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MELONI TORNA DA TUNISI CON UN PUGNO DI MOSCHE E L’INCUBO DI UNA BOMBA MIGRATORIA: KAIS SAIED È RIMASTO FERMO SULLE SUE POSIZIONI: “NO AI DIKTAT DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE”

Giugno 7th, 2023 Riccardo Fucile

NO ALLE RIFORME CHE L’ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE PRETENDE PER SCONGELARE IL FINANZIAMENTO DA 1,9 MILIARDI. IL RAISS VUOLE PRIMA I SOLDI, POI FARÀ LE RIFORME. MA È UNA PROMESSA A CUI GLI AMERICANI CREDONO POCO

Giorgia Meloni non è soddisfatta quando risale sull’aereo che quattro ore prima l’aveva portata a Tunisi. Un’ora e quaranta minuti di colloquio con il presidente Kais Saied significheranno pure, come si affrettano a far sapere da Palazzo Chigi, che «il feeling è stato buono», ma non sono serviti a smuovere un leader che sta assumendo i lineamenti dell’autocrate, arrestando oppositori, giornalisti, sigillando il Parlamento.
Meloni sorride, stringe mani, si mostra disponibile. Lo fa al suo arrivo, durante la passerella con la premier Najla Bouden, poi con Saied al palazzo presidenziale. Le immagini sono quelle del fotografo ufficiale e degli smartphone dei collaboratori. I giornalisti arrivati al seguito restano lontani e non la vedranno mai.
Così, senza domande, Meloni può offrire la sua ricostruzione del bilaterale con il presidente tunisino dietro a un podio, davanti a una telecamera, con in un’inquadratura sbilenca, come all’interno di una nave piegata dalle onde. Si intuisce subito che il confronto non è andato come avrebbe voluto, ma si è chiuso come si aspettava. Con Saied che dice «no ai diktat del Fondo monetario internazionale», no alle riforme che l’organizzazione internazionale pretende per scongelare il finanziamento da 1,9 miliardi, vitale per Tunisi.
Meloni è preoccupata, e non lo nasconde. A Saied spiega che l’Italia sta facendo di tutto per ammorbidire gli alleati, sia a livello di Europa che di G7. [. Saied scuote la testa.
Considera le proposte del Fmi «imposizioni», come «medici che prescrivono farmaci senza prima diagnosticare la malattia». Una posizione sprezzante che viene rilanciata in un comunicato stampa, dove le richieste del Fondo vengono bollate come «una malattia» che potrebbe «minacciare la stabilità interna della Tunisia e avere conseguenze che si estendono a tutta la regione».
A Saied è stato chiesto di togliere i sussidi alla farina, alla benzina, di cominciare a ristrutturare un sistema economico vicino al collasso, ferito dalla corruzione, e stremato da un’amministrazione pubblica gonfia di assunzioni ma senza soldi per pagarle. Il presidente, però, non vuole mollare la posa populista e considera prioritario «il tema della cancellazione del debito che grava sullo Stato tunisino». La Tunisia vuole prima i soldi, poi farà le riforme. Ma è una promessa a cui gli americani credono poco.
Il governo italiano però non vuole farsi scoraggiare dalla mancanza di fiducia americana. Meloni ha intravisto una maggiore flessibilità dall’Ue. A Saied ha garantito che l’Italia sosterrà l’apertura di una linea di credito per il bilancio tunisino, a favore soprattutto delle piccole e medie imprese. Inoltre, c’è la possibilità che arrivi un pacchetto integrato di finanziamenti, su cui sta lavorando Bruxelles, anche per alleggerire Tunisi nella gestione dei migranti. «Per accelerare l’attuazione di questo pacchetto – spiega Meloni – ho dato a Saied la disponibilità a tornare presto in Tunisia con Ursula Von der Leyen». Meloni avrebbe proposto come data domenica prossima, per un viaggio che assieme alla presidente della Commissione europea avrebbero dovuto fare tempo fa, ma che è saltato per il rifiuto di Saied: a suo dire, avrebbe dato l’impressione di essere commissariato dall’esterno.
La stabilità della Tunisia è fondamentale. Il rischio di una nuova Libia è troppo alta. Dall’altra parte del Mediterraneo Meloni si gioca molto della credibilità della sua strategia. Oggi, come anticipato da La Stampa, sarà a Roma il primo ministro ad interim del governo di unità nazionale di Tripoli Abdul Hamid Dbeibeh, in cerca di una legittimazione internazionale per la possibile candidatura alle future elezioni in Libia. Verrà firmato un nuovo memorandum tra i ministeri dell’Interno e probabilmente, secondo fonti libiche, anche un accordo di 2 miliardi con Eni
A Tunisi Meloni non ha dedicato neanche una parola in pubblico per la stretta brutale operata da Saied sullo stato di diritto. Nessuno glielo ha potuto chiedere, perché ai giornalisti, convocati il giorno prima con appena 23 minuti di preavviso, non è stato permesso avvicinarla. [
(da Il Corriere della Sera)

