Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile
VOCI SU UNA SUA CANDIDATURA ALLE EUROPEE: “DECIDE TUTTO LEI”… LA “GRANDE FAMIGLIA”
Ci sono stati due momenti, negli ultimi mesi, in cui i dirigenti di Fratelli d’Italia hanno capito che Arianna Meloni, sorella maggiore di Giorgia, era diventata la vera “capa” del partito.
Il primo risale al 13 febbraio quando, nel salone delle Fontane all’Eur, a risultati delle Regionali acquisiti, Arianna si apparta con il marito Francesco Lollobrigida e i dirigenti romani di Fratelli d’Italia per contare quanti consiglieri regionali di fede meloniana (e non rampelliana) sono stati eletti.
La sorella della premier riceve telefonate da ogni sezione in Regione, conta le preferenze. “Ne abbiamo presi 1, 2, 3…”, dice riferendosi ai seggi alla Pisana. Anche la scelta del candidato eletto presidente, Francesco Rocca, era stata sua.
Il secondo momento chiave arriva circa due mesi dopo, a inizio aprile. Sono i giorni delle febbrili trattative per le nomine dei manager di Stato.
Il tavolo delle trattative è presieduto da Giovanbattista Fazzolari (fedelissimo sottosegretario della premier) e ci sono i vertici del governo: per la Lega Matteo Salvini e il suo ex capo di gabinetto Andrea Paganella (oggi senatore), per Forza Italia Antonio Tajani e Gianni Letta. Ma in diverse occasioni i funzionari di Palazzi Chigi notano anche un’altra presenza: quella di Arianna Meloni.
Vaglia i curriculum per la sorella, partecipa alle riunioni. E alla fine riesce a piazzare il grande colpo della tornata di nomine meloniane: Giuseppina Di Foggia, come amministratrice delegata di Terna. La scelta rivendicata più volte dalla premier in quanto “prima donna al vertice di un’azienda di Stato”.
Negli ultimi mesi il potere di Arianna Meloni è diventato tanto più esteso, quanto discreto. Oggi non ha un ruolo formale nel partito, eppure comanda tutto. Perché la sorella Giorgia ha il terrore che qualcuno dei suoi collaboratori cada in uno scandalo – gli “impicci”, li chiamano a Palazzo Chigi – e questa paura si riflette nella fiducia riposta in pochissime persone. Si contano sulle dita di una mano. Tra queste, c’è Arianna. “Io e te come Frodo e Sam sul monte Fato” aveva scritto su Facebook la notte delle elezioni del 25 settembre.
Così la premier, alle prese con il bilancio dello Stato, i vertici internazionali e le beghe nel governo, ha dovuto delegare a qualcun altro la gestione di Fratelli d’Italia. E ha scelto Arianna.
La sorella della premier passa le sue giornate in via della Scrofa. Con o senza una nomina formale – di cui si parla da tempo – Arianna si occupa di tesseramento: è lì che sta il vero potere. È lei a decidere chi può entrare o meno nel partito, se aprire e dove una nuova sezione e che decide i segretari sui territori. Il commissariamento del partito romano è stata una sua scelta. I grandi eventi – come la kermesse di Milano del maggio 2022 – li organizza lei.
Poi ci sono le liste. A quelle provvede Lollobrigida, potente ministro dell’Agricoltura, già capogruppo alla Camera. Ma anche la moglie Arianna. Alle ultime Regionali in Lazio e Lombardia hanno deciso loro. E hanno anche iniziato a scegliere le candidature per le Europee del 2024, dove serviranno le preferenze, e tante. Gira voce che Meloni voglia addirittura candidare la sorella come capolista nel Centro Italia ma la notizia non trova conferme nel partito. Arianna, si dice, preferisce stare nel backstage e occuparsi del potere che non sta sotto i riflettori. Per esempio, le nomine: oltre ai manager di Stato si racconta che la sorella della premier si sia occupata anche della Rai. Leggendo i curriculum e incontrando giornalisti e nuovi volti meloniani che occuperanno la televisione pubblica.
L’altro capo del partito è Giovanni Donzelli, responsabile dell’Organizzazione. Ma Meloni sa che non può affidare solo al deputato toscano tutta Fratelli d’Italia. Non solo: qualcosa tra Donzelli e la premier – e la “Fiamma Magica” – si è rotto dopo la rivelazione da parte di Donzelli di informazioni segrete su Alfredo Cospito in Parlamento. Vicenda che ha portato a un’inchiesta della procura di Roma in cui è indagato anche un amico del deputato, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. La decisione di affidare le questioni più rilevanti del partito ad Arianna è anche un modo per “controllare” l’operato di Donzelli, dicono due dirigenti di FdI. Donzelli quindi si occupa del “lavoro sporco” nel partito, Arianna dei dossier di maggiore peso. Tessere, nomine, liste. Perché “ormai decide tutto lei”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile
SERVE PER FAR VOTARE UN 4% DI ALLOCCHI CHE PENSANO ANCORA CHE ESISTA UN COLLEGAMENTO TRA UN MOVIMENTO “SOCIALE” E UN PARTITO ASOCIALE AL SERVIZIO DI REAZIONARI, LOBBY. EVASORI E XENOFOBI
“Il simbolo è scelto dagli iscritti, con buona pace di tutti quelli che in Italia, pur essendo a noi ostili, vorrebbero insegnarci come dovremmo fare politica”: Giovanni Donzelli, dall’alto del suo ruolo di responsabilità all’interno del partito, allontana l’ipotesi che Fratelli d’Italia rinunci alla fiamma tricolore all’interno del logo.
