Maggio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
FUGGE DAL SUO RUOLO E AL TEMPO STESSO SI NASCONDE
Pavidità e inadeguatezza. Nelle conferenze stampa, infatti, Giorgia Meloni perde le staffe ad ogni domanda, reagisce alle critiche con stizza e con il solito vittimismo aggressivo, ha un’intolleranza bambinesca per la mediazione giornalistica, non si controlla e “sbrocca”.
E, dunque, per sfuggire al confronto, fugge dal suo ruolo e si esibisce e al tempo stesso si nasconde nel video autoprodotto.
Ha un’infantile paura di sé stessa: Meloni ha paura di Meloni. Non è infatti la prima volta che si rifugia nel “video” che mi pare stia diventando il suo strumento, la sua cifra, la sua tana del coniglio.
Il video diventa così un po’ il “balcone” dal quale si affaccia con spavalderia e un po’ la “velina” nella quale si rinchiude con codardia. Mostra un po’ di verità per nascondere la verità.
E il nostro piccolo vibra dinanzi a questa ennesima smorfiatura dell’Istituto Luce, che oggi non è ovviamente riproponibile, perché oggi più combatti il diritto di ficcare il naso nella realtà più ecciti quel diritto. E più il potere nasconde la paura, più la paura lo mostra e lo svela.
(da La Repubblica)
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Maggio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
AGLI OCCHI DEGLI OSSERVATORI INTERNAZIONALI, POCO CONTANO LE PROMESSE E I VIDEO IN PIANO SEQUENZA: SERVONO FATTI, COME LA DECISIONE DI USCIRE DALLA “VIA DELLA SETA”
La decisione dell’Onu di escludere l’Italia dal tavolo sul futuro dell’Afghanistan, nonostante i nostri vent’anni di missione militare, con 53 morti e oltre 700 feriti, dimostra che l’Italia a trazione Meloni non si è ancora guadagnata un posto di rilievo nell’agone internazionale.
Quel che forse non sarebbe avvenuto con Mario Draghi a Palazzo Chigi avviene con Donna Giorgia in sella, visto che la premier, nonostante tutti gli sforzi di restyling della sua immagine all’estero, è ancora marchiata come ex missina, e quindi erede politica del fascismo.
Che questa sia più un’arma di propaganda della sinistra che la realtà, conta poco agli occhi degli osservatori internazionali, non così interessati a comprendere fino in fondo le complesse dinamiche italiane.
A dare un’immagine del governo all’estero è il circuito dei grandi media internazionali, come il “New York Times”, che ha dato spazio alle cazzate sparate dal presidente del Senato, Ignazio La Russa, su via Rasella (“È stata una pagina tutt’altro che nobile della resistenza, quelli uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS”). A conferma che le gaffe, gli scivoloni, i nostalgismi e le improvvisazioni politiche, in Italia finiscono in barzelletta, ma all’estero hanno un peso.
La considerazione e il prestigio personale non sono certo l’unica preoccupazione per Giorgia Meloni: bisogna affrontare le pesanti pressioni internazionali sulle grandi questioni politiche. Diventa più facile comprendere come lo stress a Palazzo Chigi abbia raggiunto livelli di guardia.
A Washington, ad esempio, sono molto interessati a ciò che l’Italia deciderà di fare sull’accordo, siglato nel 2019 dal governo Conte con la Cina, sulla Belt and road initiative, meglio conosciuta come “Via della Seta”.
Gli americani vorrebbero che l’Italia si sfilasse ben prima di dicembre, termine ultimo entro il quale è necessario dare una risposta a Pechino.
Per la Ducetta non sarà facile decidere, perché uscire dalla “Via della Seta” potrebbe sì accontentare la Casa Bianca, ma avrebbe forti ripercussioni economiche e commerciali sull’Italia.
D’altronde, gli Stati Uniti non sono così attenti alle esigenze e ai problemi del nostro Paese: ai loro occhi siamo la solita colonia confusionaria e incomprensibile.
La scelta del nuovo ambasciatore a Roma, Jack Markell, conferma la limitata attenzione alle faccende del nostro Paese: il diplomatico, spedito sotto il Cupolone, sarà pure molto vicino a Joe Biden, ma poco o nulla sa dell’Italia e della sua arzigogolata politica. E infatti, a sbrigare le faccende delicate, continuerà a esserci l’incaricato d’affari, Shawn Crowley.
