Giugno 24th, 2023 Riccardo Fucile
SI APRE LA CORSA ALLA SUA SUCCESSIONE, A MARZO 2024 LE PRESIDENZIALI
Temeva le Rivoluzioni colorate nelle Repubbliche satelliti. Ignorava però di stare coltivando la sua nemesi in seno. Evgenij Prigozhin era una sua creatura. Gli doveva tutto. Eppure si è trasformato nel Mostro di Frankenstein che si è ribellato contro il suo artefice. E che ieri gli ha improvvisamente inferto un colpo quasi fatale sotto gli occhi del mondo.
In oltre un ventennio al potere Vladimir Putin è sopravvissuto come un’araba fenice a diverse crisi. Ma comunque finirà, seppure riuscisse a non soccombere nella battaglia contro il capo dei miliziani della Wagner, uscirà pericolosamente indebolito dall’umiliazione di aver visto i mercenari che per anni hanno combattuto in segreto le sue guerre nel mondo, dall’Africa alla Siria, marciare senza incontrare alcuna resistenza da parte delle forze armate quasi fino alle porte di Mosca, mentre i suoi soldati un anno e mezzo fa dovettero ritirarsi con la coda tra le gambe da Kiev.§
Egli stesso, nel suo breve e unico intervenuto televisivo, durato appena poco più di cinque minuti, ha accusato Prigozhin di “tradimento” senza mai nominarlo, lo stesso trattamento riservato al suo acerrimo nemico che sta dietro le sbarre, il dissidente Aleksej Navalny.
E ha evocato la presunta “pugnalata alle spalle” che nel 1917 “rubò” alla Russia la meritata vittoria nella prima guerra mondiale e precipitò il Paese nella Rivoluzione bolscevica e nella guerra civile. Parole che volevano trasmettere alla popolazione e al mondo fermezza contro i rivoltosi, ma che non hanno fatto che evocare i più pericolosi scenari provenienti dal passato del Paese.
Il discorso di Putin
Putin non ha menzionato neppure il ministro della Difesa Sergej Shojgu o il capo dello staff delle forze armate Valerij Gerasimov. Non può fare a meno di difenderli perché rappresentano lo Stato, come ha fatto appoggiando l’intesa che avrebbe soggiogato i mercenari alla Difesa e che ha probabilmente accelerato il colpo di mano di Prigozhin, ma di certo mal tollera che i due leader dell’esercito abbiano lasciato che i loro dissidi personali finissero col mettere in pericolo la sua stessa sopravvivenza.
Se Prigozhin è arrivato così lontano però non è che colpa sua. Putin prima ha permesso che costituisse un potente esercito privato, mossa pericolosissima. Poi ha taciuto per troppo tempo sulle sue intemerate, sui suoi continui assalti contro l’esercito e, dunque, contro il suo stesso potere.
Altri potrebbero un domani approfittare della sua estrema debolezza ora che è stata messa in mostra. Non solo i suoi nemici esterni, gli ucraini che cercheranno di approfittare del momento per tentare di sfondare le linee difensive dei russi. Ma soprattutto i suoi nemici interni.
Le presidenziali in Russia
Il 18 marzo 2024 si terranno le presidenziali russe e il tentato golpe potrebbe portare allo scoperto la corsa alla successione che da mesi si svolge dietro le quinte tra i tecnocrati convinti che il conflitto vada ripensato e i falchi che vorrebbero invece che la Russia scatenasse tutta la sua potenza di fuoco contro l’Ucraina per chiudere definitivamente la faccenda.
Se mai Prigozhin salisse al potere, cosa che al momento appare improbabile qualunque sia la reale ragione dietro all’improvvisa ritirata, le conseguenze sarebbero imprevedibili.
La domanda determinante per il futuro della Russia adesso è chiarire se ha alleati al governo. Per molto tempo l’ex galeotto diventato miliardario ha goduto della protezione del capo della Guardia nazionale Viktor Zolotov, del governatore di Tula ed ex guardia del corpo di Putin, Aleksej Djumin, e infine del capo dello staff del Cremlino, Anton Vajno, ma ultimamente i tre sembravano aver smesso di intercedere per lui. Mentre il miliardario e uno dei più stretti consiglieri di Putin, Jurij Kovalchuk, considerato il più potente “mecenate” del cuoco ribelle, recentemente ne aveva ufficialmente “preso le distanze”.
