in acqua. Dai primi dati quello versato a Rialto sarebbe una sorta di «tracciante» assolutamente innocuo, la cosiddetta ‘fluorescina’ ovvero un liquido che viene immesso nelle tubature o negli scarichi urbani in caso di una perdita d’acqua, per comprenderne il tragitto. Nessuna situazione di pericolo, dunque, per la salute della popolazione.
I precedenti
Allarmi per una situazione del genere si erano verificati non molto tempo fa in una roggia di Rozzano (Milano), e qualche anno prima sul Lago di Como, dove si stavano svolgendo dei lavori alle fognature. In ogni caso Di Bari, d’intesa con il questore lagunare, Michele Masciopinto, ha disposto un’intensificazione della vigilanza in ambito lagunare, per monitorare eventuali criticità e prevenire ulteriori episodi analoghi. Mentre le ricerche proseguono, una nuova riunione è stata convocata per domani.
La Biennale è estranea
La chiazza verde comparsa oggi ha fatto tornare a galla dagli archivi una provocazione artistica quasi identica, datata 1968, fatta sempre a Venezia in nome della salvaguardia dell’ambiente, nell’ambito della Biennale d’Arte. Fu l’artista argentino Nicolas Garcia Uriburu che, a bordo di un’imbarcazione, percorse tutto il Canal Grande gettando in acqua un pigmento che rendeva fosforescenti i microrganismi presenti nell’acqua, rendendola di un color verde fosforescente. La sua arte era ispirata al movimento della ‘Land Art’, che vide come esponenti Oppenhiem e Christo. Un’operazione spettacolare, che invitava a prendersi cura dell’ambiente, usando un colore, il verde appunto, simbolo dell’ecologia universale, e che Uriburu ripetè più volte nella sua carriera fino alla sua morte, avvenuta nel 2016.
Altre performance simili furono portate a termine nel 1989, quando a venire colorata in verde fu l’acqua di una delle fontane che circondano la piramide del Grand Louvre, e quella della fontana del Trocadero, a Parigi. Un esperimento che venne ripetuto nelle acque dell’East River a New York. Sul Riachuelo, un piccolo affluente del Rio della Plata a ridosso del quartiere de La Boca, a Buenos Aires, la performance venne realizzata in collaborazione con Greenpeace per la Giornata mondiale dell’acqua, nel 2010. Nel settembre 2011 gettò colorante verde sul fiume Weser a Brema (Germania).
(da agenzie)

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