Insomma, nonostante la nuova campagna di comunicazione e i video promozionali in piano sequenza, l’immagine oltre frontiera di Giorgia Meloni è ancora tutta da costruire, e nessuno sembra farle troppi sconti o accordarle fiducia sulla parola.
Il cul de sac in cui si trova la premier sta tutto nella molteplicità di interlocutori di cui deve conquistare la fiducia: ci sono gli Usa che chiedono fedeltà atlantica e netta opposizione a Cina e Russia; c’è l’Unione europea, che già dubita delle capacità italiane di rispettare le regole di bilancio e di “messa a terra” del Pnrr, e sotto sotto sogna di tornare a fare affari con Mosca e Pechino; ci sono i suoi amici polacchi e gli indispensabili alleati franco-tedeschi, i cui obiettivi spesso confliggono.
Accontentare uno significa scontentare gli altri, e fare gli interessi dell’Italia, in questo scenario, è operazione da funamboli.
(da Dagoreport)
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Maggio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
ESCLUSA DAL TAVOLO SULL’AFGHANISTAN
L’Onu discute il futuro dell’Afghanistan ma si dimentica dell’Italia, nonostante la nostra missione ventennale, 53 caduti, oltre 700 feriti, diversi milioni di euro spesi, e gli effetti che l’instabilità generale nella regione provoca ora sul flusso di migranti verso le nostre coste. È successo a Doha lunedì e ieri, dove il segretario generale António Guterres ha convocato una riunione dei Paesi interessati, per discutere un approccio comune da adottare verso Kabul.
L’Afghanistan sta nuovamente esplodendo. Secondo il Palazzo di Vetro il 97% della popolazione vive in povertà, 28 milioni di abitanti hanno bisogno di assistenza per sopravvivere e 6 rischiano la fame, ma dei 4,6 miliardi di dollari richiesti per gli aiuti sono arrivati solo 294 milioni.
In questo quadro di emergenza, Guterres ha convocato la riunione di Doha dove non era invitato il governo di Kabul, ma tutti i Paesi più interessati alla crisi, «per raggiungere un’intesa comune all’interno della comunità internazionale su come impegnarsi con i talebani su questi temi».
Al tavolo c’erano Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Iran, Giappone, Kazakhstan, Kirghizistan, Norvegia, Pakistan, Qatar, Russia, Arabia Saudita, Tagikistan, Turchia, Turkmenistan, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, Usa, Uzbekistan, Ue e Organizzazione della Cooperazione Islamica. Alla domanda di Repubblica sul motivo dell’esclusione dell’Italia, il portavoce Stephan Dujarric ha risposto così: «Nell’inviare gli inviti, dovevamo garantire un equilibrio regionale, compresi i donatori e le organizzazioni regionali, mantenendo la riunione a un numero gestibile. C’è stato anche un fattore di coinvolgimento politico recente in termini di facilitazione dei colloqui. L’Unione europea rappresenta tutti i 27 stati membri».
Dunque Germania e Giappone sono state invitate perché donano molti soldi, la Norvegia perché ha avuto contatti con i talebani, ma i venti anni trascorsi ad Herat non sono valsi all’Italia un posto, magari anche considerando l’importanza che il governo di Roma attribuisce alla questione dei migranti. La nostra missione all’Onu ha capito subito la questione che stava nascendo e si è impegnata molto per risolverla, ma il problema a questo punto rischia di essere a monte, ossia il peso generale del nostro Paese.
(da La Repubblica)
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Maggio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
LE CAUSE PRINCIPALI DELLE CRISI ALIMENTARI SONO LE GUERRE, LE CRISI ECONOMICHE E I CAMBIAMENTI CLIMATICI
Sono quasi 260 milioni le persone che soffrono la fame nel mondo. In un solo anno, infatti, coloro che sono stati colpiti da una ‘grave insicurezza alimentare’ sono passati dal 21,3% del 2021 al 22,7% del 2022 con un aumento dell’1,4%. Coinvolti 58 Paesi e territori, rispetto ai 193 milioni di persone dei 53 Paesi nel 2021, con un ulteriore incremento per il quarto anno consecutivo. A dirlo è il rapporto annuale 2023 Fao-Programma alimentare Onu-Ue. Anche nel 2022 i conflitti sono stati la principale causa delle crisi alimentari superati, però, in 27 paesi, dagli shock economici che hanno colpito 83,9 milioni di persone.