“Nessun iscritto di Fratelli d’Italia ha richiesto di modificare il simbolo – ha ribadito – ipotesi che appassiona solo la sinistra italiana. E noi siamo poco inclini ad assecondare i desiderata della sinistra”.
L’ipotesi era sorta per agevolare un’alleanza con i Popolari europei in vista delle elezioni comunitarie del prossimo anno: se Meloni decidesse di rinunciare al simbolo che richiama l’Msi, Manfred Weber – leader dei Popolari all’Europarlamento – lavorerebbe all’accordo Popolari-Conservatori, ribaltando l’attuale assetto. Ma al momento non c’è “nessuna trattativa”, conferma il vicepremier Antonio Tajani. Come confermato dal presidente del Senato Ignazio La Russa, la fiamma ha un valore anche in termini elettorali. “Il 3-4 per cento”, calcola Antonio Noto, direttore di Noto sondaggi, citato da Repubblica.
“Oggi gli elettori di destra di Fratelli d’Italia rappresentano circa il 7 per cento – spiega – l’altro venti per cento che oggi vota per Giorgia Meloni non si autodefinisce di destra. È un elettorato più composito, senza nostalgie. La Fiamma, quindi, non influisce sul consenso”.
La fiamma fu decisa nel febbraio 2014, quando attraverso le primarie si decise quale sarebbe stato il logo di FdI: il 77% votò a favore.
Anche l’inno ufficiale del Msi conteneva un riferimento al simbolo: “Noi saremo la fiamma d’Italia/il germoglio di un’alba trionfale/la valanga impetuosa che sale/italiani coraggio, con noi!”. “La Fiamma” fu anche il nome con il quale per tutta la sua storia venne chiamato il Movimento sociale italiano.
(da agenzie)
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Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile
I TECNICI DEL TESORO, GLI UNICI CHE SANNO DOVE METTERE LE MANI SUI PROGETTI EUROPEI, SI SONO INDISPETTITI PER LO “SCIPPO” E MOLTI ADDETTI AL PIANO DI RIPRESA E RESILIENZA SONO SCAPPATI
Se Bruxelles ha fretta di vedere le modifiche dell’Italia al Piano nazionale di ripresa e resilienza, non è solo perché sul successo di Roma Ursula von der Leyen si gioca una piccola parte del proprio futuro.
Dietro c’è soprattutto una ragione pratica: i garanti delle risorse del Pnrr sono proprio i governi europei, i quali dovranno necessariamente approvare le proposte di Roma dopo che l’avrà fatto la Commissione stessa; la procedura prenderà mesi e, se si aspetta ancora, c’è il rischio che resti poco tempo per realizzare gli investimenti entro la scadenza del 2026.
Intanto però in Italia si stanno facendo sentire tre fattori che portano il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, a procrastinare. Il primo è legato agli equilibri nel governo. Chi conosce bene l’impianto del Pnrr stima che i fondi potenzialmente soggetti a un cambio di destinazione pesino, al massimo, fra il 12% e il 15% dei 191,5 miliardi destinati all’Italia. Dunque fra venti e trenta miliardi al più, il che sarebbe già moltissimo.
Ma per individuare gli investimenti da tagliare o da spostare, Fitto si è rivolto a coloro che ne detengono i segreti: le diverse amministrazioni ministeriali . Qui è scattato l’istinto di autoconservazione, perché molti ministeri sono tutt’altro che entusiasti di fare trasparenza. Nessuno ha fretta di rischiare di vedersi privare di fondi, solo perché alcuni cantieri non sono al passo.
Ha iniziato a farsi sentire a questo punto il secondo fattore di ritardo: il freddo sceso — più che fra i politici — fra gli uffici del ministero dell’Economia e di Palazzo Chigi
Fitto e la premier Giorgia Meloni hanno voluto lo spostamento alla presidenza del Consiglio della gestione del Pnrr e dei fondi europei tradizionali.
Vista dal ministero dell’Economia, è stata l’amputazione di poteri di gestione di risorse per quasi trecento miliardi di euro. Questa svolta e le stesse riserve di Fitto hanno messo ai margini la Ragioneria dello Stato, che è parte del ministero dell’Economia.
Negli ultimi tempi hanno lasciato il ministero oltre venti addetti al Pnrr, quindi la capacità di controllo finanziario del Piano ne sta soffrendo. È come se, sul Recovery, il principale centro di know how finanziario del governo si fosse messo alla finestra in attesa degli errori altrui: «Se qualcuno vuole le nostre competenze — dice una voce dall’interno — le prende e ci fa ciò che ritiene».
Si innesca qui la terza ragione dei ritardi italiani: l’esigenza di integrare la riscrittura del Pnrr con i piani di RePowerEu, cioè i progetti di autonomia energetica sostenuti da Bruxelles. Meloni e Fitto hanno chiesto piani alle grandi imprese partecipate — Enel, Eni, Snam e Terna — e queste li hanno presentati. […]. Per ora il costo […] eccede la riserva a disposizione per RePowerEu, che include 2,7 miliardi di nuovi trasferimenti a fondo perduto da Bruxelles e circa tre miliardi dai fondi europei tradizionali.
Il resto dunque potrebbe dover essere finanziato con le risorse che, potenzialmente, si stanno per liberare con le modifiche al Pnrr. Impossibile dunque fare una cosa senza l’altra.
(da Corriere della Sera)
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Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile
DAI MAGISTRATI A BANKITALIA ALLA UE, I LIMITI AGLI ABUSI SONO VISSUTI COME LACCI
Sono tempi duri per le democrazie pluraliste. La polarizzazione della dialettica politica rende ancora più difficile che in passato per le maggioranze di governo accettare quei limiti al potere che di tali democrazie costituiscono l’essenza.