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TRIDICO: “IL PROBLEMA NON SONO I SUSSIDI MA I TROPPI PRECARI

Giugno 7th, 2023 Riccardo Fucile

IL NOSTRO MERCATO DEL LAVORO E’ MALATO DI BASSI SALARI DI ECONOMIA NERA E LAVORO IRREGOLARE

Nel 2008, un noto economista scomparso qualche anno fa, Paolo Leon, scriveva un libro straordinario (con R. Realfonso), che descriveva bene la deriva del nostro sistema economico e in particolare del mercato del lavoro: L’economia della precarietà.
L’economia della precarietà è caratterizzata da un mercato del lavoro iper flessibilizzato, con forme atipiche di lavoro, con precarietà diffusa, con continue interruzioni di rapporti e mancanza di stabilizzazioni. Una economia che non consente accumulazione di capitale umano, competenze, formazione e quindi produttività. Un mercato che si fonda astrattamente su parole chiavi come dinamismo e mobilità, ma che in realtà si basa su instabilità, su incertezze, che si riversano negativamente anche nelle relazioni umane e nella società, contribuendo a generare quella società liquida e impaurita come ebbe a scrivere Zygmunt Bauman. In quegli anni si contavano 48 tipologie di rapporti di lavoro, con contratti a tempo determinato, a chiamata, intermittente, in condivisione, a progetto, di collaborazione, in somministrazione, stagionali, occasionali, part-time, acausali, voucher, ecc. La gran parte di queste forme sono tuttora vigenti e in alcuni casi rafforzati rispetto a qualche anno fa, come il caso dei voucher e dei tempi determinati acausali dopo il dl Lavoro del 1º maggio 2023. Una impresa ha a disposizione un menu di forme contrattuali da applicare, sulla base unicamente del risparmio di costo. Il lavoratore è soggetto a uno scambio continuo, una mercificazione del suo lavoro, una temporaneità che rende impossibile la progettualità di vita, la serenità lavorativa e di riflesso la qualità della sua vita. Dopo il decreto Dignità nel 2018, il lavoro a termine ha avuto un calo, come dimostra il grafico riferito ai soli giovani, per poi riprendere a crescere nel 2022, e oggi Inps calcola 4,2 milioni di rapporti di lavoro temporanei, un record.
Queste forme di lavoro temporanee, insieme ai bassi salari orari, che colpiscono soprattutto giovani e donne, sono causa di impoverimento e generano working poor. In pratica, si rimane poveri pur lavorando, e allora viene meno l’incentivo a lavorare, perché alla fatica si aggiunge l’impoverimento e la mancanza di tempo che non rende liberi gli individui.
Non solo. A valle di questo impoverimento, lo Stato è chiamato a incrementare la spesa sociale per sostenere i redditi. In sostanza si crea precarietà per legge che richiede un aumento di spesa in sicurezza sociale per cercare di tutelare in qualche modo il lavoratore povero.
Le esigenze di flessibilità quindi, quando non necessarie e spurie, che creano povertà, richiedono il sostegno da parte dello Stato, con il paradosso che il costo è duplice: in termini umani di sfruttamento e instabilità, e in termini di spesa pubblica a carico della collettività e a beneficio di imprese evidentemente decotte che altrimenti non riuscirebbero a stare sul mercato, oppure che ci stanno galleggiando, facendo risparmi sul costo del lavoro.
L’economia della precarietà ha un impatto anche sui consumi e sulla domanda, sugli investimenti individuali, sulla crescita dell’economia. Non è un caso che alla vigilia della pubblicazione di quel libro, si andava incontro nel 2008-2009, alla più grave crisi di sottoconsumo, rispetto alla produzione, mai verificata dopo la Seconda guerra mondiale, che tra l’altro avrebbe richiesto uno sforzo pubblico straordinario, in sostegno alla domanda, come avvenne negli Stati Uniti all’indomani del crollo di Lehman Brothers, ma che in Europa al contrario portò, in modo miope, a programmi di austerità che approfondirono la crisi. Negli Usa, invece, Barack Obama varò all’epoca uno dei più grandi programmi pubblici della storia americana recente, il cosiddetto ARRA (American Recovery and Reinvestment Act) per circa 800 miliardi di dollari e l’inizio della diffusione dei cosiddetti green jobs.
Ma veniamo alla crisi attuale e all’impatto dell’economia della precarietà sulla vita delle persone.
Succede che negli ultimi anni, anche grazie al Reddito di cittadinanza, abbiamo scoperto che il nostro mercato del lavoro è gravemente malato. È malato di bassi salari e di precarietà (non di sussidi). È malato di economia nera e lavoro irregolare. E i fenomeni spesso sono correlati con infortuni e morti sul lavoro. Le persone, i giovani, in questo contesto, e giustamente, fanno fatica ad accettare un lavoro qualsiasi che venga loro proposto. Si prendono il legittimo lusso, da cittadini di un Paese avanzato, di rifiutare offerte di lavoro non congrue sotto un punto di vista economico, di competenze, di distanza, di condizioni e di qualità. I giovani sanno che lavorare con le tecnologie moderne porta più alti salari; sanno che lavorare con lo smart working rende più liberi; sanno che in un Paese avanzato non bisognerebbe emigrare per lavorare, lasciare i propri affetti e la propria casa, perché questo aumenta i costi del vivere, l’incertezza, ma anche le privazioni, e soprattutto, con la crisi pandemica del Covid, queste paure sono diventate più forti.
E allora che fare? Bisogna spingere imprese e Stato a investire nelle tecnologie moderne, a creare lavori buoni, da Paese avanzato, a lasciar perdere i settori “facili” e i cattivi lavori ad alta intensità di lavoro, che causano sfruttamento e bassi salari. Il turismo e la ristorazione, pur importanti, sono settori residuali in un Paese grande e avanzato, mentre bisogna sviluppare politiche industriali che creino segmenti produttivi ad alto contenuto tecnologico, far leva solo su innovazione, ricerca e sviluppo, e non sul costo del lavoro per aumentare la competitività. Questo permetterebbe di aumentare crescita, qualità della vita e sviluppo umano, piuttosto che rincorrere schemi obsoleti che fanno riferimento al mantra arcaico del “guadagnarsi da vivere”.
(da Il Fatto Quotidiano)