L’insicurezza alimentare acuta, rileva il rapporto, rappresenta una minaccia immediata per i mezzi di sussistenza e la vita delle persone facendole scivolare nella carestia. Dal 2016, il numero di persone che vivono in condizioni di stress alimentare è più che triplicato, passato da 83,3 milioni a 253 milioni nel 2022. Il rapporto evidenzia la natura prolungata di molte di crisi alimentari. Le dieci maggiori crisi alimentari nel 2022 che coinvolgono 163 milioni di persone rappresentando il 63% della popolazione globale totale, in ordine di grandezza sono quelle in Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Afghanistan, Nigeria, yemen, Myanmar, Repubblica araba siriana, Sudan, Ucraina e Pakistan.
Nei 58 paesi/territori di crisi alimentare analizzati dal rapporto, oltre 35 milioni di bambini sotto i 5 anni hanno sofferto di deperimento. Quanto alle cause di insicurezza alimentare acuta si rafforzano reciprocamente, creando effetti negativi a spirale. “Un quadro molto preoccupante” per il direttore dell’Ufficio Emergenze e Resilienza della Fao, Rein Paulsen. “Quattro rapporti, per quattro anni consecutivi – sottolinea – hanno registrato un peggioramento costante della situazione. Serve un’azione urgente, di scala, e sul tipo corretto di azione da intraprendere per affrontare la situazione”.
La resilienza economica dei paesi poveri è diminuita drasticamente negli ultimi tre anni, trovandosi ora ad affrontare lunghi periodi di ripresa e una minore capacità di far fronte a shock futuri. Il conflitto è stato il fattore più significativo in 19 Paesi/territori, coinvolgendo 117 milioni di persone contro i 139 milioni del 2021; un calo dovuto all’insorgere degli shock economici che hanno superato la guerra in Afghanistan, Repubblica araba siriana e Sud Sudan. Gli estremi meteorologici-climatici sono i responsabili della fame in 12 Paesi in cui 56,8 milioni di persone, contro i 23,5 milioni di otto paesi nel 2021.
I risultati del rapporto confermano poi l’impatto negativo della guerra in Ucraina. Dopo il picco della prima metà del 2022, i prezzi alimentari sono scesi ma la guerra continua a incidere indirettamente sulla sicurezza alimentare, in particolare nei Paesi a basso reddito dipendenti dalle importazioni alimentari, la cui fragile resilienza economica era già stata colpita dalla pandemia di Covid.
(da agenzie)
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Maggio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
CROLLO VERTICALE DELLE VENDITE
Il boom di internet e dei social, la fuga degli inserzionisti, i giochi politici e di potere e la mancanza di innovazione. Un mix devastante per i quotidiani italiani, alle prese con un crollo verticale delle vendite che va avanti oramai da anni, mai bilanciato dalle edizioni digitali.
Negli anni ’80, ad esempio, Repubblica era il primo quotidiano, con una tiratura di oltre mezzo milione di copie, seguito dal Corriere della Sera (circa 450mila).
Oggi il quotidiano fondato da Scalfari nel 1976 sta affrontando la crisi più grave dalla sua nascita, visto che le copie vendute si attestano intorno alle 120mila. Il Corriere della Sera invece, viaggia di poco sopra le 230mila, con una forbice tra i due quotidiani che però si allarga sempre di più.
Nel panorama nazionale sono davvero in pochi a fare eccezione al calo delle vendite: nelle impietose rilevazioni mensili si affaccia ogni tanto un timido segno più accanto ad Avvenire, Fatto Quotidiano, Libero, Italia Oggi, per citarne alcune. Ma nulla in grado di recuperare la valanga di giornali “scomparsi”.