Limiti che servono ad evitare gli abusi dei governanti e le derive autoritarie: in definitiva, a proteggere i diritti di tutti, inclusi quelli delle minoranze, e lo stesso carattere pluralista dell’ordinamento.
Ne è una riprova il dibattito italiano di questi ultimi mesi: quante volte abbiamo sentito dichiarazioni di esponenti della maggioranza politica volte a criticare pesantemente gli interventi delle istituzioni di garanzia, e finanche a proporre riforme per circoscrivere i poteri di vigilanza di queste ultime. L’elenco sarebbe lungo: dalle reazioni ai rilievi dell’ufficio parlamentare di bilancio sulla riforma tributaria a quelle alle esternazioni del presidente dell’autorità anticorruzione sul codice degli appalti, dalle reazioni al rapporto del servizio bilancio del Senato sugli effetti dell’autonomia differenziata a quelle, recentissime, agli interventi della Corte dei conti sull’attuazione del Pnrr.
Reazioni che rievocano attacchi più o meno espliciti, in un passato poco lontano, a Corte costituzionale, Banca d’Italia, Istat.
La tendenza di chi ha vinto le elezioni a cercare di svincolarsi dai limiti giuridici, spesso vissuti come inutili lacci e lacciuoli, che impediscono agli eletti dal popolo di portare avanti il proprio programma politico, è sempre in agguato. Già alla fine del 1700 lo avevano sottolineato i fondatori della democrazia statunitense: si potrebbero ricordare le celebri parole di Madison (Federalist n. 51), laddove diceva che, se gli uomini fossero angeli, non ci sarebbe bisogno di un «governo limitato».
Ma siccome non è così, ecco allora la necessità di checks and balances. Una necessità divenuta ancora più evidente nel corso del 1900, quando i compiti dello Stato si sono dilatati enormemente per rispondere all’esigenza di assicurare la protezione dei diritti sociali. E quando si sono toccate drammaticamente con mano le conseguenze di un potere illimitato, autogiustificato dalla investitura popolare, come hanno mostrato i totalitarismi del ventesimo secolo, fonti di immani tragedie e di violazioni inusitate della dignità umana.
Proprio per questo, il principio della separazione dei poteri, cardine dello Stato di diritto fin dal suo sorgere, nell’epoca delle rivoluzioni americana e francese, è venuto assumendo a partire dalle costituzioni del secondo dopoguerra una nuova declinazione: agli organi della decisione politica, che traggono la loro legittimazione dal popolo, attraverso le elezioni, si affiancano istituzioni definite “non maggioritarie”, ovvero sottratte al controllo delle maggioranze politiche, composte da esperti e chiamate ad adottare decisioni motivate.
Tra queste, accanto ai giudici e alle corti costituzionali, sono andate emergendo nelle costituzioni più recenti (a partire da quella del Sudafrica post-apartheid, del 1996) numerose autorità indipendenti, chiamate a vigilare sull’azione di governo in molteplici campi: banche centrali, commissioni elettorali, ombudsman, autorità anticorruzione, autorità di garanzia delle comunicazioni, uffici di bilancio, istituti di statistica, controllori dei conti.
La scelta di delegare taluni poteri a istituzioni indipendenti di questo tipo risponde al bisogno di garantire trasparenza all’operato dei poteri dello Stato e di sottrarre determinati compiti al potere politico, nell’intento di assicurarne una gestione neutrale. Se la loro costituzionalizzazione è avvenuta soprattutto nelle nuove democrazie, ove tali autorità sono state viste come strumenti di consolidamento e protezione delle conquiste ottenute con la transizione, esse sono state via via introdotte anche nelle democrazie consolidate. L’esigenza di affiancare al controllo democratico, svolto dalle opposizioni politiche e dagli elettori, altre forme di controllo sull’esercizio del potere, specie in campi altamente tecnici e complessi, è sempre più diffusa. È infatti assai difficile che i cittadini, o le stesse opposizioni, e persino i mass media, possano disporre di informazioni adeguate sull’operato del governo, se non esistono autorità indipendenti che siano in grado di fornirle loro.
Non è un caso che, laddove sono in atto processi di regressione democratica (particolarmente evidente è il caso dell’Ungheria), tali istituzioni siano sotto attacco, proprio come il potere giudiziario e le giurisdizioni costituzionali, attraverso riforme volte a depotenziarne i poteri o a minarne l’indipendenza.
Se la maturità di una democrazia si misura attraverso la forza e il radicamento del principio di lealtà istituzionale (quella «leale collaborazione» della quale ha parlato nei giorni scorsi Donatella Stasio su questo giornale), il rispetto dell’indipendenza e dell’operato delle autorità di garanzia da parte delle maggioranze governative costituisce oggi un terreno di prova al quale la democrazia italiana non può sottrarsi.
(da agenzie)
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Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile
2 MILIARDI DI AIUTI ANCORA BLOCCATI, ALTRO CHE EMERGENZA
Mentre il governo di Giorgia Meloni litiga sul nome del commissario alla Ricostruzione, non riesce a stanziare nemmeno i primi fondi previsti per l’emergenza alluvione in Emilia-Romagna. L’annuncio sui 2 miliardi stanziati era arrivato martedì direttamente dalla premier dopo il Consiglio dei ministri che aveva approvato il decreto per rispondere all’emergenza. Ma da allora il decreto è sparito dai radar. Mancano le coperture ed è in fase di riscrittura a Palazzo Chigi. Quindi non è ancora arrivato al Quirinale per la firma del Presidente della Repubblica e non è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Questo dovrebbe succedere in settimana, dicono da Palazzo Chigi. Intanto i fondi non arrivano.