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LE VIRTU’ NECESSARIE AL PAESE

Giugno 7th, 2023 Riccardo Fucile

L’ANALISI DI ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Dopo il recente successo elettorale sono ancor più aumentate le probabilità che la destra governi il Paese per l’intera durata della legislatura. È una destra, come si sa, in buona parte diversa da quella a trazione berlusconiana che l’Italia ha conosciuto nei decenni trascorsi. Oggi la sua componente maggioritaria non solo ha un passato estraneo all’ufficialità repubblicana, ma è più grintosa e soprattutto più desiderosa di rappresentare una svolta. D’altra parte il grande successo di Fratelli d’Italia e la vittoria personale di Giorgia Meloni nascono proprio da ciò: dal desiderio diffuso che il Paese conosca una stagione di decisi cambiamenti. Bisogna intendersi però su che cosa. Ad esempio, sostituire gli occupanti di questa o quella poltrona è forse necessario per attuare nuove politiche, ma agli occhi dell’opinione pubblica non è certo il segno di alcun cambiamento. Può essere una scelta comprensibile ma non costituisce alcuna novità. Tanto meno lo è l’intenzione di offrire nuovi sfondi storico-identitari al Paese. Alla stragrande maggioranza del quale di D’Annunzio, del duce e dei futuristi non importa oggi quasi nulla (come del resto assai poco gli importava ieri di Duccio Galimberti e del Salone del Libro): può dispiacere — a me personalmente dispiace — ma è così. Ben altri sono gli ambiti nei quali l’opinione pubblica, in specie quella parte che l’ha votata, si aspetta che la destra mostri la sua capacità di cambiare le cose.
E naturalmente sono ambiti dove cambiare non è per nulla facile. Per molti aspetti, infatti, l’Italia che la destra eredita è un Paese con le spalle al muro. Ricordo alcuni fatti peraltro notissimi: siamo un Paese geologicamente sfasciato che letteralmente ci frana sotto i piedi e per quello che sta in piedi è devastato dal turismo di massa fino al punto che luoghi come Venezia, Firenze, Capri (il cui scempio da solo meriterebbe un libro) rischiano ormai una virtuale disintegrazione, mentre arabi, russi e cinesi comprano tutto ciò che è possibile comprare; un Paese dove non si fanno più bambini, sicché si calcola che già nel 2035 avremo meno di un lavoratore per ogni pensionato e dove l’evasione fiscale — che per certe categorie e per certe parti della Penisola è la regola — raggiunge la cifra mostruosa di circa 90 miliardi di euro l’anno: due fatti che messi insieme rappresentano un’ipoteca angosciosa sulla possibilità di continuare in futuro a finanziare il nostro debito pubblico. Ancora: siamo un Paese dove la sanità pubblica è sempre più in sofferenza, per cui si possono aspettare mesi per una visita o un esame medico; dove i servizi di trasporto urbano da Roma in giù (Roma compresa) sono un calvario e dappertutto il trasporto ferroviario suburbano e regionale agonizza; dove per l’istruzione spendiamo meno che ogni altro Paese della Ue, dove abbiamo più laureati solo della Romania e nel quale metà dei nostri quindicenni, dopo dieci anni di scuola dell’obbligo, non sono in grado di capire che cosa vuol dire un testo scritto in italiano. Siamo un Paese con una giustizia dai tempi biblici servita da un corpo di magistrati troppo spesso inadeguati (per usare un cauto eufemismo) e nelle cui carceri l’anno scorso si sono registrati 7 suicidi al mese (il numero più alto da quando il dato viene registrato); dove la stragrande maggioranza della popolazione non legge neppure un libro all’anno; dove 2 milioni e trecentomila famiglie non hanno alcun collegamento al web e non possiedono neppure un cellulare, mentre altre 11 milioni vanno su internet solo con il cellulare, ma dove, in compenso, non cessa di inghiottire soldi un sistema radiotelevisivo pubblico di tipo sovietico-libanese.
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo ma alla fine un dato risulta evidente: moltissimo di ciò che nel nostro Paese non funziona rimanda in un modo o nell’altro a un solo fattore: allo Stato, alla sfera pubblica (quella centrale come quella periferica dei «territori»), alle regole con cui questa funziona e al suo personale. Cambiare il modo d’essere di tutte le amministrazioni pubbliche è ciò di cui l’Italia ha il più urgente bisogno. Senza di che tutto il resto è inutile, senza di che qualunque svolta sarà solo fumo negli occhi, qualunque pretesa frattura solo un’innocua incrinatura. Si tratta di un vasto, vastissimo programma, certo. Ma se il Paese ha dato fiducia alla destra, a questa destra, è perché si è convinto, per l’appunto, che servisse proprio una novità politica di tale forza per realizzare qualcosa che è al di fuori dall’ordinario. Perché ha pensato che valesse anche la pena di correre qualche rischio (ad esempio sul piano internazionale, rischio che per fortuna non c’è stato) pur di cercare di uscire dalla strettoia di incapacità, di indecisioni e di inefficienza, che da decenni ci stanno soffocando portandoci alla paralisi.
Il fatto è però che per affrontare con qualche speranza di successo un’attesa di tale portata non bastano i numeri di una maggioranza. Non serve la leadership di un capopartito per quanto di successo. Serve, invece, una leadership capace di dar voce al Paese parlando a tutto il Paese. Giorgia Meloni ne avrebbe probabilmente la capacità e la passione necessari ma finora non c’è riuscita. In lei è ancora troppo preponderante la dimensione del battibecco polemico, della mimica da comizio, il gusto della battutaccia e del mandare (metaforicamente) l’avversario a quel paese. Il suo, insomma, resta un discorso fortemente divisivo, acre, concentrato sul momento. Laddove una leadership nazionale rivolta alle grandi cose, ai grandi obiettivi che davvero contano e segnano una svolta, quella svolta di cui l’Italia ha un assoluto bisogno, dovrebbe invece rivolgersi all’intera collettività nazionale. Quindi volare alto, muoversi al di sopra delle divisioni della lotta politica quotidiana, trovare i toni e le parole che arrivano, più che alle menti, ai cuori di tutti. Facendo un appropriato uso dell’arte retorica? Certo: non è stato forse sempre improntato ad un’alta retorica il discorso dei capi democratici di cui tutti ricordiamo i nomi? Per tornare a vivere come merita e come è ancora nelle sue possibilità, l’Italia ha bisogno, com’è ovvio, di scelte politiche appropriate e di comportamenti pubblici virtuosi: e sarà questo, è questo, il vero banco di prova della destra. Ma non basta. L’Italia ha egualmente bisogno di ascoltare nelle parole di chi la guida un timbro nuovo che la scuota e la risvegli.
Ernesto Galli della Loggia
(da il Corriere della Sera)

