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“RINUNCERO’ ALLE CURE”, “GRAZIE A QUEI SOLDI MI SONO DIPLOMATO”

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

LA VOCE DEGLI “OCCUPABILI” A CUI LA MELONI TOGLIE IL REDDITO DI CITTADINANZA: “CI VOGLIONO RICATTABILI”

“Rinuncerò alle cure”, “grazie a quei soldi mi sono diplomato”. Le voci degli ‘occupabili’ a cui il governo toglie il Reddito: “Ci vogliono ricattabili”
Sono soltanto alcune delle storie raccolte nel corso del corteo organizzato a Roma da “Ci vuole un Reddito“, campagna che ha riunito oltre 140 tra associazioni, movimenti e organizzazioni sociali, da Nonna Roma alle Camere del lavoro autonomo e precario (Clap), passando per Nidil Cgil, Cobas, studenti e studentesse della Sapienza, Black Lives Matter e non solo).
Se lo scorso dicembre erano stati lanciati, nella Capitale come nel resto della penisola, i primi comitati di difesa e ampliamento del reddito, contro la volontà della maggioranza di destra di smantellare il provvedimento, ora le associazioni sono tornate in piazza per rivendicare l’obiettivo di stoppare il decreto Lavoro. Quello che non soltanto archivia il Rdc, ma “allarga le maglie della precarietà, aumentando la possibilità di fare contratti a tempo determinato e di utilizzare i voucher”
Così a parlare sono soprattutto coloro che si ritrovano nella discussa categoria degli ‘occupabili’, quella istituzionalizzata dal governo Meloni prima con la legge di bilancio, poi con il decreto Lavoro approvato a inizio maggio.
Persone povere, che hanno utilizzato il reddito come ‘paracadute’ soprattutto durante la pandemia, che non potranno però ora beneficiare della nuova misura voluta dall’esecutivo al posto del Rdc: l’Assegno di inclusione, a partire dal prossimo anno. Ma chi è che perderà il sussidio? Chi nel proprio nucleo non avrà presenti minori, persone con disabilità o over 60. I numeri di chi, pur sotto la soglia di povertà, non potrà accedervi li ha forniti lo stesso esecutivo: secondo i calcoli gli esclusi dalla nuova misura saranno 433mila.
Per loro l’unica strada sarà richiedere un’indennità di partecipazione a programmi formativi da 350 euro al mese, erogabile per un massimo di 12 mensilità, non rinnovabili. Se la volontà del governo Meloni è quella di togliere il sostegno a chi si considera abbia una probabilità maggiore di trovare un’occupazione, la realtà resta ben diversa.
E per la categoria degli ‘occupabili’, come dimostrato dagli stessi dati forniti dall’Agenzia nazionale politiche attive del Lavoro, la speranza di trovare un lavoro rischia di tradursi soltanto in una chimera. Le stesse teorie del governo che vengono smentite.
Una tra tutte? “I poveri senza figli non hanno più probabilità di trovare lavoro, anzi”, ha certificato sempre l’Anpal, bocciando le previsioni governative. Ma non solo. Perché sempre il commissario Anpal Raffaele Tangorra ha precisato come “soltanto il 13 per cento dei beneficiari del Rdc presi in carico dai CpI e inseriti nel programma GOL sono pronti a lavorare, work ready”. Numeri irrisori, con l’occupabilità che resta così soltanto sulla carta
