Maggio 16th, 2023 Riccardo Fucile
IL 14 FEBBRAIO 2002 LA SIGNORA PARATORE DICE ADDIO ALLA “LAZIO CONSULTING”, SOCIETÀ CHE AVEVA PRESENTATO SEI PROPOSTE PER LA TRASFORMAZIONE DEL LITORALE ROMANO (PER 90 MILIONI DI EURO). PARATORE VENDE IL SUO 10% PER 51MILA EURO ALLA “D CONSTRUCTION”, UNA SOCIETÀ FORMALMENTE LONDINESE, MA DI FATTO BASATA A PANAMA
Anna Paratore, la mamma di Giorgia Meloni, non era soltanto la scrittrice di romanzi d’amore della Garbatella, era anche socia di diverse aziende le cui proprietà, nel corso degli anni, si sono via via perse in complicatissimi giochi di scatole cinesi: da Roma, all’Inghilterra passando per i paradisi fiscali di Panama e Lussemburgo.
Tutto si muove tra il 1998 e il 2002 proprio quando iniziava la vera storia politica della presidente del Consiglio. Ma la data cruciale è il 14 febbraio del 2002, il giorno di San Valentino.
In quella data, infatti, un amore si interrompe: è quello della mamma della futura premier con due delle società nelle quali aveva quote insieme con il suo ex compagno (recentemente condannato per bancarotta fraudolenta), Raffaele Matano.
Si tratta della Lazio Consulting e della Mr Partners. Non erano aziende qualsiasi: la Lazio Consulting – la cui proprietà era per il 90 per cento della Mr Partners e per il 10 della signora Paratore – aveva presentato sei delle 162 proposte di progetto per la trasformazione del litorale romano nell’ambito del Patto Territoriale Ostia-Fiumicino, per un valore di 90 milioni di euro circa. Un progetto che evidentemente faceva gola a molti.
La D Construction Limited compra infatti per 51mila euro il 10 per cento della Paratore e qualche settimana dopo per 431.160 euro il 90 per cento della Mr Partners. Ma chi sono quelli della D Construction?
Da Ostia a Panama
Per dare una risposta bisogna fare un salto indietro. Al 30 novembre del 2000. Quel giorno, nel cuore di Panama, al secondo piano del lussuoso palazzo vetrato Frontenac, entra un uomo. È un avvocato, si chiama Jaime Eduardo Alemán e bussa alla porta di un notaio.
Si presenta “in qualità di socio dello studio legale Alemán, Cordero, Galindo & Lee” – uno studio che anni dopo apparirà nei Pandora Papers, l’inchiesta sui paradisi fiscali – e deposita l’atto di costituzione di una società, la Fayson Trading s.a.
I due firmatari dello statuto sono Andrés Maximino Sánchez e John Benjamin Foster. E anche loro compariranno in una fuga di notizie sui Paesi a fiscalità ridotta. Gli amministratori dell’azienda sono tre persone che hanno la residenza legale anche in un altro paradiso fiscale (le Isole del Canale).
Uno di loro, John Trevor Greer Donnelly, compare nell’archivio dei Panama Papers, un’altra inchiesta sui paradisi fiscali. Creata l’azienda a Panama, la mossa successiva è vincolarla all’Europa, e così succede il 23 febbraio 2001, quando tale Edna Nino costituisce la D Construction Limited presso la Companies House del Regno Unito.
La società dichiara di avere sede legale al numero 1 di Knightrider Court. In questo indirizzo c’è l’ufficio di una società di consulenza per cui lavora Edna Nino che apre, chiude e gestisce aziende per conto di terzi. Il capitale sociale è composto da 100 azioni, di cui solo una è di proprietà di un’azienda britannica, la Easycircuit Limited. Il restante 99% appartiene alla Fayson Trading: siamo a Londra, quindi, ma in realtà siamo a Panama.
E da Panama in Lussemburgo
Ma poi succede altro. Sempre nel 2002 viene creata a Roma la Lunghezza Immobiliare, una srl “unipersonale a responsabilità limitata” costituita da un’altra società, la Polired s.a., con sede in Lussemburgo e fondata appena una settimana prima, il 10 luglio, da due cittadini italiani che lavoravano nel Granducato per una società di consulenza internazionale.