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VASCO ROSSI: “I POLITICI CI RACCONTANO SOLO FAVOLE, L’ITALIA NON CONTA NULLA NEL MONDO”

Giugno 7th, 2023 Riccardo Fucile

“I POLITICI FANNO SOLO I LORO INTERESSI, NON QUELLI DEL PAESE”

“Io sono un provocatore: l’artista deve provocare le coscienze per tenerle sveglie. E se qualcuno si innervosisce, meglio.Così si sveglia”. Arrivando al Dall’Ara per il debutto ufficiale del suo tour, dopo le due prove generali di Rimini, Vasco Rossi assolve alla sua maniera la funzione pasoliniana del ruolo: “Tra le prime parole del mio concerto dico che bisogna guardare in faccia la realtà, un verso di Dillo alla luna, e la realtà non è quella che ci racconta chi comanda. Più che mai sento nell’aria una narrazione edulcorata che non corrisponde alla realtà. C’è chi vuole dire che va tutto bene, si preoccupano solo del consenso. La politica ci racconta solo favole, sento solo dei gran discorsi, discorsi, discorsi ma nessuno fa niente. I politici non fanno gli interessi del Paese ma solo i loro personali, tutelano solo i loro di interessi, dicono solo un sacco di stronzate per prendere voti. L’Italia qui, l’Italia là… Macché grandeur: l’Italia non conta niente nel mondo, siamo un paese piccolissimo, bisogna dire grazie se è ancora in Europa”.
Il Blasco, appena atterrato in elicottero da Rimini dove alloggia al Grand Hotel (anche se abita a due chilometri dallo stadio bolognese farà su e giù), non salva nessuno: “Io sono ancora radicale, salvo solo Pannella che non c’è più… della distinzione destra-sinistra non me ne frega un cazzo.i politici di oggi sono quasi tutti da bocciare: lo dico durante la canzone T’immagini , Meloni, Berlusconi, Salvini, ma anche i cinquestelle e i comunisti, tutti dicono solo favole. Non ho problemi a fare i nomi”.
A Bologna ha venduto 160 mila biglietti per quattro sold out (6-7-11-12 giugno) e arriverà a 450 mila per tutto il tour (altre due date a Roma, Palermo e Salerno). “Finalmente Bologna. Non scontato profeta in patria”, ha scritto sul suo profilo Facebook e lo ribadisce ai giornalisti prima di salire sul palco. “Per me è un omaggio a questa città che unisce l’Emilia e la Romagna, quello che sono lo devo anche a Bologna che mi ha adottato dall’età di 15 anni, ci sono cresciuto, ci ho fatto l’università, e mi sono formato culturalmente, ho fatto teatro sperimentale, ho scoperto Ionesco, la letteratura americana, Ginsberg, Kerouac, il progressive rock e il grande sogno anarchico di Bakunin. Sempre da qui ho cominciato ad amare l’arte di scrivere canzoni e sono partito per questa straordinaria incredibile ed inimmaginabile avventura artistica e musicale”.
“Ogni volta me la godo come se fosse l’ultima, alla mia età…” sorride il 71enne cantautore di Zocca ai cronisti nel ventre del Dall’Ara, alle spalle del palco da 70 metri per 26: “Ma finché ho la forza vado avanti. Quest’anno San Siro era occupato, l’anno prossimo lo prenoto per un mese, faccio anche dieci date. Chi ne fa una sola? Ogni artista ha il pubblico che si merita”. Lo stuzzica l’idea di una serie di concerti nello stesso teatro, come Springsteen a Broadway, ma non è ancora il momento: “Finché ho questo popolo, finché riempio gli stadi…”.
La scaletta da oltre due ore e 40 minuti di show collaudata al Neri di Rimini prevede 21 pezzi più 5 bis. Una decina in meno rispetto all’apoteosi di Modena Park del 2017. Nel percorso che attraversa tutta la sua produzione, ripesca anche un po’ di brani minori – addiittura con qualche inedito live – meno frequentati o lasciati in freezer da qualche decennio, come Stendimi, Domani sì adesso no, T’immagini, Non sei quella che eri o Rock’n roll show. Dall’ultimo album del 2021, Siamo qui, ne ha previste quattro.Come conseguenza di questa selezione, anche un po’ spiazzante, tra i grandi classici inevitabilmente alcuni sono stati sacrificati, come Bollicine, Colpa d’Alfredo, Stupendo, Deviazioni, Liberi liberi o Un senso. Prevale, insomma, un po’ di più l’anima rock più ruvida e ruspante.“C’è sempre l’estate prossima” – dice Vasco – “…se non arriva la fine del mondo, ci rivediamo a giugno, tra un anno”
(da La Repubblica)