Per centinaia di migliaia di poveri il rischio così sarà quello di ritrovarsi “per strada”, senza più alcun sostegno. “Ho paura di dover abbandonare gli studi“, spiega un giovane 27enne, che racconta di aver potuto frequentare l’Università soltanto grazie al sussidio. Non è l’unico. Per tanti reddito di cittadinanza è stato sinonimo di ‘libertà’. Libertà “di poter avere un pranzo o una cena a tavola“, di poter finalmente curarsi, di non dover dipendere dalle offerte e dal lavoro incessante di tante associazioni che, anche nella Capitale, cercano di aiutare chi si ritrova senza un lavoro, né un reddito. “Vogliono soltanto costringerci ad accettare lavori da sfruttamento e a più bassi salari. Ci vogliono ricattabili”, è il mantra ripetuto dalla piazza. “E consegnano un esercito di persone alla criminalità”. Perché tutte le storie hanno spesso un comune denominatore, con le testimonianze del nulla offerto dal mercato.
“Contratti regolari? E chi l’ha mai visti? Eppure lavoro da quando ho 14 anni”, racconta Franco. Ha fatto di tutto, barista, manovale, operaio. Ma, spiega, “in Campania è quasi impossibile non lavorare in nero. Con il reddito potevo fare braccio di ferro, rifiutare il lavoro nero. Ma prima eravamo costretti a farci mettere pure i piedi in testa pur di sopravvivere. E ora vogliono farci tornare al passato”. Il reddito, invece, ha rappresentato per Franco una riscossa: “Ho potuto permettermi di andare a studiare alla serale, diplomandomi a Caserta, in un territorio ormai devastato dalle crisi industriali, perché sapevo che a fine mese avrei potuto pagare affitto e bollette”
Non è l’unico ad avere una lunga esperienza di contratti atipici, irregolari, part-time. E salari da fame: “Quando ho chiesto di essere regolarizzato, non ho mai ottenuto nulla”, c’è chi racconta sconsolato. “Meloni ha lanciato una guerra contro i poveri, ma non sono i poveri a doversi vergognare, ma chi li sfrutta”, rilancia Ida, dalla testa del corteo. Dopo aver perso il figlio, racconta, si è ammalata per diversi anni, ha perso la casa dove viveva da oltre 30 ed è stata sfrattata. “Oggi mi è rimasto soltanto il reddito, se me lo tolgono, come farò ad andare avanti? Con la spesa mi hanno aiutato i volontari di Nonna Roma, ma con le medicine? Come farò a curarmi?“
Le cure? Sembrano essere diventate un altro lusso, ormai inaccessibile per tanti (presunti) occupabili. “Io ho lavorato quasi sempre, ma sempre da precaria”, spiega una manifestante di Napoli. “È stato grazie al reddito che ho potuto dare dignità alla mia vita. Ma ora, senza figli e senza over 60, il futuro resta un’incognita, anche per lei: “Cosa farò? Non lo so ancora, spero di non essere costretta a emigrare“.
Andare via, l’incubo di tanti: “Già è complesso trasferirsi dal Sud al Nord per i giovani, figurarsi per me che ho 58 anni”, c’è chi allarga le braccia. “Io invece ne ho 46, non voglio più accettare stipendi da 3 euro l’ora. Mi hanno detto vieni a fare la stagione a Rimini. Ma io ci sono già stato. Tutto falso. Altro che stipendi da 2mila euro al mese, io non ne ho visti mai mille, gran parte fuori busta. Non posso più accettarlo”.
C’è chi attacca: “Gli imprenditori hanno criminalizzato il reddito, ogni giorno in tv come ospiti a raccontare fake news. Ma la realtà è che nemmeno ora che il reddito è in esaurimento hanno trovato il personale. Quindi il problema è un altro: i salari bassi“. Per questo, dalla piazza, l’appello è ora rivolto alle opposizioni: “Difendano insieme a noi il Reddito di cittadinanza”, c’è chi rilancia. Battaglia parlamentare promessa da Pd, M5s, Verdi-Sinistra . Ma l’obiettivo a lungo termine è un altro: “Serve introdurre il salario minimo. Perché non si può vivere campando di lavoretti. Sotto i dieci euro l’ora è sfruttamento“.
(da Il Fatto Quotidiano)