Gianluca Comin entra subito nel merito di questa crisi: “È un problema globale dell’editoria, che sta proseguendo da più di una decina di anni e che riguarda in particolar modo i quotidiani. In Italia è più sentita rispetto ad altri paesi, penso ad esempio a Germania e Francia”, dichiara il presidente e fondatore dell’agenzia Comin & Partners, eccellenza italiana nella comunicazione e nella consulenza strategica.
Tra i peggiori nemici dell’informazione dei quotidiani c’è sicuramente la diffusione di internet e dei social: “Il problema – spiega Comin – è l’attenzione del pubblico e la vecchia contraddizione tra l’informazione che deve educare e quella che deve invece assecondare. Oggi il digitale asseconda molto di più chi clicca sulle notizie, con una attenzione maggiore verso temi più popolari, come il gossip, il sesso, lo sport, il costume. In questo scenario gli argomenti più seri come l’economia, la cultura e la politica suscitano meno interesse. Il digitale ha questa pecca: non aiuta la crescita nella consapevolezza del ruolo dell’informazione in un sistema democratico. E con la crescita del digitale – osserva – è cambiato anche il mondo pubblicitario, visto che budget importanti della carta stampata sono stati dirottati su Google e in generale sui siti che performano meglio dal punto di vista della vendita del prodotto”.
Se si parla di internet e social, si parla soprattutto dei nativi digitali. Il problema è duplice: a differenza dei quotidiani l’informazione social ha i due grandi vantaggi di essere aggiornata in tempo reale e gratuita. “I giovani si informano molto bene – sottolinea Comin – sono globali nell’attingere informazioni rispetto a noi. Non c’è più il rito dell’acquisto dei giornali in edicola, ora l’informazione è sul proprio smartphone, in buona parte gratuita, anche se mediata dai portali. Il vero tema non è che i giovani non si informano, ma che per loro l’informazione non costa niente, si trova facilmente. Ma al contempo non porta nulla nelle tasche degli editori e non valorizza il lavoro dei giornalisti”.
Un cortocircuito in piena regola, nel quale si insinuano altri temi delicati e attuali come la diffusione delle fake news e in generale la disinformazione. Il mondo della comunicazione italiana, poi, non pullula di editori “puri”, anzi. E spesso chi ha acquistato le testate giornalistiche le ha trattate alla stregua di una squadra di calcio. Oggi Antonio Angelucci, ad esempio, che nasce come imprenditore nel campo della sanità, è anche editore di ben tre quotidiani nazionali: Il Tempo, Libero e Il Giornale.
Nelle redazioni si avverte qualche tensione: ci sono stati molti avvicendamenti ai vertici e ci sono novità importanti in questi giorni. Marco Tarquinio ha annunciato l’addio alla guida dell’Avvenire dopo ben 14 anni, una delle storie più longeve. Il quotidiano Domani, fondato da Carlo De Benedetti (già editore di Repubblica) ha perso il direttore Stefano Feltri per affidare la guida ad Emiliano Fittipaldi. E poi c’è l’esordio di Matteo Renzi come direttore editoriale de Il Riformista e il ritorno de L’Unità, che sarà diretta da Piero Sansonetti. Una girandola da capogiro: “Vero – conferma Comin – ma se guardo agli ultimi 30 anni abbiamo avuto periodi ben più caldi di questo in termini di cambio di direzione e vicende editoriali. L’avvicendamento Tarquinio, che ha fatto un lavoro straordinario, visto che ha fatto crescere un giornale comunque ‘di nicchia’, dandogli un ruolo significativo nel dibattito politico, credo sia naturale dopo tanti anni. E su Renzi ricordo che Veltroni ha fatto il direttore de L’Unità, e quindi non mi spaventano i politici che dirigono un giornale, anche perché Renzi non è direttore responsabile ma editoriale. Insomma, una sorta di direttore politico, un modo per avere visibilità”. Un altro problema è la scomparsa delle edicole, in un circolo vizioso che si autoalimenta: “Il tema dell’accesso al mezzo di informazione è sicuramente attuale”, afferma Comin. “In Italia i quotidiani si vendono solo nelle edicole. O ci si converte al digitale oppure non è facile trovare la copia cartacea. Forse se venisse liberalizzata la vendita dei giornali nei supermercati qualche copia in più si potrebbe vendere”.