Il percorso del decreto è stato piuttosto accidentato fin dall’inizio perché il governo è stato costretto a trovare i soldi per le popolazioni dell’Emilia-Romagna senza ricorrere a uno scostamento di bilancio. I due miliardi riguardano la Cassa integrazione per i dipendenti (600 milioni), un sostegno una tantum fino a 3.000 euro per gli autonomi (300 milioni), sostegno alle imprese dell’export (700 milioni) e il rinvio degli obblighi fiscali. Però le coperture latitano: l’estrazione del Lotto, la vendita dei beni confiscati e l’aumento dei biglietti di 1 euro dei musei non sembrano bastare. Il Tesoro sta facendo le verifiche. A ritardare la pubblicazione del decreto anche la riscrittura di alcuni articoli che riguardano la sospensione dei tributi nelle zone colpite e per gli studenti e la cassa integrazione per i lavoratori agricoli.
A rallentare l’entrata in vigore nella norma è anche una decisione politica: dopo il richiamo di Mattarella ai presidenti delle Camere sull’abuso dei decreti omnibus, il governo sta valutando di stralciare la norma del decreto alluvione che semplifica la capacità di rigassificazione a livello nazionale con la possibilità di spostare le navi.
Un ritardo che stride con la rapidità richiesta per affrontare l’emergenza: Meloni ha convocato il Consiglio dei ministri una settimana dopo l’alluvione del 16-17 maggio e passerà, se va bene, almeno un’altra settimana perché il decreto venga pubblicato in Gazzetta. Così nel frattempo il Presidente della Regione Stefano Bonaccini, in quanto commissario all’emergenza, intanto ha già firmato un decreto per indirizzare i primi 10 milioni stanziati dal Cdm il 4 maggio per i costi di soccorso e assistenza delle popolazioni colpite dell’alluvione del 2-3 maggio.
Continua anche lo scontro politico nel governo sul nome del commissario alla Ricostruzione. Ieri Meloni, in un’intervista al Messaggero, ha confermato la volontà di far passare tutta la gestione sotto Palazzo Chigi come scritto nelle bozze del decreto: “Dobbiamo cambiare l’approccio e pensare a un modello completamente nuovo”. L’idea di Palazzo Chigi è quella di nominare un tecnico sul modello di Figliuolo: sul tavolo della premier c’è anche il nome dell’ex commissario al covid, come quelli di Fabrizio Curcio, Guido Bertolaso e Nicola Dell’Acqua. Salvini sarebbe d’accordo su Figliuolo: “Il nome deve arrivare il prima possibile – ha detto ieri il leghista smentendo la volontà della premier di prendere tempo – Figliuolo sarebbe un nome degnissimo, il commissario va scelto in base alle competenze e non alle simpatie politiche”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile
IL GOVERNO IN ORDINE SPARSO, E’ UN TUTTO CONTRO TUTTI
C’è chi dice no, cantava in un suo celebre successo Vasco Rossi. Un ritornello che al governo viene ripetuto sul Pnrr da alcuni ministro. C’è infatti chi dice che sarà attuato senza mandare indietro nemmeno un euro a Bruxelles per realizzazione tutto quanto è stato promesso, magari con una revisione rispetto al programma iniziale.
E c’è chi invece sostiene l’esatto contrario: che alla fine bisognerà rispedire al mittente una parte delle risorse, perché proprio non si riesce a centrare i target di ogni progetto. A oggi la certezza è il ritardo della terza rata e le nubi che si addensano all’orizzonte per la quarta, su cui il rendiconto è previsto a fine giugno. Una partita a ping pong, o a padel visti i tempi, che non vede contrapposti maggioranza e opposizione, come si potrebbe pensare. E sarebbe anche naturale.
È il governo che smentisce sé stesso per bocca dei ministri con posizioni opposte tra big degli stessi partiti. Così dalla disciplina del campo di padel il Pnrr diventa un ring di una royal rumble di wrestling, con il medesimo dubbio della disciplina sportiva made in Usa: dove inizia lo scontro vero e dove finisce la recita? Nel gioco delle parti, alcuni ricoprono il ruolo del poliziotto cattivo e altri di quello buono, come nel wrestling.
Ma con il sospetto di affilare insieme le scimitarre propagandistiche contro i nemici, immaginari, che non rendono possibile la realizzazione del Pnrr. Gli indiziati numeri uno i predecessori al governo contro cui viene puntato il dito al primo problema. E sullo sfondo resta sempre la narrazione simil sovranista cara a Meloni e Salvini sul Cerbero dell’Unione europea, un corpaccione sclerotizzato dalla burocrazia e poco flessibile di fronte alle richieste concrete. Alimentando il sospetto che l’inasprimento dei rapporti con Bruxelles sia un obiettivo del centrodestra al governo per spostare la questione sul terreno della propaganda, congeniale alla presidente del Consiglio in vista delle Europee del 2024.
LA SCIENZA DI FITTO
Da qui il gran ballo delle esternazioni inanellate settimana dopo settimana. Per spiegare la mission impossibile del Piano nazionale di ripresa e resilienza, Raffaele Fitto ha fatto ricorso al dogma dell’infallibilità della scienza: «È matematico», anzi «è scientifico» che «alcuni interventi da qui a giugno del 2026 non possono essere realizzati». Era il 29 marzo quando le agenzie battevano le dichiarazioni del ministro del Pnrr, non proprio uno passato di là a prendere un caffè, mentre commentava una relazione della corte dei conti tutt’altro che lusinghiera. La fotografia era quella di una situazione allarmante con un insito appello: “fate presto” o giù di lì.