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ALLARME DI CONFESERCENTI: L’INFLAZIONE BRUCERA’ 10 MILIARDI IN 3 ANNI

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

ADDIO BENEFICI DEL CUNEO FISCALE

«Il tasso di inflazione rimarrà sopra il +2% fino al 2025, erodendo la capacità di spesa delle famiglie, frenando la ripresa dei consumi e depotenziando gli effetti positivi del previsto alleggerimento fiscale», avverte Confesercenti. L’impatto dell’inflazione sul potere di acquisto “incide sulla crescita dei consumi e potrebbe depotenziare, di fatto, gli eventuali benefici della riforma fiscale in arrivo. L’era della bassa inflazione, infatti, – viene sottolineato nell’analisi – sembra ormai del tutto terminata. Anche se il picco del 2022 appare episodico e determinato da fattori esterni come lo shock energetico, in prospettiva torneremo a sperimentare un’inflazione permanentemente più elevata di quella con cui ci eravamo abituati a convivere. Ci aspettiamo infatti – stima Confesercenti – un tasso di aumento dell’indice dei prezzi del +5,7% nell’anno corrente, del +3,8% nel 2024 e del +2,8% nel 2025. Solo nel 2026 si dovrebbe assestare sul +2%, la soglia comunemente considerata come obiettivo per la stabilità dei prezzi. Un punto d’arrivo, comunque, quadruplo rispetto al tasso medio di inflazione del +0,5% che si è registrato nel quadriennio 2016-2019, prima della pandemia. E’ “Uno scenario che avrà conseguenze importanti sul potere d’acquisto delle famiglie: considerando anche la perdita già maturata nel 2022, la compressione subita dalla capacità di spesa delle famiglie ammonterebbe, nella media 2022-2025, al 16% del reddito disponibile. Per avere un termine di confronto, si consideri che nel quadriennio 2016-2019, l’erosione di potere d’acquisto provocata dall’inflazione era stata in media dell1,5%”.
L’impatto inflazionistico «sta inoltre rallentando il recupero dei livelli di consumo pre-pandemici, che nelle attuali condizioni non potrà essere completato prima del 2025.
E si allontana sempre di più anche l’obiettivo di recuperare i livelli precedenti alla crisi finanziaria internazionale: se prendiamo a riferimento il valore dei consumi reali del 2007, a fine 2025 mancheranno ancora 18 miliardi. Questo perché, sempre a causa dell’alta inflazione, i consumi aumenteranno in termini cumulati di appena il 2,1% nel triennio 2023-2025, ossia di un insoddisfacente 0,7% annuo». Questo scenario – avverte quindi Confesercenti – «impone un aggiustamento di rotta anche per l’agenda di politica economica, a partire dal fisco.
La necessità di salvaguardare il potere d’acquisto delle famiglie impone infatti di prestare attenzione anche al fenomeno del fiscal drag, che si determina quando l’aumento nominale dei redditi correlato all’inflazione porta automaticamente all’applicazione di aliquote più elevate e quindi all’incremento del prelievo fiscale.
Un assaggio lo si sta avendo con il taglio del cuneo fiscale predisposto dal governo, che in parte sarà eroso proprio dal fisco. Bisogna dunque rivedere la struttura delle aliquote per annullare gli effetti negativi del fiscal drag, o si rischia di depotenziare l’impulso che la riforma fiscale in preparazione potrebbe produrre, in condizioni di stabilità dei prezzi, sulla capacità di spesa delle famiglie».
(da agenzie)

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LEC WALESA: “SE NON FOSSIMO ENTRATI NELLA NATO E IN EUROPA OGGI LA GUERRA SAREBBE ARRIVATA ANCHE IN POLONIA”

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

“RUSSIA E CINA CONITNUANO A PENSARE DI INCLUDERE CON LA FORZA I PAESI PIU’ FRAGILI”