Il 29 luglio 2002, la Lazio Consulting, che era già stata venduta alla D Construction, realizza una strana operazione. “Trasferisce a Lunghezza Immobiliare srl, che …. acquisisce il ramo di attività avente per oggetto l’esecuzione di lavori di costruzione”, rivela un atto notarile in cui si legge: “Si conviene che Lunghezza Immobiliare srl sostituisce Lazio Consulting srl nella partecipazione alle gare, anche se queste sono state sottoscritte con la presentazione di atti e/o documentazione”. Il prezzo del trasferimento è di 10.000 euro.
Repubblica ha cercato di chiarire chi fosse il beneficiario finale della rete di società che collega le romane Lazio Consulting e Mr Partners con l’inglese D Construction e, tramite questa, alla panamense Fayson Trading. Rintracciato, il commercialista romano Carlo Stella, che era il “legale rappresentante” della Mr Partners in quell’affare, secondo gli atti notarili, ha rifiutato di essere intervistato.
Ha accettato l’avvocato Giovanni Petrillo, “procuratore speciale della società D Construction Limited”. “Non ricordavo che fossi il procuratore della D Construction – dice Petrillo -. Non ricordo nemmeno chi me l’ha chiesto (di essere il procuratore, ndr)” continua. “In realtà, non credo che abbia nulla da nascondere… Sono passati 20 anni e se ho commesso qualcosa consapevolmente o meno, c’è la prescrizione”, sottolinea […]. La Fayson Trading e la Polired, nel frattempo, sono state cancellate del registro d’imprese di Panama e del Lussemburgo, rispettivamente, per non presentare bilanci.
(da La Repubblica)
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Maggio 16th, 2023 Riccardo Fucile
MILKA ERA RIUSCITA MAGICAMENTE, INSIEME ALLA MAMMA DELLA FUTURA PREMIER, ANNA PARATORE, A VENDERE UN BAR A QUASI 100MILA EURO, REALIZZANDO UNA PLUSVALENZA DI 80MILA. “COME HO FATTO? A VOI NON RISPONDO”
L’affare “Raffaello” è l’argomento di cui nessuno vuole parlare nell’entourage di Giorgia Meloni. Un certo nervosismo si percepisce anche nelle reazioni dei diretti interessati. L’operazione commerciale con al centro la madre di Meloni, Anna Paratore, e la migliore amica della presidente del consiglio, Milka Di Nunzio, riguarda una società chiamata Raffaello eventi Srl.
Nel 2012 Paratore e Di Nunzio hanno acquistato alcune quote dell’azienda, e sono entrate così in società assieme a Lorenzo Renzi, David Solari e Daniele Quinzi (candidato di Fratelli d’Italia nel 2013) nella gestione del lounge bar B-Place nel quartiere Eur di Roma, locale che da lì in poi verrà frequentato anche dalla futura fondatrice e leader di Fratelli d’Italia.
SOLDI E SILENZI
Nel 2016 la mamma e l’amica del cuore della premier hanno dismesso le partecipazioni nella Raffaello Eventi, ottenendo dalla vendita una notevole plusvalenza: le stesse azioni pagate in tutto 4mila euro, nel 2016 sono state vendute dalle due donne a quasi 90mila euro agli stessi imprenditori (Renzi e Solari) da cui avevano comprato quattro anni prima.
I due titolari hanno firmato l’accordo per pagare a rate le somme stabilite fino al 2018. La prima tranche era fissata per l’ultimo giorno di febbraio 2016, da mesi si rincorrevano le voci di una candidatura a sindaca di Meloni, ufficializzata solo il 13 marzo di quell’anno, qualche settimana dopo l’operazione “Raffaello”.
Un colpo notevole per le due donne più importanti nella vita della premier. «Non voglio essere scortese, non voglio parlare di fatti che non vi riguardano, arrivederci e buongiorno!», è la risposta a Domani di Di Nunzio contattata nel suo ufficio della Croce Rossa, assunta come coordinatrice dell’unità che si occupa del volontariato e del servizio civile.
Ingaggiata nel 2018, durante il regno in Croce Rossa di Francesco Rocca, a capo dell’organizzazione per dieci anni e ora presidente della regione Lazio con Fratelli d’Italia.
Non è un mistero che Meloni sia stata il suo sponsor più importante per sbloccare la candidatura. «Francesco Rocca è una di quelle persone che sei fiera di poter chiamare amico! Personalmente non potevo sperare in un governatore migliore per la regione Lazio», così si congratulava con il suo ex capo la migliore amica della premier il 14 febbraio scorso.