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SPERANZA, BOSCHI E FDI: ALLA POLITICA I SOLDI DELLE IMPRESE

Giugno 7th, 2023 Riccardo Fucile

GIORGIA, A LEI 61MILA EURO… A SPERANZA 30.000 EURO DA FEDERFARMA… ELLY SCHLEIN SI E’ PAGATA DA SOLA 7.500 EURO

Nicola Fratoianni batte Giorgia Meloni, Elly Schlein si autofinanzia, ma il caso più singolare è quello di Roberto Speranza, ex ministro della Salute sponsorizzato da Federfarma.
I documenti depositati dagli onorevoli a Montecitorio rivelano le donazioni ricevute dagli eletti in campagna elettorale, appena prima delle elezioni dello scorso settembre.
E così – come rivela AdnKronos – si scopre che la premier ha ricevuto in totale 61mila e 200 euro, inclusi 5mila dalle casse di Fratelli d’Italia e 1.000 dal suo fedelissimo Alfredo Mantovano, che poi sarebbe diventato sottosegretario a Palazzo Chigi.
Tra i contributi a Meloni si notano i 20mila euro da Cospe srl, azienda del settore edile, e uguali 20mila da Italtrans, attiva nella logistica. Somme minori arrivano da Bresi srl (3.500 euro), Dcs Costruzioni (4.200) e Mc Home (1.500).
Ma il caso forse più controverso è appunto quello di Roberto Speranza, segretario di Articolo 1 candidato nella lista Pd – Democratica e progressista: nell’elenco presentato alla Camera risultano una donazione da 15mila euro da parte di Federfarma e un altro versamento, di identico importo, della sua controllata Farmaservizi srl. Federfarma è la Federazione nazionale dei titolari di farmacia italiani, un sindacato che – attraverso sue sigle satellite – in campagna elettorale ha sostenuto anche i due principali partiti in corsa, erogando un totale di 20mila euro al Pd e altrettanti a Fratelli d’Italia.
Tanto è vero che la stessa Federfarma ha finanziato con 3mila euro anche Marcello Gemmato di FdI, poi nominato sottosegretario alla Salute nel governo Meloni.
C’è poi Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana e fortunato destinatario di un maxi-donazione da 110mila euro. Il benefattore è la poco conosciuta – almeno in Italia – Social Changes Inc, una benefit corporation con sede in California e vicina alle posizioni dei Democratici americani (tra i vertici della società compare pure un italiano, Jacopo Castelletti). Social Changes si occupa soprattutto di campagna elettorali e, come precisano da Sinistra Italiana, i soldi a Fratoianni corrispondono a “offerte di servizi” digitali.
Niente male pure la raccolta fondi di Maria Elena Boschi, riuscita a strappare il seggio con la lista unica Azione-Italia Viva. L’ex ministra renziana si è portata a casa 30mila euro da Unicusano, l’università telematica fondata dall’attuale sindaco di Terni, Stefano Bandecchi, peraltro leader di Alternativa Popolare (l’ex partito di Angelino Alfano) Bandecchi è un finanziatore seriale della politica e si distingue per una certa trasversalità, visto che in passato ha sostenuto Forza Italia, ma alle ultime elezioni ha donato pure 30mila euro a Impegno civico, il partito di Luigi Di Maio morto nella culla.
A Boschi anche 20mila euro da Valsabbia investimenti (settore siderurgia) e altri 20mila da Telfin (attiva nell’immobiliare). Nessuna donazione per il leader 5 Stelle Giuseppe Conte, mentre la nuova segretaria del Pd Elly Schlein (all’epoca delle elezioni semplice candidata) si è autofinanziata con 7.500 euro.
E ancora: l’onorevole Paolo Trancassini, questore della Camera in quota FdI, ha ricevuto soldi da diverse aziende come Assopetroli/Assoenergia (5mila euro), Ospedale San Carlo di Nancy (2.500, girati anche a Nicola Zingaretti), Socylab (3mila), Tiberia Hospital (2.500). Il ministro leghista Giancarlo Giorgetti registra invece 10mila euro dall’imprenditore Antonio Tirelli, presidente di Iperal (grande distribuzione), mentre il suo “vice” Maurizio Leo (Fratelli d’Italia) conta 25mila euro dalla società di investimenti Victoria Capital e altri 20mila dalla Ducoli Achille srl, del settore delle demolizioni industriali.
Paolo Bulgari, erede della famiglia dei gioielli, ha invece finanziato con 10mila euro Michela Di Biase, deputata dem e moglie di Dario Franceschini. Nel fu Terzo Polo, da segnalare i 10mila euro donati dalla Marican Heritage 4 srl (edilizia industriale) a Mara Carfagna. Il leghista Edoardo Rixi, viceministro ai Trasporti, brinda con alcune aziende del settore: 5mila euro da Cosme, altrettanti da Paratori spa, 6mila da Trasporti pesanti srl.
(da agenzie)