“Se non fossimo entrati nella Nato e in Europa oggi la guerra sarebbe arrivata anche in Polonia. Ora sosteniamo l’Ucraina e vogliamo una volta per tutte mettere a posto la Russia. La Russia ha un sistema politico sbagliato. Nessun ragazzo russo sa se il giorno dopo sarà chiamato a combattere e morire”.
Camicia blu con le scritta Konstytucja (Costituzione in polacco) e Solidarnosc, una bandiera gialla e blu dell’Ucraina e una spilla della Madonna appuntate sotto il bavero, l’ex presidente polacco Lech Walesa, 79 anni, parla del suo Paese, della guerra in Ucraina e del futuro dell’Unione europea sprofondato nella poltrona bianca del teatro sociale di Trento come un vecchio zio pronto a dispensare i suoi consigli ma anche a rimproverare chi fa solo finta di ascoltarlo.
“Sono arrivato all’ultimo momento perché da cattolico praticante prima sono stato a messa” confessa, ricevendo un primo lungo applauso del pubblico del Festival dell’Economia. “Il mondo è sempre stato diviso e i più forti hanno sempre inglobato i più piccoli – analizza poi, rispondendo a chi gli chiede cosa pensa dell’ipotesi cinese di un congelamento dello status quo con i territori annessi dai russi in Ucraina che resterebbero nelle mani di Mosca-. Funzionava così fino alla fine del ventesimo secolo. All’inizio del ventunesimo secolo vediamo ancora in atto questa logica da parte di Russia e Cina: includere con forza Paesi più fragili. I Paesi evoluti invece esercitano la loro influenza attraverso organismi come la Nato, l’Ue e l’ONU”.
Quindi, guardando al futuro e alle azioni oggi più necessarie, aggiunge: “La prassi, a questo punto, ci dice che il destino ci ha dato il compito di abolire le contrapposizioni in Stati e realtà minuscole, perché la tecnologia non rispetta questi confini, ce l’ha dimostrato la pandemia. I grandi stati illuminati d’Europa dovrebbero accorgersene e cercare di affrontare insieme tutti gli argomenti troppo complessi per essere affrontati a livello statale. Bisogna definire cosa va dibattuto a livello sovranazionale e quali risorse serviranno. Ma per fare questo serve una leadership che oggi non vedo”.
Netta la critica a tutti i populismi, a cominciare da quelli che hanno preso piede nel suo Paese. “In Polonia ci siamo sentiti troppo sicuri e abbiamo permesso che prendessero il potere demagoghi e populisti. Agli italiani e agli europei dico: partecipate alle elezioni e guardate bene prima di mettere una croce su un nome”.
Il punto di partenza della sua riflessione politica è l’eterna lotta fra comunismo e capitalismo, ma nella sua analisi Walesa cerca anche di andare oltre. “Il comunismo sulla carta è migliore, e per questo tanti giovani si fanno affascinare da questo ma devo stare attenti. Il comunismo in ogni tentativo fatto ha fallito, quindi eliminate il comunismo” sostiene l’ex presidente polacco, aggiungendo che il capitalismo, il sistema che è risultato vincente ha comunque delle criticità: “Vince con dei trucchi, è stato descritto come una corsa di topi”. Per questo, continua, “il nuovo capitalismo dovrebbe lasciare il mercato libero e correggere tutto il resto”, spiegando che “tutti devono vivere, anche chi è disoccupato”.
In questo quadro, per Walesa la soluzione si rintraccia nell’allargare la visione: “Se capiamo che il nostro interesse è continentale o addirittura globale la nostra visione cambia”, e bisogna partire da dare una risposta a tre domande: “Quale fondamento deve essere il collante tra noi in Europa? Quale sistema economico? Come affrontare il populismo?”. E in questo quadro serve chiarezza anche da parte dei partiti, perché oggi abbiamo “partiti di sinistra che hanno programmi di destra e viceversa. Chi se la cava sempre sono i partiti di ispirazione cristiana ma dentro questi partiti non c’è neanche un cristiano”, aggiunge con una battuta.
Rivendicando l’esperienza pacifista di Solidarnosc, che combatte’ contro “l’URSS e il Patto di Varsavia senza nemmeno un carro armato”, ribadisce poi la sua diffidenza verso una soluzione innanzitutto militare. “Non vedo una guerra contraddistinta dalla pace. In Ucraina vedo una brutalissima prova di forza che non darà nessuna soluzione: anche se l’Ucraina vincerà fra dieci anni succederà di nuovo. La Russia userà anni per riprendere forza come già ha fatto dopo il crollo del muro di Berlino. Arriverà un altro Stalin, un altro Putin. L’unica possibilità di pace e che con il nostro aiuto i cittadini russi cambino il loro sistema politico. E questo obiettivo non si raggiunge con i missili”. Un ragionamento proiettato sul futuro, perché, con l’invasione dell’Ucraina, “Putin ha commesso un errore gravissimo mettendosi contro tutto il mondo evoluto – conclude Walesa-. I nostri figli e i nostri nipoti non ci perdoneranno un errore del genere. Non si tratta di battere militarmente la Russia ma fare opera di persuasione con ogni singolo russo spiegandogli che per il suo bene è necessario un cambio di sistema politico in Russia”.
(da agenzie)

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E SE PUTIN ATTACCASSE LA NATO CON DELLE TESTATE NUCLEARI? LA SIMULAZIONE DELLO SCENARIO APOCALITTICO

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

LA RUSSIA SGANCEREBBE 300 BOMBE ATOMICHE SULLE BASI MILITARI IN EUROPA. LA NATO RISPONDEREBBE CON 180 MISSILI… A QUEL PUNTO GLI STATI UNITI COLPIREBBERO “MAD VLAD” CON 600 TESTATE NUCLEARI RADENDO AL SUOLO LE 30 CITTÀ RUSSE PIÙ IMPORTANTI – RISULTATO DI TUTTO CIÒ? 90 MILIONI DI MORTI SOLO NELLE PRIME 4 ORE