A distanza di quattro mesi Renzi e Solari hanno chiuso bottega ma non la società, che hanno ceduto a Iftikhar Ahmad Gondal, cittadino pakistano, con un permesso di soggiorno in scadenza e domiciliato presso la mensa dei poveri della comunità di Sant’Egidio. Dove Gondal abbia trovato 10mila euro per saldare le quote di Solari e Renzi è l’ennesimo mistero di questa storia, così come il ruolo di Muhammad Tahir, diventato amministratore della società dopo la cessione a Gondal. Pure Tahir è domiciliato presso un indirizzo che corrisponde a un’altra sede della comunità di Sant’Egidio, questa volta a Ostia.
I diretti interessati non hanno intenzione di chiarire: Renzi passa da un «non ricordo», a un tono molto seccato: «Non c’è niente da spiegare, non voglio parlare con voi”
«Queste cose», come le definisce Renzi, riguardano passaggi di denaro indirizzati a due donne legatissime all’attuale presidente del consiglio e allora in corsa per diventare sindaca della capitale. Due fattori che rendono la vicenda di interesse pubblico. Perché se è vero che al momento non c’è alcun illecito, resta l’obbligo della trasparenza per chi fa politica e chi è deputata a gestire la cassaforte di un candidato.
La faccenda è rilevante anche per un altro motivo: una delle protagoniste dell’operazione, insieme a Paratore, è Di Nunzio, che nell’anno in cui cede le quote è stata nominata mandataria elettorale di Meloni, nel 2016 candidata a sindaca di Roma. In pratica la migliore amica ha ricoperto l’incarico di guardiana delle spese e dei finanziamenti destinati alla campagna elettorale di Meloni
Un ruolo delicato, confermato dai documenti, letti da Domani, relativi alle rendicontazioni dei candidati. La firma di Di Nunzio è in calce a certificare ogni entrata e uscita denunciata, proprio sotto quella dell’aspirante prima cittadina.
«Non abbiamo gruppi di potere alle spalle, lobby che ci sostengono o banchieri amici che ci pagano la campagna elettorale. Preferiamo restare dalla parte degli italiani accettando solo piccole donazioni», diceva Meloni.
Eppure qualche pezzo grosso l’ha sostenuta, quell’anno aveva raccolto 210mila euro grazie a decine di imprenditori della capitale: da Angiola Armellini, l’immobiliarista che ha avuto grossi problemi con il fisco, ai ras dei lidi di Ostia, i Balini, coinvolti in vicende giudiziarie varie. Contributi raccolti e rendicontati dall’amica promossa contabile, Di Nunzio.
La madre di Meloni ha navigato in diversi affari immobiliari fin dalla fine degli anni Novanta, come rivelato da Domani nella prima puntata dell’inchiesta sui rapporti tra lei, il geometra immobiliarista Raffaele Matano e il padre della premier con una condanna per narcotraffico nel 1996 e scomparso nel 2012. Di Nunzio, al contrario, ha costruito la sua carriera in organizzazioni attive nel sociale, sempre però con una passione per la politica, in particolare per la destra.
Prima di entrare con Rocca nella Croce Rossa, nel 2008 ha seguito la sua amica Meloni al ministero della Gioventù, nel governo di Silvio Berlusconi: incaricata di coordinare i rapporti, progetti ed attività con associazioni giovanili di volontariato e terzo settore. Fino al 2021 è stata pure coordinatrice nell’organizzazione per l’educazione allo sport (Opes).
Con la premier ha un’amicizia lunga una vita, Di Nunzio rilancia ogni suo post, commento e intervento. Non si perde una festa di Atreju, la kermesse di Fratelli d’Italia, si fa fotografare con senatori e deputati del partito e con Arianna Meloni, sorella dell’attuale presidente del Consiglio.
(da Domani)
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Maggio 16th, 2023 Riccardo Fucile
È STATO IL SUO VOTO, CHE VALEVA DOPPIO, A GARANTIRE L’AVVENTO DEL NUOVO CORSO MELONIANO A VIALE MAZZINI
La batteria delle dichiarazioni nel centrodestra è partita appena il Consiglio di amministrazione della Rai ha votato Roberto Sergio come amministratore delegato (Sergio ha poi indicato Giampaolo Rossi come direttore generale).
Da Fratelli d’Italia a Forza Italia tutti uniti a celebrare una nomina che non è stata affatto unanime. Il cda si è spaccato ed è stato decisivo il voto della presidente Marinella Soldi, che ha rinunciato al suo ruolo super partes per schierarsi apertamente con la maggioranza.