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“HO CARICATO UNA STECCA, BAM! È SVENUTO. MINCHIA CHE PIGNA CHE GLI HO DATO”: LE INTERCETTAZIONI DI UNO DEI CINQUE AGENTI DELLA QUESTURA DI VERONA FINITI AI DOMICILIARI CON L’ACCUSA DI TORTURE NEI CONFRONTI DI PERSONE IN STATO DI FERMO, TRA CUI DIVERSI MIGRANTI

Giugno 7th, 2023 Riccardo Fucile

“HO FATTO SINISTRO DESTRO, PAM, SI È SPENTO, HO PRESO LO SPRAY E GLIEL’HO SPRUZZATO TUTTO SULLA FACCIA”

La confessione del primo pestaggio – che per i magistrati inquirenti rientra nel reato di «tortura» – i suoi colleghi della Squadra mobile l’hanno raccolta quasi in diretta dall’agente Alessandro Migliore, 25 anni ancora da compiere, intercettato la sera del 22 agosto scorso.
Il poliziotto parla con la fidanzata Nicole, e le racconta quello che è successo con un italiano fermato la notte precedente. «Ha iniziato a rompere il cazzo… Vi spacco sbirri di merda di qua e di là – dice Migliore –. Allora ha dato una capocciata al vetro… Il collega apre la porta e “vieni un attimo fuori… adesso ti faccio vedere io quante capocciate alla porta fai”… Boom boom boom boom… E io ridevo come un pazzo».
Poi quasi si vanta di essere entrato in azione: «Amò, lui stava dentro l’acquario (la stanza dei fermati con una parete a vetro, ndr), gli ho lasciato la porta aperta in modo tale che uscisse perché io so che c’è la telecamera dentro… Amò, mi guarda, mi ero messo il guanto, ho caricato una stecca, amò, bam, lui chiude gli occhi, di sasso per terra è andato a finire, è rimasto là… È svenuto… Minchia che pigna che gli ho dato…».
Nell’atto d’accusa si sostiene che poi Migliore ha «istigato» un altro poliziotto a tiragli un calcio alla schiena. Dei cinque episodi per i quali si ipotizza la tortura, questo è l’unico contro un italiano; gli altri sono cittadini stranieri, e secondo il giudice i poliziotti indagati contavano sul loro silenzio.
Senza calcolare, però, che i loro telefoni erano finiti sotto controllo nell’ambito di un’altra indagine, su una perquisizione di cinque mesi prima fin troppo benevola (praticamente mancata, secondo gli inquirenti) nei confronti di un gruppo di albanesi sospettati di tentato omicidio e detenzione di armi. Parenti del gestore di una discoteca frequentata dal gruppo di poliziotti «ballerini», che una volta compreso di chi si trattasse si sono fermati.
Da lì i controlli su Migliore, l’ascolto del primo pestaggio e la decisione dei colleghi guidati dal questore Roberto Massucci – d’accordo con la Procura – di non fermarsi a una denuncia nei confronti dell’agente, bensì di aumentare il numero di microspie e telecamere in questura, alla ricerca di riscontri su quello ed altri episodi, per costruire un’indagine che svelasse l’eventuale marciume in nome della trasparenza.
Aprendo uno spaccato di altre «torture» documentate quasi in diretta. Come quella nei confronti di un rumeno fermato e accompagnato in questura il 14 ottobre, addebitata a Migliore e un altro poliziotto; è sempre «il giovane» a raccontare alla fidanzata l’indomani: «Ha iniziato a sbroccare… Vabbè, gli abbiamo tirato due tre schiaffi a testa ma così, giusto per… Allora si è buttato a terra, gli stavo per dare un calcio, però… L’ho messo in piedi… Ho fatto sinistro destro, pam pam… Il collega fa “no, grande Ale”… Si è spento, l’ho portato dentro la cella, ho preso lo spray e gliel’ho spruzzato tutto sulla faccia».
Per i magistrati, l’uso dello spray urticante anche su soggetti ridotti all’impotenza, e dunque contro le regole, è «indicativo della volontà d infliggere ulteriore, gratuita sofferenza a un soggetto già percosso con violenza»
Riassunto nei capi d’accusa che descrivono, a proposito di un altro episodio, il particolare di un fermato «spinto nella direzione di una stanza dove aveva urinato (sebbene secondo la sua testimonianza avesse solo fatto finta, ndr) e premuto al suolo bagnato, di fatto impiegando la sua persona come uno straccio per pulire il pavimento».
In attesa di ascoltare le versioni difensive, nel catalogo delle accuse rientrano anche le percosse nei confronti di un «tunisino di merda, figlio di puttana» che il 21 ottobre era finito a terra per i calci ricevuti, e si è sentito orinare addosso da un poliziotto che diceva «so io come svegliarlo».
L’uomo ha raccontato di essere stato picchiato e umiliato in un tunnel della questura, di cui — ancora una volta — hanno parlato gli agenti inquisiti e intercettati, un mese più tardi. La notte del 17 novembre un assistente capo che non figura tra i cinque arrestati, parlando con un collega non identificato avverte: «Volevo dirti, e questo vale per tutti… Evitate di alzare le mani nell’acquario… Perché non si sa per quale motivo sono andati a vedere le registrazioni… Magari questi iniziano a controllare e cagare il cazzo… Quindi se dovete dare qualche schiaffo, nei corridoi…». Un altro interviene: «Abbiamo sempre fatto nel tunnel».
(da agenzie)

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VERONA, LE TORTURE DELLA POLIZIA AI SENZATETTO: “MI HANNO USATO COME STRACCIO PER PULIRE L’URINA”