Cosa accadrebbe nel caso di attacco sferrato da un’arma tattica nucleare russa? Il programma ’Science and global security’ (Sgs) dell’università di Princeton ha effettuato una simulazione con esiti apocalittici: 90 milioni di vittime in poche ore. Lo studio – in linea con altre ricerche simili – ha stabilito come potrebbe iniziare un conflitto di questo tipo, da dove potrebbero essere impiegate le armi e di che portata potrebbe essere la devastazione
La simulazione ipotizza che l’attacco possa partire dalla città russa di Kaliningrad (tra la Polonia e la Lituania, si affaccia sul Mar Baltico) e sia diretto al cuore dell’Europa. Una «pioggia di fuoco» che raggiungerebbe le principali città europee, comprese quelle italiane, in brevissimo tempo. Secondo la ricerca nelle prime tre ore potrebbero morire almeno 2,5 milioni di persone. Ma contemplando anche la reazione della Nato, che potrebbe rispondere con 600 testate nucleari, il bilancio si aggraverebbe aggiungendo 3,4 milioni di morti in soli 45 minuti.
La guerra atomica (virtuale) prosegue con un altro scambio di attacchi che provocherebbe 85 milioni di morti in altri 45 minuti. Sommando ogni fase della simulazione, in un conflitto di quattro ore, morirebbero 91,5 milioni di persone. «Una guerra atomica mondiale al giorno d’oggi provocherebbe centinaia di milioni di morti – spiega Gastone Breccia, storico militare dell’università di Pavia e professore di Storia della guerra all’Accademia militare di Modena –, si tratterebbe di un’escalation impressionante rispetto al secondo conflitto globale.
Ecco le tre fasi cronologiche del conflitto simulato a livello informatico dal team di ricerca americano: la prima vedrebbe la Russia tentare di distruggere le basi Nato in Europa (120 sono in Italia) con 300 armi nucleari. L’Alleanza Atlantica risponderebbe con 180 delle proprie armi nucleari (2,5 milioni di vittime in 3 ore). La fase successiva, ‘Counterforce plan’, vedrebbe la maggior parte delle forze militari Ue distrutte.
Gli Usa sarebbero costretti a inviare 600 missili contro Putin (altri 3,4 milioni di morti in 45 minuti). Infine, la terza fase, ‘Countervalue plan’, con 30 città e centri economici più popolati colpiti da cinque a dieci testate ciascuna (in tre quarti d’ora 85,3 milioni di morti).
L’esito della ricerca porta alla memoria il film War Games, che alludeva allo scoppio della terza guerra mondiale. Alex Glaser, autore dello studio ed esperto di Ingegneria e affari internazionali, ha confermato che l’ispirazione è venuta dalla pellicola cult che risale ai tempi della Guerra Fredda
«Il punto chiave di una guerra atomica è l’inizio – prosegue il docente Breccia –. Putin potrebbe essere spinto a sferrare un disperato attacco nucleare solo se il suo esercito fosse all’angolo: questo può verificarsi nel caso l’Ucraina metta in atto un’offensiva di successo sfondando le linee russe. Ecco che a quel punto l’unica possibilità moscovita sarebbe l’arma di distruzione di massa.
Credo, però, che l’Occidente e la Nato non avrebbero la necessità di rispondere: sarebbe sufficiente una controffensiva convenzionale, perché a quel punto la Russia politicamente sarebbe finita. Nel caso di un attacco alle basi Nato in Occidente? Chi tocca la Nato, muore».
(da Il Giorno)

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L’INFLAZIONE ALLE STELLE STA DURANDO PIÙ DEL PREVISTO E L’ECONOMIA ITALIANA NE RISENTE

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

DOPO COMMISSIONE UE, BANKITALIA E FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE, CONFINDUSTRIA METTE IL CARICO DA 90: L’ECONOMIA ITALIANA STA CRESCENDO A RITMI INFERIORI A QUANTO PREVISTO (E SE IL GOVERNO NON SI SBRIGA CON IL PNRR ANDRÀ PERFINO PEGGIO)… LE ATTIVITÀ CHE HANNO DICHIARATO BANCAROTTA SONO AUMENTATE DEL 2,6%

Sono sempre di più le nubi che si addensano sull’economia italiana. Dopo i moniti di Commissione Ue, Banca d’Italia e Fondo monetario internazionale ora è Confindustria a rimarcare come l’attività domestica stia crescendo a ritmi più moderati nel secondo trimestre.
A trainare sono i servizi, mentre l’industria fatica. A preoccupare è l’inflazione, più persistente del previsto, e le possibili conseguenze delle strette monetarie della Banca centrale europea (Bce). In aumento, secondo le stime preliminari di Eurostat visionate da La Stampa, sono i fallimenti. Il trend iniziato nel finale del 2022 e proseguito nel primo trimestre 2023, bancarotte a +2,6% su base annua, continuerà ancora. E potrebbe deprimere l’espansione del Pil italiano.
Non è una bocciatura, ma una presa di coscienza. Il centro studi di Confindustria, nel suo rapporto periodico, evidenzia quanto sia chiaroscurale la situazione. I servizi stanno trainando il Pil italiano, mentre è meno solida la condizione di manifattura e costruzioni. Allo stesso tempo, i tassi d’interesse continuano a salire e i prestiti a calare.
La congiuntura non è positiva. Specie se si valutano altri aspetti. Come i fallimenti in arrivo. Secondo Eurostat, dopo l’incremento del 26,8% negli ultimi tre mesi del 2022 rispetto al trimestre precedente, anche nella prima parte dell’anno in corso c’è stato un aumento. E un ulteriore girandola è continuata nel periodo corrente.
Il picco, teme la banca tedesca Deutsche Bank, non sembra vedersi ancora. Ma è chiaro che i rialzi dei tassi da parte della Bce, che proseguiranno per buona parte dell’estate, complicano la vita a imprese e famiglie. Le seconde spendono meno, le prime vanno in crisi di liquidità e devono portare i libri in tribunale. Per ora, evidenzia Eurostat, il fenomeno in Italia è ancora non marcato, per merito della grande liquidità delle società, ma il vento potrebbe cambiare in fretta.
Il rischio di un rallentamento è sempre più concreto. L’erosione dei margini nella manifattura, dice Confindustria, «può frenare la crescita degli investimenti in Italia, perché riduce la capacità di autofinanziamento delle imprese». A ciò si aggiunge che «le disponibilità liquide sono in calo (-43 miliardi i depositi a marzo da luglio 2022) e il credito bancario si riduce».
Infine, una frase che sa di sentenza: «Non vi sono nei bilanci delle imprese italiane risorse facilmente utilizzabili per finanziare nuovi investimenti». È in quest’ottica che la Ue, così come Banca d’Italia e il Fmi continuano a ripetere che è cruciale la piena adozione del Pnrr. Senza un avanzamento dei progetti del Recovery, lo stop del Paese sarà quasi inevitabile.
(da agenzie)