Ma torniamo ai contenuti. Che in qualche caso ci sia un calo della credibilità dei quotidiani è innegabile. Ma il fiume ininterrotto di notizie sui canali all news, sui social, sui siti di informazione, deve coincidere con un cambio della linea editoriale dei quotidiani: meno “cronaca” e più contenuti inediti, più approfondimenti, più storie. È questa la formula che ha permesso al quotidiano francese Le Monde di avviare da qualche anno un nuovo corso, superando il mezzo milione di copie, il doppio rispetto al 2016.
La ricetta vincente? Tutto in controtendenza: estesa rete di corrispondenti all’estero, riduzione degli articoli e aumento della lunghezza media, più approfondimenti e assunzione di 150 giornalisti negli ultimi anni. Insomma, il quotidiano francese ha vinto la sfida impossibile contro internet e la televisione liberandosi dal rito del flusso di notizie, concentrandosi sul racconto originale. “Il caso di Le Monde è sicuramente eccezionale, la prassi è ben diversa”, commenta Comin.
“La crisi c’è, il tema è la credibilità del settore dell’informazione e quella dei marchi che li rappresenta. Ma una cosa è certa: ogni target ha il suo mezzo di informazione, ogni esigenza ha il suo canale: se hai bisogno di parlare ai giovani il quotidiano non è certo il mezzo più adatto. Ma se invece ci si vuole rivolgere agli opinion leader e alla classe dirigente il quotidiano rimane il mezzo principale. Idem se bisogna fare una intervista importante, una dichiarazione che muove i mercati. Insomma – conclude il presidente e fondatore di Comin & Partners – se è vero che in termini di copie vendute c’è una crisi che continua da anni, in termini di ruolo istituzionale e di credibilità i giornali cartacei hanno ancora un grande ruolo”.
(da ilmillimetro.it)
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Maggio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“DI FRONTE ALLA CRITICA CREANO IL DESERTO”
Lo scrittore Roberto Saviano ha vinto una causa per diffamazione che lo contrapponeva al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Aveva definito su Twitter l’allora direttore del Tg2 «un galoppino di Cosentino». Il tribunale di Roma ha respinto la richiesta di risarcimento danni sostenendo che quella dello scrittore fosse una critica aspra ma consentita.
Oggi Saviano in un’intervista a La Stampa torna all’attacco del governo Meloni. È contento sì, del verdetto. Ma non troppo: «Al di là della sentenza a me favorevole, dobbiamo chiederci qual è il prezzo pagato da chi muove critiche forti al potere. Un prezzo pagato non solo in tribunale, dove quasi un intero governo mi ha portato. Bisogna considerare i tanti spazi che vengono tolti non solo a chi muove queste critiche ma anche a chi gli sta intorno. Di fronte alla critica questa destra crea il deserto».
La Lega
Saviano fa l’esempio della Lega e del Festival dell’Economia di Trento: «Appena è andata al potere lo ha chiuso. Le associazioni che ti invitano e le trasmissioni che ti ospitano diventano automaticamente nemici».
Per il giornalista «l’Italia si sta avvicinando sempre di più alla Polonia, all’Ungheria di Orban, alla Serbia. Si sta balcanizzando. In Francia c’è preoccupazione. Come negli Stati Uniti dove il rapporto tra intellettuali, giornalismo e potere è molto diverso. Trump escluso ovviamente. Da noi gli intellettuali critici si sentono sempre più soli».
Invece per la vignetta su Lollobrigida e Arianna Meloni Saviano dice: «Difendo il diritto alla satira: quella vignetta aveva tutto il diritto di essere fatta e pubblicata ma non la ho condivisa. La satira va rivolta su chi ha potere ma dal basso verso l’alto e non lateralmente. Sui parenti è meno impattante. E poi ha fatto un favore alla destra. Ha distratto l’attenzione dalla frase gravissima, squallida di Lollobrigida sulla sostituzione etnica».
Il rimpianto Berlusconi
Saviano dice anche che rimpiange Berlusconi: «Lui voleva convincere e andava anche in luoghi avversi per conquistare. Meloni no, vive nella sua bolla. La tendenza del governo ora è parlare solo alla sua parte, tipico gioco populista».