È stata lei a blindare a correre in soccorso della destra, che ha trovato così un alleato prezioso nella campagna di riconquista della Rai. A favore della nomina di Sergio si sono infatti espressi i consiglieri Simona Agnes, in quota Forza Italia, e Igor De Biasio, per la Lega, più la presidente Soldi. Contraria Francesca Bria, nominata dal Pd, mentre si sono astenuti Alessandro Di Majo, in quota M5s, e il consigliere Riccardo Laganà, rappresentante dei dipendenti.
È finita tre pari, dunque, visto che l’astensione vale come voto contrario. Ma è proprio nei casi di parità che il voto della presidente vale doppio e così Soldi è risultata decisiva.
Sarebbe stata sufficiente la sua astensione per stoppare l’operazione di Giorgia Meloni. Invece la manager prestata al servizio pubblico ha scelto di appoggiare Sergio, nonostante finora non abbia mai avuto legami con il mondo di FdI.
La sua nomina risale infatti all’esecutivo presieduto da Mario Draghi, che l’aveva voluta alla presidenza dell’azienda proprio in virtù della sua caratura super partes. Certo, c’era stato un corteggiamento politico da parte di Matteo Renzi, ma Soldi non ha mai ceduto alle lusinghe. Il voto rappresenta uno strappo che potrebbe diventare norma nei prossimi mesi: la destra ha bisogno di una stampella nel cda Rai e Soldi ha di fatto manifestato questa disponibilità.
Al Partito democratico la cosa non è piaciuta. «Non so quali siano le motivazioni di questo voto, quello che invece so è che la presidente Rai ha il compito e il dovere di esercitare un effettivo ruolo di garanzia a salvaguardia dell’autonomia e del pluralismo della Rai», ha detto il senatore del Pd, Francesco Verducci, componente della commissione di Vigilanza Rai. In privato i dem hanno usato toni molto meno istituzionali, etichettando come «osceno» quanto accaduto nel cda.
Per altri casi sono state necessarie delle forzature del governo, come il siluramento di Carlo Fuortes, mentre per la “melonizzazione” della presidente Rai è bastato mettere in campo la candidatura di Sergio e Rossi. Lo spostamento a destra è avvenuto, assecondando l’onda lunga del potere.
Ma per evitare di dover ricorrere sistematicamente al voto di Soldi, fino alla scadenza del cda (nel 2024), FdI ha elaborato un piano B: attirare a sé Movimento 5 stelle.
Con il voto sull’ad si è palesato il dialogo in corso tra Giuseppe Conte e Giorgia Meloni. L’astensione di Di Majo non è stata una sorpresa, viste le anticipazioni dei giorni scorsi. La regia del confronto è nelle mani di Conte: sta seguendo la vicenda in prima persona.
Non è un mistero che voglia garantire una buona posizione a Giuseppe Carboni, ex direttore del Tg1, con buona pace degli strali contro i partiti che occupano la Rai. Non è passato inosservato il silenzio sulla forzatura della presidente Soldi nel cda.
Il M5s si è limitato a commentare in maniera positiva la riconferma del programma Report nel palinsesto di Rai 3. Niente barricate, dunque. «Trovo singolare che nessuno metta pubblicamente pressione a Conte su questa partita», ha osservato Michele Anzaldi, segretario della Vigilanza Rai nella scorsa legislatura.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2023 Riccardo Fucile
CI SONO STATE STAGIONI NELLE QUALI I PARTITI HANNO AVUTO L’INTELLIGENZA DI INDICARE I MIGLIORI PROFESSIONISTI PER LE DIREZIONI DI RETE E PER QUELLE DEI TG: DA UMBERTO ECO A FURIO COLOMBO, DA BIAGI A GUGLIELMI: QUANDO LA SPARTIZIONE ERA “UN FATTO VIRTUOSO”
In Rai serve un presidente indipendente da tutti i partiti (Massimo D’Alema, 2002); ci vuole una Rai più autonoma dai partiti (Piero Fassino, 2003); la Rai deve essere fuori dalle logiche di lottizzazione (Gianni Alemanno, 2006); la Rai non è e non deve diventare proprietà privata di un governo, se no è regime (Guido Crosetto, 2006); la Rai deve essere la casa di tutti e non di chi ha vinto le elezioni, la politica faccia un passo indietro (Dario Franceschini, 2006); bisogna eliminare la lottizzazione in Rai (Clemente Mastella, 2007); bisogna andare nella direzione della fuoriuscita dei partiti dalla Rai (Walter Veltroni, 2008); cambiamo le regole, basta con la Rai occupata dai politici (Antonio Di Pietro, 2008); evitiamo di mettere i partiti dentro la Rai (Matteo Renzi, 2015); per cambiare le cose in Rai bisogna cacciare i partiti (Luigi Di Maio, 2015); la politica resti fuori dalla Rai (Roberto Fico, 2018); per la Rai cerchiamo persone sganciate dalle logiche di partito (Matteo Salvini, 2018); questo è il momento giusto per riformare la Rai e sottrarla alle ingerenze della politica (Giuseppe Conte, 2021); abbiamo la sistematica occupazione della Rai (Giorgia Meloni, 2016). Che magnifica armonia!