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LA “TASSA” DEL PONTE SULLO STRETTO: DAL TRAFFICO ALL’IMPATTO, ECCO PERCHE’ E’ INUTILE E IMPAGABILE

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

I 14,6 MILIARDI NON AIUTANO COMMERCIO, PENDOLARI E TURISTI E CREANO POCO LAVORO

I flussi di traffico? Risibili, senza impatti effettivi sul turismo, sul pendolarismo. Le ricadute occupazionali? Solo a breve termine. I costi? Una tassa per il Paese. La procedura di Valutazione di impatto ambientale? Illegittima, come pure l’affidamento senza gara.
Il ponte sullo stretto di Messina è un’opera che sfida la legge, la logica e il buon senso, che deturpa il paesaggio, ferisce l’ecosistema, viola le leggi e le norme, che non crea sviluppo “buono” né crescita duratura. Eppure il governo Meloni lo vuole tanto da averlo inserito nella Legge di Bilancio 2023.
Di più: con il decreto legge n. 35 del 2023 non si è limitato alla revoca della liquidazione della Stretto di Messina SpA, trasformandola in società concessionaria in house con le “funzioni” di realizzazione e gestione dell’opera, ma ha addirittura riesumato il rapporto con il contraente generale Eurolink, sospendendo a colpi di articoli di legge i giudizi civili pendenti, e ha dato nuova vita pure al progetto definitivo redatto dalla stessa Eurolink e approvato dalla Stretto di Messina il 29 luglio 2011.
Sono questi i passaggi salienti delle durissime critiche contenute nel dossier di esperti ambientalisti “Lo Stretto di Messina e le ombre sul rilancio del ponte” pubblicato nei giorni scorsi da un pool di esperti di Kyoto Club, Lipu e Wwf, con il contributo di numerose associazioni ambientaliste e della società civile, tra le quali il Coordinamento Invece del ponte – cittadini per lo sviluppo sostenibile dello Stretto.
L’elenco delle principali criticità dell’ecomostro che Salvini e Meloni vogliono erigere su uno dei punti più sismici d’Italia e d’Europa è lungo. Si va da quelli giuridici, con i profili di illegittimità e incostituzionalità delle norme per realizzare il ponte sullo Stretto di Messina, specie quel fronte delle valutazioni ambientali in conflitto con l’articolo 9 della Costituzione e la pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistica, a quelli tecnico-ingegneristici sulla fattibilità stessa e sull’esigenza di riprogettare il ponte sospeso sino a suoi impatti ambientali ed ecologici.
Ma dove l’analisi demolisce dalle fondamenta il piano del governo è sul fronte dell’economia. Dati alla mano, l’opera è insostenibile finanziariamente, i vantaggi economici inesistenti, evanescenti i presunti benefici per trasporti, turismo, mobilità e occupazione. I problemi scattano già per il traffico marittimo: un ponte con una luce di 65 metri, com’è nel progetto attuale, bloccherebbe il transito delle navi portacontainer maggiori in rotta verso Gioia Tauro, il più importante scalo italiano di transhipment, mentre i cargo da Genova, Napoli, Livorno e Salerno per il canale di Suez dovrebbero circumnavigare la Sicilia, con aggravi di costi e tempi. Se poi si volesse alzare l’impalcato di 15 metri (per avere la certificazione del “franco navigabile”) l’opera andrebbe riprogettata integralmente.
Secondo gli ambientalisti, in base alle norme nazionali ed europee non si può poi riattivare l’intesa con il general contractor Eurolink, sciolta per legge nel 2013, ma occorre rifare la gara. Dal valore originario di 3,9 miliardi del 2003, il costo di riferimento sale oggi a 6,065 miliardi e il tetto entro può crescere senza gara (in base al Codice degli Appalti e alla direttiva 24 del 2014) è poco più di 9, molto sotto i 14,6 (quasi un punto di Pil) indicati dal governo. Le carenze di analisi del governo fanno sì che i privati non siano disponibili a partecipare all’opera, tanto che il piano economico e finanziario pone a totale carico pubblico il rischio finanziario sia dell’investimento che della gestione. Lo stesso gruppo di lavoro del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sostiene che i pedaggi non consentono il project financing. Come i ricavi, così anche i dati sull’occupazione indicati dal Governo sono sovradimensionati. Secondo il costruttore Webuild il monte ore totale per costruire il ponte sarebbe 85.131, con un’occupazione media mensile di non più di 507 addetti: altro che i 100mila stimati, anche nell’indotto, che peraltro sarebbero tutti a termine.
Infine, i flussi di traffico non ripagano l’opera. Secondo il MiMS il 76,2% degli spostamenti su nave sono di passeggeri senza auto ma i pendolari quotidiani sono 4.500, molto pochi. Quanto al trasporto su ferro il canone di uso della ferrovia sarà determinato, secondo il decreto, per perseguire la sostenibilità ambientale del ponte, costituendo una vera e propria tassa sul trasporto ferroviario. Il traffico su gomma previsto è di 11,6 milioni di auto l’anno, a fronte di una capacità di 105 milioni nei due sensi: una saturazione di appena l’11% del ponte, troppo bassa per giustificare l’opera. Ragione e logica dicono no al Ponte, ma al governo pare non importare.
(da Il Fatto Quotidiano)