Ma la sentenza era stata emessa, con accenti inequivocabili, dal ministro del Fitto, la figura che a palazzo Chigi è chiamato a occuparsi dell’attuazione del Pnrr, voluto da Giorgia Meloni in persona. A Fitto è arrivato a stretto giro pure l’inatteso sostegno del capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari che il 3 aprile, a pochi giorni dalla sortita del ministro, ha scandito: «Bisogna valutare se rinunciare a parte dei fondi. È meglio non spendere i soldi che spenderli male». Una lapide con inciso sopra la sigla del Pnrr. A cinque mesi dall’insediamento, il governo Meloni ha dato il segnale di resa: troppo difficile attuare tutto il Recovery plan. Con l’inevitabile scaricabarile su chi c’era prima.
Sempre tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, un altro big di Fdi, il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, se l’era cavata con uno slogan niente male: «Spendere i soldi è giusto, spenderli bene è necessario». Solo che dopo aver compreso l’enormità delle prese di posizione di Fitto e delle bordate di Molinari, si è scatenata l’ordalia della contraddizione, il tutto contro tutti di ministri che rende difficile capire quale sia la situazione reale. O che forse spiega alla perfezione il caos in cui versa l’esecutivo sul dossier più scottante, nonostante gli esercizi di ottimismo o il mantra di rassicurazioni mandato in etere a profusione. Con la consapevolezza che la cortina fumogena può fare gioco per coprire i fallimenti.
LA SCONFESSIONE DI MELONI
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha fatto esercizio di equilibrismo: «Non prendo in considerazione di perdere le risorse, prendo in considerazione l’ipotesi di farlo arrivare a terra in maniera efficace», sconfessando in maniera indiretta il ministro del Pnrr, che è di Fratelli d’Italia. Ma lo stesso spartito è stato eseguito in casa leghista. Matteo Salvini ha detto una cosa opposta rispetto a quella di Molinari, che a Montecitorio presiede i deputati della Lega: «Per quello che riguarda me e l’intero governo è spendere tutti e bene i fondi, soprattutto quelli delle infrastrutture». Altro che rinuncia per votare il rischio che li spendiamo male.
Quella di Salvini sarebbe peraltro un’abiura delle dichiarazioni di Fitto, che siede allo stesso banco nel consiglio dei ministri. Solo che nessuno ha fatto finta di notarlo e si è tirato dritti. Il ministro del Pnrr si è preso un metaforico scappellotto pure dal collega di partito e numero uno al dicastero delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso. Rinuncia ai fondi? Macché. «Il ministro Fitto è stato frainteso e ha detto ben altro», ha affermato di recente Urso, perché «vogliamo utilizzare al meglio le risorse e possiamo farlo». Insomma, la solita categoria “dell’avete capito male” come rifugio peccatorum.
Così che, dopo una serie di metaforici rimproveri a mezzo stampa, lo stesso Fitto ha preso le distanze da se stesso, ricorrendo questa volta a una metafora medica: «Dobbiamo immaginare una terapia utile per dare al paese una soluzione», pur ricordando la necessità di operare una revisione dei progetti.
Ma per un ministro che si ravvede parzialmente, ecco un altro che torna alla carica sulla rinuncia parziale dei fondi. Mentre tutto il governo cercava di rassicurare l’universo mondo, o più prosaicamente mandava messaggi all’Unione europeo, il titolare della Difesa, Guido Crosetto, ha dato ragione al primo Fitto: «Il sistema Italia non è in grado di mettere a terra tutti i progetti del Piano, 200 miliardi in tre anni, bisogna prendere solo le risorse che siamo in grado di spendere». Nel derby Lega-Fdi, si è insinuata Forza Italia, che ha indossato i soliti panni di garanzia nei confronti dell’Ue. L’ultimo a parlare in questa direzione è stato il ministro della Pa, Paolo Zangrillo, al grido di «useremo tutte le risorse», seguendo la scia del coordinazione del nazionale e ministro degli Esteri, Antonio Tajani. «Manterremo tutti gli impegni presi», ha cercato di tranquillizzare sempre.
“PRONTI”, MA NON AL PNRR
E in questa danza intorno al Pnrr, gli occhi si sono concentrati a un certo punto sul sibillino ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti, altro titolato a esprimersi. Ma chi si attendeva un intervento risolutivo ha dovuto ricredersi, perché da par suo il dirigente leghista al comando del Mef ha oscillato tra l’inabissamento e una cauta presa di posizione: «Mi sembra che qualche aggiornamento oggi sia in qualche modo dovuto». E in questo caleidoscopio di contraddizioni e retromarce, è la posizione più realistica di un esecutivo che non riesce a venire a capo dell’attuazione del Piano, avviando la negoziazione con Bruxelles per la cancellazione di alcuni progetti e la realizzazione solo di quelli ritenuti fondamentali. E se non va bene, la colpa è dell’Europa, nelle intenzioni del governo.
Almeno un punto dovrebbe essere chiarito entro fine maggio: Fitto, rispondendo a un question time alla Camera, ha annunciato che a breve sarà inviata la relazione al parlamento sullo stato di attuazione del Pnrr. A quel punto non saranno più possibili bluff, dovranno esserci le informazioni nero su bianco. E per fortuna, perché oggi il quadro è magmatico con il governo che è un coro stonato. Tanto che assume sempre più connotati beffardi lo slogan “Pronti”, sbandierato da Giorgia Meloni in campagna elettorale. Evidentemente, come fanno notare i più maligni, il claim non era evidentemente riferito all’attuazione del Pnrr.