Certo, da decenni la più grande emittente di emozioni nazional-popolari del Paese chiamata Rai alimenta gli appetiti della politica e tuttavia ci sono state stagioni nelle quali i partiti hanno avuto l’intelligenza di indicare alcuni tra i migliori professionisti su piazza. Per i ruoli da manager. Per le direzioni di Rete. Per quelle dei Tg.
Ma anche promuovendo giornalisti e personaggi dello spettacolo che sul campo avevano dimostrato le loro qualità.
Il 3 gennaio 1954, quando iniziarono le trasmissioni tv, la Rai era conservatrice e codina e tuttavia coltivava un’idea di grande azienda, tanto è vero che vi entrarono, attraverso il concorso, personalità antitetiche al clericalismo: personalità come Umberto Eco, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Fabiano Fabiani.
Qualche anno dopo, era il 1961, il vecchio Pietro Nenni accostò Amintore Fanfani: «Avrei piacere che venisse in Rai Enzo Biagi…». Fanfani annui e per la prima volta si ruppe in Rai il “monocolore dc”: quel Tg fu così innovativo e scapigliato che si arrivò a parlarne in Consiglio dei ministri. Durò poco, Biagi si dimise ma il dado era tratto. Sotto la direzione energica di Ettore Bernabei si susseguono gli esperimenti di grande tv, a cominciare da Tv 7 di Sergio Zavoli.
Ma la svolta che allarga ancora di più il campo matura nel 1975: viene approvata una riforma della Rai che fa passare il controllo dell’azienda dal governo al Parlamento, con l’istituzione della Commissione di vigilanza. Sembrava il viatico legislativo verso la più larga delle spartizioni e invece ebbe inizio un quindicennio di grande tv perché i principali partiti, Dc, Psi e Pci, è vero che lottizzarono, ma lo fecero, mandando i loro migliori professionisti.
Con programmi che hanno fatto epoca su tutte e tre le reti. Tocca anche al Pci giocare le sue carte e dal 1987 lo fa, contribuendo a produrre cultura nazional-popolare di alto livello. Col Tg3 guidato da Alessandro Curzi e con Rai3, dove un intellettuale «colto» anche di tv come Angelo Guglielmi incoraggiò la nascita di trasmissioni apripista come Samarcanda, Chi l’ha visto?, Telefono giallo di Corrado Augias. Ha spiegato anni dopo Enrico Menduni, allora nel Cda per il Pci: «Noi – e anche gli altri – allora sceglievamo i professionisti migliori perché tutti sapevano di dover agire in un ambiente competitivo. E la spartizione divenne, a suo modo, un fatto virtuoso».
Marco Follini, nella seconda metà degli anni Ottanta membro del Cda per la Dc, ricorda: «La lottizzazione era una scienza esatta ma la politica attraeva le energie migliori. La Piovra era una fiction anti-Dc o il massimo sforzo civico nel quale potevano riconoscersi gli elettori-spettatori dc più avvertiti?».
Negli anni della Seconda Repubblica e sino ai giorni nostri l’altalena tra lottizzazione “virtuosa” e “predatoria” ha seguito alti e bassi, ma da qualche giorno i rumors del toto-nomine sembrano indicare un paradosso: la difesa di alcune delle testate premiate dagli ascolti (Tg3 e Radio3 in primis) non sono opera della maggioranza ma del Pd, mentre il resto dell’azienda sembra prepararsi ad una lottizzazione con le parvenze dell'”occupazione”.
(da La Stampa)
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Maggio 16th, 2023 Riccardo Fucile
“PUO’ AUMENTARE LE DISEGUAGLIANZE” (E INFATTI QUESTO E’ LO SCOPO)
Spunta un altro ostacolo nel percorso di riforma per introdurre, nell’ordinamento italiano, un’autonomia differenziata che sposti l’equilibrio delle competenze tra Stato e Regioni verso queste ultime.