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RICOSTRUZIONE EMILIA-ROMAGNA, MELONI CERCA IL COMMISSARIO

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

E TI PAREVA CHE NON RISPUTASSERO I NOMI DI FIGLIUOLO E DI BERTOLASO

Il decreto con le nuove norme sulla Ricostruzione è pronto, o quasi. Non dovrebbe essere approvato nel Consiglio dei Ministri di martedì ma, più probabilmente, in quello successivo. Nel frattempo a Palazzo Chigi si sta cercando il nome del “super Commissario” alla Ricostruzione che gestisca il post-emergenza in Emilia-Romagna e non solo. L’ipotesi di Stefano Bonaccini sembra ormai definitivamente tramontata visto che Palazzo Chigi, come recita la bozza del decreto, vuole nominare una figura che abbia “competenze manageriali” escludendo così una figura politica. Il precedente sarebbe quello di Giovanni Legnini in Abruzzo, nominato dal governo Conte-2.
Sul tavolo di Palazzo Chigi ci sono nomi tecnici che abbiano già esperienza in materia. In queste ore nel governo si parla di un commissario “modello Figliuolo”, ricordando la nomina del generale per l’emergenza Covid fatta da Draghi per sostituire Domenico Arcuri. Ma quello di Figliuolo non è solo un “modello”: il suo nome è davvero sul tavolo del governo, dicono due esponenti dell’esecutivo. Figliuolo, che oggi è Comandante del Comando operativo Interforze, ha da sempre un buon rapporto con la premier.
Dentro FdI fanno notare che, anche da leader dell’opposizione, Meloni non ha mai criticato l’operato di Figliuolo nella fase più difficile dell’emergenza pandemica. Dall’altra parte però, una fonte di governo fa notare che Figliuolo ha competenze più legate all’emergenza e meno per gestire la Ricostruzione.
Quella dell’ex super commissario all’emergenza Covid, però, non è l’unico nome sul tavolo. Un altro sarebbe quello del capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio: in questo modo Palazzo Chigi si troverebbe a gestire sia la fase emergenziale che quella della Ricostruzione.
Gli alleati, soprattutto Forza Italia, invece spingono per Guido Bertolaso, considerato il Commissario per eccellenza degli ultimi vent’anni. Quest’ultimo, che però dovrebbe rinunciare a fare l’assessore al Welfare in Lombardia, ha buoni rapporti con i Presidenti di Regione ma non con i plenipotenziari del governo: non si è mai preso con Salvini ma soprattutto con Meloni.
Quest’ultima, ricordando di quando (era il 2016) Bertolaso la invitò a “fare la mamma” invece che candidarsi a sindaca di Roma, gli ha dedicato un passaggio della sua autobiografia “Io sono Giorgia” criticandolo per quelle parole. La premier non vuole nominarlo. Infine, circola anche l’idea di estendere i poteri di Nicola Dell’Acqua, commissario alla Siccità.
(da agenzie)

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DOPO FAZIO E ANNUZIATA, TOCCA A GRAMELLINI?