(da Editoriale Domani)
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Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile
COSI’ AUMENTA ANCHE L’INQUINAMENTO
Per rendere la mobilità sostenibile, e dunque ridurre l’inquinamento prodotto dalla congestione del traffico, esiste una sola possibilità: offrire un’alternativa all’auto. Soprattutto in un settore chiave, i treni regionali. Per i milioni di pendolari che ogni mattina si riversano nelle città e devono raggiungere in orario il posto di lavoro, scuola e università, i treni devono essere efficienti e affidabili. A che punto siamo in questa transizione? Sui treni regionali, tra 2009 e 2019, in Campania i passeggeri sono crollati da 400 mila a 250 mila al giorno; tendono a diminuire i 500 mila del Lazio; in Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto sono cresciuti un po’. La Lombardia è un caso particolare: nello stesso decennio i viaggiatori sui regionali erano passati da meno di 600 mila a 820 mila al giorno (trascinando una crescita complessiva nazionale di circa l’1 per cento l’anno). Nel 2022 però sono scesi fra 630/650 mila al giorno, circa 200 mila in meno rispetto al 2019. E attenzione: quel numero si riferisce al trasporto ferroviario di tutta la Lombardia. A confronto, solo a Milano da fuori Comune entrano oltre 700 mila macchine al giorno.
La controrivoluzione
Il dato della Lombardia è rappresentativo: quella sui treni regionali è la porzione della mobilità che in tutto il Paese stenta di più a recuperare i livelli pre-pandemia. I passeggeri erano in tutto 3 milioni al giorno nel 2019: dopo il crollo del 2020, con la ripresa del 2022 sono risaliti a 2,3 milioni (nei primi tre mesi dell’anno c’era ancora qualche limitazione). Ancora il 23 per cento in meno. L’uso dell’auto, invece, è aumentato. L’Italia, dunque, è uscita dal Covid con una sorta di controrivoluzione nella mobilità sostenibile. Dietro a questo numero non c’è solo lo smart working, che ha indubbiamente ridotto una quota di spostamenti, ma questioni più strutturali. Ci sono undicimila chilometri di ferrovie (il 56 per cento) a binario unico. Quasi 6 mila chilometri (il 29 per cento) ancora con treni diesel. Le infrastrutture più «scadenti» riguardano quasi esclusivamente i collegamenti regionali, e soprattutto al Sud. Se dai binari si passa ai treni, il 43 per cento dei quasi 2.800 convogli regionali ha più di 15 anni, con punte di «anzianità» sopra il 70 per cento in Calabria e Campania. Nella quotidianità questo quadro si traduce in una serie di guasti, ritardi e soppressioni che tormentano la massa dolente dei pendolari. Che se devono arrivare puntuali al lavoro, rivalutano l’auto. Ed è proprio quel che è accaduto: una parte di chi aveva ripreso a spostarsi in macchina durante il Covid non sta tornando al treno. Se questa è la conseguenza, le cause sono più antiche.
Il cavallo e l’elefante
Il rapporto «Pendolaria» 2023 di Legambiente mostra che il monte di trasferimenti dallo Stato alle Regioni per il trasporto pubblico s’è ridotto di oltre un miliardo rispetto al 2009 (da 6,2, a 5,1 miliardi nel 2023), con le Regioni stesse che per i servizi ferroviari, in media, spendono meno dello 0,6 per cento del bilancio. Oltre alle province autonome di Trento e Bolzano, l’unica regione che impegna più dell’1% è la Lombardia. Legambiente calcola, inoltre, che tra 2010 e 2020 siano stati costruiti 78 chilometri di ferrovie nazionali e regionali (esclusa l’alta velocità). Nella stessa decade, i chilometri in più di autostrade sono stati 310.
Certo, il sistema ferroviario non è rimasto immobile, ma è cresciuto su due strade: da una parte camminava un elefante, dall’altra galoppava un cavallo. Basta vedere lo sviluppo dell’alta velocità: i passeggeri di Trenitalia sono saliti da 6,5 milioni del 2012 a 47 milioni del 2019; nello stesso periodo quelli di Italo sono passati da 4,5 milioni a 20,1. La flotta dei treni super veloci è quasi raddoppiata. Di fatto c’è quindi una separazione fra i tre mondi delle ferrovie: quello superiore (e redditizio) dell’alta velocità, il mondo di mezzo (gli Intercity) è già serie B, e in fondo quello sommerso dei regionali.
I tre mondi delle ferrovie
Per comprendere quanto siano lontani i tre mondi si può fare un esperimento. Fate conto di trovarvi davanti al tabellone delle partenze, alla stazione di Napoli Centrale, alle 8 del mattino (i dati sono frutto di prove di acquisto di biglietti per il 2 maggio scorso). Mettiamo che dobbiate andare a Roma. Il Frecciarossa parte alle 8.09; alle 9.25 è nella Capitale: 220 chilometri, un’ora e 16 minuti, costo 38,9 euro. Poniamo invece che dobbiate raggiungere Bari: partenza alle 8.12, su un regionale. Non avete scelta. Dovrete scendere a Caserta, cambiare treno, e sarete a Bari alle 12.11. La distanza è maggiore di soli 30 chilometri, ma il viaggio dura 2 ore e 43 minuti di più. In sintesi: Napoli-Roma in un’ora e 16; Napoli-Bari in 3 ore e 59. Ci sarà un risparmio? No. In Economy, il Napoli-Bari costa 43,6 euro, 4,7 euro in più del Frecciarossa per Roma. Esiste almeno un diretto nel corso della giornata? No. E questa è la distanza tra i primi due mondi. Il terzo mondo si vede restando a Napoli: sbarcano i pendolari che per poco più di 40 chilometri, tipo un Nocera Inferiore-Napoli o Sorrento-Napoli, impiegano da un’ora, a un’ora e 20. Quando va bene. Perché i 142 chilometri delle ex linee circumvesuviane sono da anni nella classifica delle peggiori tratte italiane nel rapporto «Pendolaria». Poter contare su un treno (abbastanza) puntuale è decisivo per chi deve raggiungere uffici o scuole. In Lombardia, che pure ha il servizio più esteso d’Italia, a febbraio scorso 9 linee su 42 non hanno rispettato lo standard di affidabilità per numero di treni soppressi e ritardi sopra i 15 minuti.