È una delle battaglie fondative della Lega che, con una larga maggioranza a disposizione e il dicastero per gli Affari regionali assegnato al suo ministro, Roberto Calderoli, ha puntato sull’attuazione dell’autonomia nella legislatura in corso.
Adesso, oltre all’opposizione, è anche un ufficio tecnico di Palazzo Madama a porre delle riserve.
Il Servizio del bilancio del Senato ha elaborato uno studio che rivela come il ddl Autonomia, se vedesse la luce, potrebbe causare un aggravio per le casse dello Stato e portare a una disparità nei Livelli essenziali delle prestazioni, i Lep.
Il dubbio è che la riforma possa ledere il «nucleo invalicabile di quei diritti civili e sociali», garantiti appunto dai Lep, i quali «devono essere assicurati su tutto il territorio nazionale, in modo da erogare a tutti i cittadini i servizi fondamentali, dalla sanità all’istruzione». Il report dell’ufficio tecnico viene rilanciato sulla pagina di Palazzo Madama su Linkedin. Il titolo del post è eloquente e potrebbe aprire un altro fronte di polemica, vista anche la sensibilità della maggioranza su questo tema: «Il costo dell’autonomia differenziata».
Sul social, l’account di Palazzo Madama segnala che il Servizio del bilancio ha «rilevato alcune criticità» nel provvedimento. Ad esempio: «Nel caso del trasferimento alle Regioni di un consistente numero di funzioni oggi svolte dallo Stato – e delle relative risorse umane, strumentali e finanziarie -, ci sarebbe una forte crescita del bilancio regionale ed un ridimensionamento di quello statale, col rischio di non riuscire a conservare i livelli essenziali delle prestazioni presso le Regioni non differenziate. Le Regioni più povere, oppure quelle con bassi livelli di tributi erariali maturati nel proprio territorio, potrebbero avere maggiori difficoltà a finanziare, e dunque ad acquisire, le funzioni aggiuntive. E il trasferimento delle nuove funzioni amministrative a comuni, province e città metropolitane da parte delle Regioni differenziate potrebbe far venir meno il conseguimento di economie di scala, dovuto alla presenza dei costi fissi indivisibili legati all’erogazione dei servizi la cui incidenza aumenta al diminuire della popolazione».
Varato lo scorso febbraio in Consiglio dei ministri, tra le polemiche di alcuni presidenti di Regione che non si sono sentiti coinvolti sulla formulazione del testo, il ddl Autonomia è stato incardinato, il 3 maggio, nella commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. I relatori sono il senatore delle Lega Paolo Tosato e il collega di Fratelli d’Italia Costanzo Della Porta. Selezionati i soggetti da ascoltare in audizione, il 9 maggio si è insediato il Clep, il Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni sui diritti civili e sociali: un gruppo di 61 esperti presieduto dal professor Sabino Cassese.
Dopo la diffusione della notizia sugli organi di stampa, il Senato ha eliminato il dossier dal suo sito. «La pagina richiesta non risulta presente nel sito», si legge una volta cliccata la url che l’account social di Palazzo Madama linka alla fine del suo post.
(da Open)
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Maggio 16th, 2023 Riccardo Fucile
SI SCATENANO MEME E PRESE IN GIRO SUI SOCIAL DOPO LA SUA PUBBLICAZIONE
L’accoglienza del nuovo logo del Ministero dell’istruzione e del Merito guidato da Giuseppe Valditara non sembra proprio delle più entusiaste, con il giudizio più morbido che lo definisce «orribile».
Almeno sui social, dove inevitabilmente si sono scatenati i commenti ironici per quel nuovo simbolo che per quel qualcuno ha un vago aspetto “nostalgico”.
C’è stato infatti chi ha storto il naso per quelle due emme ben in evidenza che rischierebbero di evocare una grafica da Ventennio e c’è chi al posto di quel tricolore al centro ha rivisto un richiamo alla fiamma del Msi, presente anche nel logo di Fratelli d’Italia.
Le analogie però si sprecano e tutte portano a situazioni ben lontane dall’area istituzionale: per parecchi quel logo sembra più un fantasma, fino a scomodare anche una citazione di Carl Marx.
Ma non manca chi vede nel nuovo simbolo del Mim un ottimo spunto per una marca di latticini, con quel bianco che si staglia sullo sfondo azzurro. Colori appunti che fanno sospettare ad altri che dietro quella grafica si possa nascondere un tifoso napoletano.