E sul fascismo spiega: «La destra ha un paura terribile di perdere l’elettorato più attivo che si sente in continuità con la storia fascista. Il tentativo è evidente: vogliono poter dichiarare la Repubblica italiana afascista e non antifascista quale è. La questione fascista, strumentalmente, è considerata storica e quindi chiusa. Ma sanno che da Salò, dal Movimento sociale non possono separarsi perché perderebbero consensi. Per questo La Russa più di tutti, ma anche Meloni, non riesce, non può riconoscere il ruolo dell’antifascismo».
(da agenzie)
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Maggio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
SALVINI PENSA A UN NUOVO GRUPPO ALL’EUROPARLAMENTO… IL PRIMO BANCO DI PROVA: IL RADUNO SOVRANISTA DI MAGGIO IN PORTOGALLO CON BOLSONARO. SALVINI PARTECIPERA’?
Come riportare la Lega al centro della politica europea? Come passare dalla parte del tavolo in cui si sta a guardare o nella migliore delle ipotesi si fa opposizione a quella in cui si danno le carte?
E così ieri lo stato maggiore si è chiuso per tre ore nella sede milanese del partito per cominciare una discussione tanto fondamentale quanto accesa. Davanti al segretario Matteo Salvini, infatti, sono subito emerse due posizioni. Da una parte c’è chi, come il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari e il vicesegretario Andrea Crippa, sostiene la necessità di abbandonare il gruppo «estremista» di Identità e democrazia e di tagliare i ponti con alcuni compagni di strada scomodi. Anzi, scomodissimi per una forza che dopo sostenuto Mario Draghi ora punta a governare l’Italia per i prossimi cinque anni. Il pensiero va al Rassemblement National francese di Marine Le Pen ma soprattutto ai tedeschi di Afd.
Dall’altra c’è un peso da novanta come il presidente della Camera Lorenzo Fontana (padre della svolta sovranista del 2013 e ancora oggi responsabile Esteri «ombra» del partito, oltre che ex compagno di stanza di Salvini quando entrambi erano europarlamentari) che ha invece messo in guardia il leader da un cambio di rotta che potrebbe non essere compreso dall’elettorato e che ignorerebbe il «vento di destra» che da Svezia e Finlandia già soffia sul Vecchio Continente.
Il primo banco di prova sarà il 13 e 14 maggio. I nazionalisti portoghesi di Chega hanno invitato Salvini a un raduno sovranista il cui ospite d’onore sarà l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro.
Se l’idea di compattare tutte le forze di centrodestra oggi sparpagliate fra Ppe, Identità e Democrazia e Conservatori resta un sogno (Meloni già l’anno scorso si era opposta) le due strade possibili sembrano essere l’ingresso nel Ppe oppure la creazione di un gruppo ex novo. Fonti leghiste fanno notare che nei principali Paesi europei (Francia, Germania, Spagna e Italia) il Ppe oggi è meno forte che in passato, e allo stesso tempo sono consapevoli che per creare un nuovo soggetto servono 24 eletti provenienti da almeno 7 Paesi (un mezzo rebus nonostante i 28 europarlamentari fatti dalla Lega nel 2019). Chissà se per il 10 o il 17 settembre, le due date ipotizzate ieri per il ritorno sul pratone di Pontida, i nodi saranno sciolti?.