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

IL CONDUTTORE NON HA DATO APPUNTAMENTO A DOPO L’ESTATE, SALUTANDO CON UN DISCORSO A DIFESA DEL CANONE E DEL SERVIZIO PUBBLICO

Il saluto di Massimo Gramellini agli spettatori nell’ultima puntata della stagione di Le Parole su Rai3 è sembrato più simile a un addio che un arrivederci al prossimo autunno.
Come ricorda Tvblog, ad alimentare il sospetto che quello di Gramellini possa essere stato un vero e proprio commiato dalla Rai è il confronto con quanto successo nell’ultima puntata della precedente stagione.
Il 28 maggio 2022 infatti il giornalista del Corriere della Sera aveva salutato prima dei titoli di coda dando appuntamento certo a dopo l’estate. Certezza che stavolta non è per niente trapelata da quanto andato in onda in quest’ultimo finale di stagione.
Il cantautore Roberto Vecchioni ha provato a fare un cenno al ritorno in onda, accompagnato però da un «magari» che nessun altro dei colleghi in studio ha sostenuto.
In chiusura di puntata, Gramellini si è anche concesso alcuni commenti sulle polemiche degli ultimi giorni a proposito del rapporto tra politica e viale Mazzini: «La mia parola è “pubblico” – ha detto Gramellini – In sette anni siete diventati davvero tanti, ma mai come quest’anno abbiamo avvertito l’esistenza di una connessione sentimentale. Questo programma lo sentite come una piccola parte della vostra vita, me ne accorgo quando incontro per strada qualcuno di voi. Per noi non potrebbe esistere complimento più bello. Ma “pubblico” significa anche servizio pubblico. Consentitemi di ringraziare la tanto bistrattata Rai. Al di là e al di sopra degli appetiti di potere dei quali è oggetto dal giorno della nascita, questa azienda è piena di lavoratori, tecnici, dirigenti straordinari. Ho avuto la fortuna di lavorare con molti di loro»
«Il canone finanzia anche la libertà degli altri»
Il giornalista è poi andato avanti con diverse allusioni al dibattito in corso su Tv di Stato e canone: «Un grande dirigente della Rai del passato mi disse che servizio pubblico non consiste nell’avere tutti i racconti della realtà dentro lo stesso programma, ma la possibilità di scegliere più programmi che raccontino la realtà in modo diverso. Ogni spettatore, pagando il canone, finanzia non solo la propria libertà di scelta, ma anche quella degli altri. Paga l’edicola in cui ciascuno di noi va a leggersi il giornale che vuole. Noi abbiamo l’ambizione di essere uno di quei giornali. Le Parole non è un’arena dove ci si scontra all’ultimo sangue. Assomigliamo più ad un gruppo di amici che si ritrovano il sabato sera per raccontarsi la settimana, scambiarsi delle opinioni, farsi quattro risate e, se capita, un pianto. Prima di farne uno anche adesso salutiamoci con un sorriso. Buona estate».
(da agenzie)

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RAFFICA DI DRONI SULL’UCRAINA NELLA NOTTE, ABBATTUTI 52 SU 54: “ATTACCO PIU’ GRANDE DALL’INIZIO DELLA GUERRA”

Maggio 28th, 2023 Riccardo Fucile

DAI BALCONI DI KIEV GLI INSULTI A PUTIN

È stato l’attacco più massiccio dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina quello subito dall’esercito di Kiev questa notte, secondo l’amministrazione militare della capitale ucraina dopo il raid con 54 droni russi entrati nello spazio aereo ucraino. L’aeronautica militare di Kiev ha reso noto che 52 droni sono stati abbattuti dalle difese aere. I droni Shaded di fabbricazione iraniana sarebbero partiti dalle regioni russe di Bryansk e Krasnodar mettendo a segno attacchi a più ondate per cinque ore. Finora Kiev registra una sola vittima, un uomo di 40 anni rimasto ucciso nel distretto di Kiev, mentre una donna è rimasta ferita. L’attacco avviene alla vigilia del Kiev Day, l’anniversario della fondazione della capitale ucraina nel 1541. Un appuntamento in cui tradizionalmente si svolgono concerti, fiere e mostre. Come riporta il Guardian, alcune persone sono state viste uscire dai balconi a Kiev, sfidando il divieto per l’attacco aereo. Gli ucraini si sono quindi messi a urlare contro Vladimir Putin mentre erano in corso i raid aerei dicendo: «Gloria alla difesa aerea».
(da agenzie)

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