In 20 anni 7 milioni di auto in più
Definito il quadro dei treni, consideriamo le alternative. Napoli-Bari in autobus costa 12 euro, il viaggio dura 3 ore. Con una decina di euro in più rispetto al treno (35 di benzina e 20 di pedaggio) si arriva a Bari in macchina in 2 ore e mezza. Dunque, autostrada batte ferrovia. E questo è il risultato: rispetto a 20 anni fa, in Italia circolano in più 7 milioni di auto e 2 milioni di moto e motorini. Eccola la controrivoluzione, sta dentro al «19° Rapporto sulla mobilità degli italiani» dell’Isfort: nel 2021 il tasso di motorizzazione è salito a 67,2 veicoli ogni 100 abitanti (66,6 nel 2020). Reggio Calabria, Catania e Firenze hanno più di 70 auto ogni 100 abitanti; Roma, Bologna, Torino, Palermo e Napoli sono sopra 60. A Madrid circolano 48 auto ogni 100 abitanti, a Londra 36, a Berlino 35. E non è solo un fatto di senso civico, ma di investimenti e strategie. I servizi efficienti attraggono passeggeri, quelli scadenti arrancano. Questo valeva già prima, ma la pandemia ha aggravato il divario: sul totale degli spostamenti nelle aree urbane in Italia, nel 2022 l’uso dell’auto è salito al 64 per cento (più 1,5 rispetto al 2019), quello di tutti i trasporti pubblici arriva al 7,6 (-3,2). Le stime sono contenute nell’allegato all’ultimo Documento di economia e finanza del governo. La promessa, e la speranza di una vera trasformazione della mobilità è affidata al Pnrr.
Speranza Pnrr
Tra investimenti già avviati e Piano europeo in totale ci sono circa 53 miliardi dedicati a infrastrutture e trasporti ferroviari. La maggior parte (38) andrà all’alta velocità: quasi 5 miliardi per Napoli-Bari, Palermo-Catania e Salerno-Reggio; poi i grandi collegamenti con i corridoi del Nord Europa.
Sono previsti anche quasi 10 miliardi per le linee secondarie: 700 milioni per le stazioni al Sud, 800 per nuovi treni, 2,5 miliardi per le infrastrutture. Soldi da spendere entro il 2026. Un tempo incompatibile con i nostri processi amministrativi che devono essere riformati, ma ancora nessuno ci ha messo mano. Se continuiamo a dilungare i tempi significa che buona parte di questi fondi verranno depennati.
Milena Gabanelli e Gianni Santucci
(da Il Cortriere della Sera)
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Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile
SE NE VANNO AL RITMO DI DUE A SETTIMANA… ASSUNTI PER CONCORSO NEL GENNAIO 2022, SI DIMETTONO PERCHÉ SONO RIMASTI PRECARI (CON UNO STIPENDIO DI 50 MILA EURO LORDI L’ANNO). FITTO HA DETTO CHE UN DECRETO LI HA STABILIZZATI, MA IN REALTA’ I MINISTERI NON HANNO I FONDI PER I CONTRATTI
«Eravamo in 500, ora siamo sotto i 400 e se ne vanno almeno due a settimana». I super esperti del Pnrr, i “Draghi boys”, il cervellone umano del Piano, quelli che monitorano gli avanzamenti dei progetti, eseguono i controlli di gestione e poi schiacciano il pulsante del sistema Regis per erogare i famosi soldi da spendere, stanno mollando.
Voluti da Draghi, entrati per concorso, quello dell’ottobre 2021 (34 mila candidati, 17 mila alla prova scritta), in servizio dal gennaio 2022. Per lo più giovani, laureati, qualificati, formati, collocati in tutti i ministeri e alla presidenza del Consiglio: giuristi, economisti, statistici, informatici, ingegneri. Si dimettono perché precari, il loro contratto scade con il Pnrr nel 2026, non vedono prospettive.
Chi resta accusa il ministro Fitto di mentire: «È andato a dire in Parlamento il 26 aprile che ci aveva stabilizzato, dopo le critiche della Corte dei Conti: vero sulla carta, falso nella realtà», dicono in molti, anonimi in questa fase, ma pronti a una clamorosa protesta in piazza davanti a Palazzo Chigi.
«Nel decreto 13, il “Pnrr 3”, non ha stanziato soldi. E senza risorse le amministrazioni possono procedere solo se hanno “tesoretti” di budget e spazi nelle dotazioni organiche, visto che noi siamo un “soprannumero”. Quasi tutte non ce l’hanno».
Anche i funzionari sanno che le tensioni tra i “500” o quel che ne rimane sono crescenti. E vanno gestite assieme alle pressioni del governo in ritardo con l’Europa sulla terza e sulla quarta rata del Piano. Ballano miliardi. Ma ballano anche posti di lavoro e professionalità.