(da Dagoreport)
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Maggio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
UNO DEI QUATTRO MILIARDI STANZIATI SARANNO PAGATI TRAMITE IRPEF DAGLI STESSI LAVORATORI
Altro che il “tesoretto da 4 miliardi” di cui parla Giorgia Meloni nell’ormai famoso video sulle misure varate durante il cdm del Primo Maggio. Le risorse per il taglio del cuneo contributivo a carico dei dipendenti stanziate dal governo (in deficit) si fermano a 2,9 miliardi. Il resto, circa 1,1 miliardi, da dove arriva? Stando all’ultima bozza del decreto Lavoro sono le maggiori imposte che verranno versate dagli stessi lavoratori per effetto della riduzione dei contributi. I contributi infatti sono deducibili e all’aumentare dell’esonero sale la base imponibile su cui si applica l’Irpef. Risultato: stando alle prime simulazioni della Cgil, chi guadagna intorno a 20mila euro lordi l’anno da luglio avrà un beneficio aggiuntivo di circa 59 euro al mese. Sommando i circa 45 euro previsti dal taglio del cuneo già in vigore, si arriva a oltre 100. Ma il beneficio netto si fermerà a una settantina di euro totali. Per chi ha una retribuzione lorda di 15mila euro il vantaggio complessivo si fermerà invece a 62 euro perché quasi 20 se li mangerà il fisco
A prima vista è una beffa non da poco. Ma il meccanismo non è certo nuovo: funziona sempre così quando invece che “tagliare le tasse” – come la premier rivendica di aver fatto – si agisce sulla parte di cuneo relativa alla contribuzione che va a finanziare la previdenza. Il governo in carica può così annunciare una sforbiciata più corposa rispetto alle risorse che ha effettivamente dovuto trovare per assicurare le coperture. Anche gli 1,8 miliardi destinati durante il governo Draghi alla prima riduzione di 0,8 punti nel 2022 e gli 1,1 miliardi aggiunti con il decreto Aiuti bis per portarla a 2 punti da luglio a dicembre erano il costo complessivo dell’intervento, finanziato però in parte (500 milioni nel primo caso e 350 nel secondo) proprio dalle maggiori entrate tributarie connesse.
Tornando al decreto del Primo maggio, va detto che l’ultima bozza datata 30 aprile stabilisce che il nuovo taglio scatti a luglio e si interrompa a fine novembre, dopo soli cinque mesi. I comunicati di Chigi e del Mef parlano invece di un intervento destinato a proseguire per un altro mese, fino al 31 dicembre. Le coperture sono quindi suscettibili di aggiustamenti al rialzo. Ma le proporzioni sono già chiare: l’articolo 34 del provvedimento, al secondo comma, spiega che a fronte di oneri pari per il 2023 a 4 miliardi complessivi le coperture arriveranno “quanto a 1.156 milioni di euro per l’anno 2023 e a 96 milioni di euro per l’anno 2024″ da “maggiori entrate derivanti dal comma 1“. Cioè quello che incrementa di 4 punti l’esonero contributivo.
Al salire del reddito la distanza tra beneficio lordo e netto è destinata ovviamente ad aumentare complice la maggiore aliquota nominale e l’incremento di quella marginale effettiva, che tiene conto delle detrazioni. Così, come mostrano le tabelle messe a punto dai tecnici della Cgil, a quota 25mila euro di introiti lordi il taglio del 6% lascerà nelle tasche circa 88 euro netti in più a fronte di 134 euro di beneficio lordo (di cui 76 attribuibili all’intervento del Primo maggio). A 35mila euro di reddito lordo la differenza arriverà addirittura a 70 euro. Oltre quella soglia, fa notare il sindacato, lo sgravio si azzera senza décalage. Con il rischio che qualsiasi aumento di stipendio si traduca in una notevole perdita netta per il lavoratore. Del resto lo scopo dichiarato dell’intervento, come si legge nel Def, era quello di “moderare la crescita salariale“.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Maggio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
GRAZIE AL REDDITO DI CITTADINANZA IN QUATTRO ANNI UN MILIONE DI FAMIGLIE HA ALLEVIATO GLI EFFETTI DELLA POVERTA’ E 300.000 PERSONE HANNO TROVATO LAVORO
In quattro anni, grazie al Reddito di Cittadinanza, il lavoro nero è diminuito, più di un milione di famiglie e oltre tre milioni di cittadini hanno potuto alleviare gli effetti devastanti della povertà. Grazie ai navigator, più di 300.000 disoccupati hanno trovato lavoro.
Distruggendo con furia tutto l’apparato del Reddito di Cittadinanza e rendendo sempre più precario il lavoro, Giorgia Meloni si avvia a insidiare il primato neoliberista che fu della Thatcher inglese negli anni Ottanta e del Pinochet cileno negli anni Settanta e Ottanta.
Rispetto alla legge varata nel 2019 dai 5 Stelle, l’attuale Assegno per l’inclusione riduce il numero degli assistiti e la durata dell’assistenza. Non basta più essere poveri, occorre essere poverissimi. Per fruire dell’assistenza, bisogna avere in famiglia almeno un minore, un vecchio o un invalido.