Giugno 7th, 2023 Riccardo Fucile

IL RACCONTO DEL CITTADINO RUMENO: IL PESTAGGIO E LO SPRAY URTICANTE, POI IL RILASCIO SENZA SPIEGAZIONI

Un ispettore di polizia e quattro agenti sono stati arrestati a Verona. Le accuse sono tortura, lesioni aggravate, peculato, rifiuto e omissione di atti di ufficio e falso ideologico in atto pubblico.
Secondo le indagini effettuavano pestaggi ai danni di cittadini fermati nel corso di controlli di routine, quasi sempre stranieri. Uno di loro è il cittadino rumeno Nicolae Daju. 56 anni, vive a Verona da 3, era venuto per cercare lavoro ma ora dorme sulle panchine del parco davanti al cimitero monumentale.
E a Repubblica racconta che i poliziotti lo hanno usato anche come straccio per pulire il pavimento. Tutto comincia il 14 ottobre 2022: «Mi trovavo al bar Primo Kilometro, in zona Fiera. Ero con un amico, stavamo bevendo una birra e un caffè. Improvvisamente è arrivata una macchina della polizia, sono scesi due agenti, sono venuti subito da noi. E ci hanno chiesto i documenti».
Il pestaggio
Nicolae ricorda di aver dato la carta d’identità. E che poi l’hanno costretto a salire in auto. «Ma prima di farmi entrare all’interno mi hanno spruzzato in faccia lo spray urticante», sostiene. I poliziotti lo hanno fatto «senza motivo. Non avevo fatto niente». Una volta in questura «uno dei due poliziotti (dalla descrizione si capisce che parla di Alessandro Migliore, ndr) mi ha afferrato i capelli e trascinato di peso, fino a rinchiudermi dentro una cella con una parete trasparente». Dice di non aver reagito perché aveva paura. E sostiene di essere una delle persone trascinate a terra nell’urina di cui si parla nell’ordinanza di arresto. «Avevo bisogno di andare al bagno, con urgenza. Ho cercato di attirare l’attenzione di un poliziotto gesticolando attraverso la parete trasparente». A quel punto «mi hanno detto che non era possibile andare al bagno e che avrei dovuto farla a terra».
L’urina a terra
A quel punto, dice nel colloquio con Enrico Ferro, lui ha obbedito all’ordine: «Certo, mi sono messo in un angolo e ho fatto pipì. Purtroppo mi hanno punito per questo». Ovvero: «Appena ho finito di urinare un poliziotto (l’assistente capo Loris Colpini, ndr) è entrato dentro come una furia. Mi ha spruzzato in faccia lo spray urticante ancora una volta e poi mi ha trascinato a terra sopra la pozza di urina». Non è riuscito a ribellarsi perché «ero in confusione per lo spray e mi faceva male dappertutto». Infine: «Quando mi sono rialzato, a un certo punto, il primo poliziotto (Migliore) mi ha colpito con un pugno all’altezza del fegato». E alla fine «poco dopo le 21 mi hanno accompagnato alla porta e lasciato andare».
(da agenzie)

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E ADESSO PARLIAMO DI BIBBIANO?

Giugno 7th, 2023 Riccardo Fucile

CLAUDIO FOTI DOPO L’ASSOLUZIONE: “MESSO ALLA GOGNA DA POLITICANTI, VOGLIO UN RISARCIMENTO CULTURALE”… “DA SALVINI E DI MAIO UNA POLTIGLIA DI MENZOGNE”

Per conoscere i motivi dell’assoluzione dello psicoterapeuta Claudio Foti nel caso Bibbiano bisognerà attendere altri tre mesi. Ma intanto i 4 anni di pena che il fondatore della Onlus “Hansel e Gretel” aveva ricevuto per i reati di abuso d’ufficio e lesioni gravissime sono cancellati. Era il 27 giugno del 2019 quando il suo nome venne indicato nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti nella val d’Enza.
A quasi quattro anni di distanza lui dice che «hanno vinto verità e giustizia». Ma non dimentica: «Mi hanno persino accusato di vestirmi da lupo per spaventare i bambini». E rimpiange: «Tutto ciò che ho creato è andato distrutto. Ho dedicato anima e cuore per far nascere il centro Hansel & Gretel e la gogna mediatica di questi anni l’ha raso al suolo. Mi hanno accusato di lesioni, proprio io che invece ho sempre difeso i bambini».
Una poltiglia di menzogne
Nell’intervista che oggi rilascia a La Stampa Claudio Foti dice che non dimenticherà mai il giorno dell’arresto: «Vennero a prendermi davanti ai miei figli. Ho subito quattro anni di mortificazioni e nei primi sei mesi la gogna mi ha accompagnato in tutte le giornate. Per difendermi ho dovuto portare in tribunale una valanga di prove: dossier, video, testimonianze. È stato estenuante».
E nel colloquio con Antonio Giaimo ribadisce: «In questi anni è stata criminalizzata la psicoterapia del trauma, è stata accreditata la narrazione dei bambini rubati alle loro famiglie per essere dati in pasto a coppie omosessuali. Una poltiglia di menzogne, cultura razzista, speculazione politica. Tanti innocenti hanno pagato pesantemente questa caccia alle streghe. Questa giornata impone delle profonde riflessioni politiche e istituzionali». Per Foti «tutto il caso di Bibbiano è stato potenziato e gonfiato fino alle elezioni regionali dell’Emilia Romagna. Qualcuno pensava di fare una nuova marcia su Roma».
Le responsabilità della politica
Secondo lo psicoterapeuta «si voleva dimostrare che Claudio Foti era contro le cosiddette politiche per la famiglia che alcuni partiti sventolavano come loro vessillo». Per esempio «Matteo Salvini venne a Bibbiano a tenere un comizio, mostrava l’immagine di un bimbo portato via alla famiglia. Era falsa. Ancora una volta menzogne che suscitano indignazione: voleva essere un attacco mortale a un gruppo sociale».
Foti fa l’elenco delle accuse: «Ci paragonavano a ladri di bambini, meccanismi che fanno perdere di vista la realtà dei fatti. Mi hanno messo alla gogna pubblica. Le voglio ricordare uno dei tanti episodi che ho vissuto in questi quattro anni: sono stato cacciato da un ristorante di Reggio Emilia proprio per come ero stato dipinto da alcuni personaggi politici». E ricorda che anche il Movimento 5 Stelle se l’è presa con lui: «Già, il Pd partito di Bibbiano, diceva Luigi Di Maio. Poi ci è andato al governo insieme, ben due volte».
La riabilitazione
Foti dice che dell’esperienza gli rimarranno dentro «le madri dei bambini che ho curato e conosciuto da vicino. Ecco, la loro stima e fiducia sono rimaste ed è doveroso fare una riflessione: solo chi ti conosce da vicino ti può giudicare e certe affermazioni quindi sortiscono il loro effetto solo su chi si ferma ad un livello superficiale dei fatti». Mentre adesso «tutto il mio lavoro di decenni è andato distrutto. Ma non finisce qui. Non può finire qui. In questi anni ho scritto molto, adesso è il momento di dare il via a tutta una serie di iniziative. Da questo paese non voglio un risarcimento economico. Voglio un risarcimento culturale. Girerò l’Italia per raccontare la mia storia. Il primo appuntamento in agenda è giovedì (domani, ndr). Presenterò il mio libro: “Bibbiano, dubbi e assurdità”. E mi batterò perché tutti quelli che hanno raccontato delle bugie su di me e sul mio lavoro ne rispondano».
(da agenzie)