(da Open)
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Maggio 16th, 2023 Riccardo Fucile
TUTTI GLI HANNO CHIESTO CONTO DELLA MANCATA RATIFICA DEL FONDO SALVA STATI, FACENDOGLI CAPIRE CHE ENTRO OTTOBRE L’ITER DOVRÀ “IMPERATIVAMENTE” CONCLUDERSI. MA IL SEMOLINO DELLA LEGA HA FATTO PIPPA: “NON SIAMO ANCORA PRONTI”… SE L’ITALIA NON FIRMA, L’UE CHIUDERÀ I RUBINETTI: ANCHE GENTILONI HA PERSO LA PAZIENZA
Dopo settimane di non detti, l’elefante si materializza nella stanza a metà pomeriggio. Quando Giancarlo Giorgetti prende la parola al tavolo dell’Eurogruppo, è per ammettere esplicitamente di non poter garantire la ratifica della riforma del Meccanismo europeo di Stabilità. Dopo più di quattro anni di faticosi negoziati, l’Italia è l’unico Paese della zona euro a non averlo ancora fatto.
Finché ha potuto, Giorgetti, d’accordo con Giorgia Meloni, ha minimizzato il problema. La crisi iniziata negli Stati Uniti e il quasi fallimento di Credit Suisse ora costringono Giorgetti ad attraversare la strettoia: da un lato gli impegni europei, dall’altra una maggioranza che al solo sentir l’acronimo voterebbe no.
Il problema è che i ministri delle Finanze dell’Eurozona non si accontentano più delle generiche rassicurazioni del collega italiano. Vogliono che il ministro porti al tavolo un percorso chiaro, con tempi e modi. Hanno fatto capire esplicitamente che l’iter dovrà concludersi imperativamente entro ottobre, al massimo novembre. Diversamente da gennaio le banche dell’Eurozona non avranno una rete di sicurezza finanziaria sufficiente per fronteggiare eventuali crisi
La situazione somiglia sempre più a una trattativa con un gruppo di sequestratori: per liberare l’ostaggio, i sequestratori vogliono ottenere «prima» la contropartita richiesta. Dalla parte opposta, però, il discorso che viene fatto è esattamente opposto: se liberate l’ostaggio, allora «dopo» andremo incontro alle vostre richieste. E soprattutto «nessuno si farà del male». Inutile dire che in questo contesto il governo italiano interpreta il ruolo dei sequestratori. La ratifica della riforma del Mes è l’ostaggio. Le contropartite sono invece le richieste italiane sulla riforma del Patto di Stabilità, sulla garanzia europea per i depositi bancari (Edis) e su un’eventuale e ulteriore trasformazione dello stesso Mes.
Per ora c’è uno stallo e tutti rischiano di farsi male. La conta dei danni è comunque destinata a essere sbilanciata. Se l’ostaggio del Mes non verrà liberato, l’intera area euro si ritroverà senza un’adeguata rete finanziaria necessaria a far fronte a eventuali crisi bancarie.
L’Italia rischia di pagare un costo politico più elevato di altri perché a quel punto diventerebbe molto più difficile ottenere progressi favorevoli nei dossier oggetto della trattativa. […] C’è di più: fin qui, grazie anche alla mediazione del commissario Paolo Gentiloni, il traccheggiamento italiano sul Mes non ha inciso nella complicata trattativa sul Piano nazionale di ripresa e resilienza, e non ha fatto venir meno la pazienza di Bruxelles per gli enormi ritardi. Con uno stallo senza via d’uscita sul Mes, il governo Meloni rischia di trovarsi davanti un interlocutore di umore sempre più nero su qualunque dossier.
Nel giorno dell’ennesimo pressing dell’Eurogruppo sulla mancata ratifica della riforma del Mes, che il ministro Giancarlo Giorgetti ha cercato di respingere dicendo che «il Parlamento non è ancora pronto», arrivano due notizie per il governo. Quella buona, come ha evidenziato Paolo Gentiloni, è che quest’anno l’Italia crescerà più di Francia e Germania (+1,2%). «Credo non avvenisse da tempo», ha ricordato il commissario.
La cattiva è che dal 2024 l’Italia tornerà in maglia nera nella classifica europea del Pil con un dato che non andrà oltre l’1,1%: secondo le previsioni economiche della Commissione europea, l’anno prossimo il Pil dell’Eurozona crescerà dell’1,6%, mentre quello dell’Ue dell’1,7%. Nessuno farà peggio.
I ministri delle Finanze hanno discusso della situazione dell’Eurozona, ma poi si sono concentrati sul capitolo legato all’unione bancaria. Ed è qui che si è aperta, nuovamente, la questione della mancata ratifica del Mes da parte dell’Italia.