Rispetto a due anni fa, un milione di poveri resteranno senza sussidio sicché l’Italia, dopo essere stato l’ultimo Paese d’Europa a introdurre il Reddito di Cittadinanza, e con il sussidio più basso, ora è anche il primo a restringerne la platea dei destinatari e a ridurre ulteriormente l’importo dell’assegno elargito. Portando da 8 a 5,5 i milioni destinati ai poveri, la Meloni lucra sulla fascia più diseredata e infelice della popolazione. Per il mezzo milione di “occupabili” c’è un trucco: percepiranno un sussidio di 350 euro solo dopo avere frequentato un corso di formazione ma, allo stato attuale, non esistono corsi del genere.
Da quando trionfa, il neoliberismo ha sempre imposto due condizioni: precarizzare il lavoro quanto più possibile e privilegiare il mercato piuttosto che lo Stato sociale. Il governo Meloni le sta onorando entrambi.
Abolito il decreto Dignità che garantiva gli ultraprecari, deformato il Reddito di Cittadinanza che assisteva i più poveri, vengono ora incentivati i contratti a termine con accordo diretto tra datore di lavoro e lavoratore e viene eliminato l’obbligo degli imprenditori a fornire giuste cause del ricorso al lavoro precario. Si tenga conto che già prima del Covid il 30 per cento di tutti i contratti a termine avevano una durata inferiore alla settimana. Se a tutto questo si aggiungono i voucher nei settori turismo, agricoltura e discoteche con una retribuzione di 7,5 euro l’ora, il quadro della precarizzazione del lavoro è completo.
C’è da chiedersi come Giorgia Meloni immagina che possano crescere i consumi e la natalità in presenza di un mercato del lavoro così precarizzato e con servizi sociali così decrescenti.
“I nostri – ha commentato il ministro del Lavoro, Marina Calderone – non sono interventi spot, c’è dietro una visione che poi si concretizzerà e si scaricherà a terra”. Ed è appunto questa visione che fa paura, perché ricorda i disastri neoliberisti della Thatcher e di Pinochet. Vale la pena, a futura memoria, di ricordare cosa avvenne in Cile.
Tra il 1957 e il 1980 le neoliberiste americane Ford e Rockefeller Foundation finanziarono il “Progetto Cile” organizzato dal Dipartimento di Stato americano.
L’iniziativa prevedeva borse di studio e tirocini per i giovani economisti cileni che si specializzavano presso la Pontificia Università Cattolica del Cile o presso la Scuola di Chicago, sotto la direzione di Milton Friedman e Arnold Harberger. Più tardi Friedman affibbiò a questi economisti il nome di “Chicago boys”.
Durante la sua dittatura militare – dal settembre 1973 al marzo 1990 – Augusto Pinochet convocò i Chicago boys come ministri, come consulenti e alti funzionari del governo e delle banche, ispirando tutta la sua politica economica al paradigma neoliberista (laissez faire, concorrenza, privatizzazioni, liberalizzazioni), abolendo le riforme socialiste di Allende, tagliando la spesa pubblica e le pensioni, mettendo in atto azioni antisindacali. Nacque così il cosiddetto “Miracolo cileno”: buona crescita del Pil, ottimi profitti per i privati, incremento della disoccupazione e del divario tra ricchi e poveri, asservimento del Cile alle società statunitensi, come notò il premio Nobel Amartya Sen. Del resto la Scuola di Chicago, che si prestava a fare da braccio scientifico di Wall Street, del Pentagono e della Cia, aveva come guru e fiore all’occhiello il professore Von Hayek, padre della Scuola neoliberista di Vienna che, di fronte all’obiezione se fosse etico lavorare per una dittatura, rispondeva che è “meglio un liberalismo restrittivo, che sapesse un po’ di autoritarismo, che una democrazia illimitata”.
Anche in Italia, dopo avere precarizzato tutto il mondo del lavoro, sarà necessario tenere a bada i conflitti che ne nasceranno. Allora “un po’ di autoritarismo” di tipo cileno sarà invocato dagli stessi media conservatori che, all’apparire del Reddito di Cittadinanza, lo coprirono di critiche sprezzanti.
/da il Fatto Quotidiano)
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