Su 1.534 candidati risultati idonei al concorso del 2021 per i 500 posti, oltre la metà ha rinunciato alla chiamata, puntando su altri posti a tempo indeterminato o determinato ma più vicino a casa. Oppure si è dimesso subito dopo aver preso servizio. Parliamo di 798 rinunce o dimissioni su 1.534: il 52%.
Le tre graduatorie di economisti, statistici e ingegneri si sono esaurite in meno di un mese. In quella giuridica hanno chiamato già 793 idonei su 974. Visto che i posti banditi nell’area giuridica erano 125 significa che i buchi vengono coperti a prescindere dalle competenze: ingegneri e statistici soppiantati da esperti di legge. Questo passa il convento. E tra un po’ neanche questo.
Sin dall’inizio si era capito che questa faccenda dei professionisti assunti a tempo e pagati 50 mila euro lordi, anziché i 100 mila dati ai consulenti, sarebbe stato un grosso intoppo per il Pnrr.
L’allora ministro dell’Economia Franco l’aveva detto in Parlamento alla fine di febbraio dell’anno scorso: «Bisogna rendere più attrattive queste posizioni». A concorso appena chiuso, gennaio 2022, avevano risposto in 383 su 500, poi rimpiazzati dagli idonei. A dicembre 2022 la Corte dei Conti ne contava 366.
Ci aveva pensato il ministro Brunetta con il decreto 115 del 2022 a fissare nel primo gennaio 2027 la data della stabilizzazione, ma senza risorse extra. Il ministro Fitto ora anticipa al primo marzo 2023, ma ancora non mette soldi.
(da La Repubblica)
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Maggio 29th, 2023 Riccardo Fucile
SANCHEZ HA RECEPITO IL MESSAGGIO PORTANDO IL PAESE AD ELEZIONI ANTICIPATE: DECIDANO GLI SPAGNOLI DEL LORO FUTURO
Per i socialisti spagnoli, si scrive sui giornali, è stata una notte “aciaga”, infausta. Ed effettivamente la tornata amministrativa parziale in Spagna che vedeva al voto città preminenti come Madrid, Siviglia, Malaga, Barcellona e alcune regioni come la Castilla, hanno dato risultati in chiaroscuro.
Si ripropone un nuovo bipolarismo e Psoe e Pp ridiventano partiti cardine del sistema democratico spagnolo. Le elezioni locali in questo caso hanno rovesciato una tendenza nazionale che vedeva i socialisti di Pedro Sanchez primeggiare in tutti i sondaggi, la stabilità politica unita a buone intuizioni sul piano politico-economico davano la sensazione che la socialdemocrazia in salsa iberica contenesse l’avanzata generalizzata delle destre in Europa.
La sconfitta in alcune aree tradizionalmente legate al Psoe, l’Andalusia su tutte, la secca battuta d’arresto a Madrid, ripropone il Partito Popolare come reale alternativa di governo per le elezioni che Sanchez ha voluto anticipare di sei mesi.
Il voto parziale sembra anche gettare la parola fine o crisi sui movimenti alternativi al bipartitismo spagnolo che avevano insidiato le due grandi tradizionali forze politiche.
I movimentisti di sinistra divenuti partito di governo di Podemos e i centristi liberali di Ciudadanos pagano il prezzo alla ritrovata stabilità iberica, segno che le novità quando non hanno radici e non sono in grado di mantenere lo stesso spirito primordiale della contestazione anti-politica sono destinati al lento declino.
Podemos riduce di netto la sua rappresentanza nei consigli comunali e ha subìto la crescente affermazione di Yolanda Diaz, il ministro del Lavoro che ha dato vita a una propria formazione politica, Sumar, che di fatto ha affievolito il vento delle vele di Podemos.
Quello che era considerato un fiore all’occhiello del movimentismo di sinistra nei primi dieci anni del secolo, ovvero Barcellona e la sua sindaca Ada Colau, deve registrare una battuta d’arresto.
Regge ma arriva solo terza dopo il candidato socialista e soprattutto dopo Xavier Trias, il vecchio sindaco conservatore e indipendentista che “vince” le elezioni ma non potrà avere numeri sufficienti per governare la capitale della Catalogna, la città che gli indipendentisti non riescono a conquistare del tutto.
Semmai la crisi delle formazioni che avevano lanciato il guanto di sfida a Madrid, indicano lo stallo del “processo” separatista, pronto a riemergere nel caso del ritorno della destra al potere in Spagna.
È nella regione turbolenta e contesa che i socialisti si prendono grandi soddisfazioni e pongono un argine sia ai popolari sia verso gli indipendentisti. Sanchez deve al “cinturon rojo” ovvero alla tradizione amministrativa del socialismo catalano la sua unica ragione per non considerare questo turno elettorale più che un segnale d’allarme.
Il paese cresce, non a un ritmo vertiginoso, ma è ritornato a correre. Misure sociali compatibili con il bilancio dello Stato hanno raggiunto milioni di spagnoli, la pandemia è stata gestita con giudizio e la propria posizione, ferma, in Europa e sullo scenario internazionale, ha nuovamente reso la Spagna protagonista.
Eppure la destra fa un balzo in avanti, riemerge addirittura una formazione di estrema destra, Vox l’alleata naturale di Giorgia Meloni, che conquista uno spazio di rilievo e sarà stampella del PP in molte amministrazioni.
È presto per fasciarsi la testa, sono pur sempre elezioni parziali e locali, ma il vento conservatore e in alcuni casi reazionario è tornato a soffiare, non è sbagliato preoccuparsene. Infatti Pedro Sanchez si è dimostrato solerte, ha recepito il messaggio ed è corso ai ripari. Decidano gli spagnoli del loro futuro.
(da agenzie)
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