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SCHLEIN A CARTABIANCA, BORDATE AI NEMICI DEL PD: “ATTACCHI DA CHI NON DECIDE PIU’ E HA LASCIATO SOLO MACERIE”

Giugno 7th, 2023 Riccardo Fucile

“HO RICEVUTO UN MANDATO CHIARO, SE QUALCUNO PENSA DI DECIDERE IN POCHI DAVANTI A UN CAMINETTO NON HA CAPITO NULLA, A ME INTERESSA COINVOLGERE GLI ITALIANI NON SOLO IL PARTITO”

Gli attacchi più duri Elly Schlein li riserva per i nemici interni al Pd e per un ex come Matteo Renzi. Ospite di Cartabianca su Raitre, la segretaria dem risponde alle diverse critiche già collezionate da quando ha vinto le primarie. A cominciare dall’ex premier Matteo Renzi, che dopo il flop alle Comunali ha accusato gli esponenti della sinistra massimalista di infiammare gli animi dei tifosi, per poi perdere anche le riunioni di condominio.
«Diciamo che prima devo ricostruire il condominio dopo che è passato lui», risponde Schlein che ne ha anche per chi l’attacca dall’interno del partito. A chi le rimprovera eccessiva vaghezza e assenza di un programma chiaro, la segretaria Pd replica: «Sono una persona che non prende mai una decisione senza ascoltare altri 10. Io credo in un modello di leadership che si circonda dei più competenti e non dei più fedeli. Non sono disposta più a tornare al meccanismo dei caminetti in cui si decideva in pochi. Se qualcuno pensava che non sarebbe cambiato niente si sbagliava. Io mi confronto molto spesso e con tutti. Ma su due punti: non facciamo i caminetti con i soggetti di prima, e abbiamo ricevuto un mandato un programma chiaro».
Tra le tante critiche incassate, non ce ne sarebbe una che le ha fatto più male: «Le critiche si ascoltano sempre – risponde Schlein a Bianca Berlinguer – fa pare dell’ascolto e aiuta a prendere scelte migliori. Se devi fare scelte nette, problema del Pd negli ultimi anni che l’ha portato a non prendere mai una decisione. Vogliamo fare un percorso che coinvolga il Paese, non solo il partito. A differenza di chi ci governa, credo che ci siano sfide oggi come il cambiamento climatico che non trova più soluzione nei nostri confini nazionali. Non è rifugiandosi in confini ristretti che troveremo soluzioni».
Gli attacchi a Giorgia Meloni
Prima di infiammarsi Schlein aveva puntato dritto contro il governo Meloni, accusandolo di avercela «con le persone povere. È aumentata la precarietà e hanno colpito le persone più fragili col decreto Cutro abolendo la protezione speciale. Vedo un’involuzione economica, sociale, ambientale».
A proposito della stretta sui controlli della Corte dei conti sui progetti del Pnrr, Schlein insiste che il governo «ha fatto un’ulteriore forzatura per distogliere l’attenzione dai ritardi sul Pnrr. Il governo deve dirci perché ha passato otto mesi a parlare della governance del piano, deve spiegarci i motivi dei ritardi. Io temo che questo governo non condivida le finalità del Pnrr, ho il timore che non condividendo finalità e obiettivi del Pnrr cerchi dei capri espiatori».
Un metodo che trova una sintesi nel «vittimismo» dice Schlein «la cifra politica di Giorgia Meloni e ora l’ha portato ad essere vittimismo di Stato, ma oggi sono al governo e devono dare risposte al Paese».
(da agenzie)

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