Giancarlo Giorgetti è stato chiamato a fornire chiarimenti sulla situazione: il ministro si è detto «consapevole dell’importanza di completare il processo di ratifica», ma ha aggiunto che «di fatto e probabilmente per ragioni storiche, la nostra sensazione è che il Parlamento italiano non sia ancora pronto per completare la ratifica».
Donohoe, che nelle ultime settimane ha intensificato il pressing sul collega italiano, ha annuito: «Siamo tutti consapevoli del fatto che si tratta di un argomento delicato e molto sensibile all’interno del Parlamento italiano», ma «questo trattato riguarda anche il modo in cui possiamo rafforzare la sicurezza dell’economia».
(da La Stampa)
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Maggio 16th, 2023 Riccardo Fucile
NEL BREVE TERMINE NON VERRA’ RIMOSSO PERCHE’ PUTIN NON PUO’ PERMETTERSELO
Guerra di potere al Cremlino: è improbabile che le accuse al capo della milizia Wagner di aver indicato alle forze ucraine posizioni delle truppe russe da bombardare inducano il Cremlino a rimuovere Yevgeny Prigozhin nel breve termine, ma possono contribuire agli sforzi per screditarlo.
Lo scrive il think tank statunitense Isw (Institute fo the study of war) nel suo ultimo aggiornamento sulla situazione in Ucraina.
«Il Cremlino probabilmente sospetta o è a conoscenza delle comunicazioni di Prigozhin con l’intelligence ucraina e probabilmente non è stato colto di sorpresa dalle notizie pubblicate dal Washington Post o dai documenti trapelati dell’intelligence statunitense», scrive l’Isw, «il Cremlino sta probabilmente preparando dei meccanismi per screditare Prigozhin come traditore.
Fonti anonime del Cremlino hanno rivelato che l’amministrazione presidenziale russa sta preparando un’operazione di informazione per screditare pubblicamente Prigozhin, ma hanno fatto notare che è improbabile che il Cremlino minacci Prigozhin mentre le forze Wagner sono in prima linea».
Gli analisti del think tank sottolineano che Prigozhin comanda le forze Wagner nel Donbass e la sua rimozione interromperebbe le linee russe a Bakhmut, un rischio che Putin difficilmente correrà.
Inoltre, il Cremlino non è in grado di rimuovere e sostituire pubblicamente Prigozhin come capo de facto della Wagner, perché quest’ultima è una società indipendente e Prigozhin non occupa alcuna posizione ufficiale nel governo russo. Rimuovere Prigozhin dal suo controllo su Wagner implicherebbe la dimostrazione del controllo diretto da parte del Cremlino sul gruppo di mercenari da cui Putin ha cercato di mantenere una distanza formale.
(da Globalist)
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Maggio 16th, 2023 Riccardo Fucile
MULTATA “PER AVER SCREDITATO L’ESERCITO RUSSO”
Ekaterina è mamma di quattro figli, tutti piccoli, cresciuti senza il papà. Ekaterina è sempre stata contro ogni guerra, una non violenta. Ed è rimasta tale e quale anche quando chi comanda il suo Paese ha deciso di invadere un Paese fratello, l’Ucraina.
Ekaterina ha voluto ripetere questo suo no alla guerra, per questo ha affisso manifesti in diversi angoli della sua città:”No alla guerra” e “Non uccidere”.
Manifesti e slogan che non sono passati inosservati, e così Ekaterina è stata portata davanti ad un magistrato. E il tribunale della città di Petrozavodsk ha multato Ekaterina Kukharskaya trovandola colpevole di “screditare” l’esercito russo. Questa piccola storia è riportata da “Sever.Realii”.
Il verbale di polizia era stato redatto all’inizio di marzo. Come prove del reato, quei manifesti in giro per la città con le parole “No alla guerra”, “Non uccidere” e “Non puoi uccidere le persone”.
Ekaterina Kukharskaya ha spiegato che lo ha fatto per il rifiuto personale di qualsiasi guerra, perché lei aderisce al pensiero della non violenza, lei non voleva screditare nessuno.
“OVD-Info” ha notato come lo stesso tribunale abbia imposto una multa assai mite, costringendo Ekaterina a pagare una multa ma con onere che è metà del limite minimo per questi reati. Dopo la sentenza, Ekaterina Kukharskaya è tornata a casa dai suoi quattro figli, ad allevarli, da sola, tra mille difficoltà economiche.
(da Globalist)
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