Una farsa per mascherare il complotto? Mentre due dei suoi ex alleati militari, il generale Sergej Surovikin e il viceministro della Difesa Alekseev, hanno registrato video che condannavano il suo ammutinamento e invitano i combattenti della Wagner a desistere. E le agenzie di sicurezza come l’Fsb, che tutto governa, a partire dal Cremlino, non hanno mai ben visto Prigozhin e le sue credenziali di ex galeotto. Il suo sostegno popolare infine è infinitesimale.
Prigozhin impossibile
Potrebbe forse godere di padrini all’estero. Gli oligarchi in esilio che bramano la revoca delle sanzioni come Mikhail Fridman o la rimozione di Putin come Mikhail Khodorkovskij per poter tornare in patria. Oppure le potenze occidentali intenzionate a usarlo come testa d’ariete finché hanno un nemico in comune.
Per quanto possa accattivare l’idea della follia momentanea, sembra chiaro che si sia trattato di un tentato golpe preparato per tempo: prima il video del falso raid contro Wagner, il casus belli fabbricato ad arte dal re della propaganda, poi la marcia su Mosca, senza sparare un colpo e incontrando quasi nessuna resistenza. Prigozhin potrebbe avere alleati influenti nell’élite che non si sono ancora fatti vivi. Ma che potrebbero farlo presto. La marcia abortita potrebbe soltanto essere stato un test dell’assalto al potere di Vladimir Putin.
(da La Repubblica)
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Giugno 24th, 2023 Riccardo Fucile
MA QUANDO MAI LA MELONI E’ STATA PER UNA DESTRA SOCIALE? CHI HA CONOSCIUTO I SUOI REFERENTI SA BENE CHE INTERESSI HANNO SEMPRE DIFESO DA 30 ANNI… E’ UNA VITA CHE PRENDONO PER IL CULO IL POPOLINO … HA INVECE RAGIONE CACCIARI: “SE NON SI FOSSE BERLUSCONIZZATA SAREBBE ANCORA AL 4%”: ESATTO, MEGLIO IL 4% E MANTENERE UN IDEALE CHE VENDERSI A REAZIONARI, LOBBY, PUTTANIERI E CORROTTI
“Meloni racconta sempre di aver iniziato a far politica sulle orme di Paolo Borsellino. Ma la destra di Borsellino non è la destra di Berlusconi, sono proprio il diavolo e l’acqua santa”. Sono le parole del direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, che nel corso di Otto e mezzo (La7) ha un confronto col filosofo Massimo Cacciari sulla destra meloniana.
Travaglio sottolinea: “Meloni ha buttato nel cestino via quella tradizione. Tra tutti i difetti, quella destra aveva almeno due pregi: essere destra sociale e legalitaria. Adesso è diventata una destra che fa la guerra ai poveri, illegalitaria e paradossalmente berlusconizzata dopo la morte di Berlusconi, quando invece potrebbero finalmente affrancarsene”.
“Ma quella destra di cui parli prendeva il 4%”, adesso la Meloni ha il 30% proprio perché si è berlusconizzata” osserva Cacciari.
Travaglio continua con una narrazione sbagliata: sono anni che la Meloni e la sua corte viene definita dai media come “destra sociale”, una balla colossale.
Chi, come noi, ha fatto il proprio percorso “sociale” nel Msi, conosce fin troppo bene da che parte stavano i “cattivi maestri” che hanno prodotto la Meloni, compresi quelli che oggi sono assurti ad alte cariche dello Stato o sono ministri.
Leggetevi le mozioni congressuali sottoscritte da costoro, sempre a rappresentare una destra reazionaria e conservatrice, asservita agli interessi economici di pochi.
Per non parlare del loro “passaggio” alla corte di Berlusconi fino a giurare che Ruby fosse la nipote di Mubarak. Poi per darsi una connotazione si sono spacciati per “sociali” per qualche anno, travestimento più consono alle cene eleganti di Arcore e adatto a prendere per i fondelli il popolino di destra.
Dove per “sociali” non era muovere il culo e distribuire pacchi viveri nei quartieri poveri (cosa che almeno CasaPound faceva prima di trasformarsi in “patrioti reazionari” pure loro), ma difendere una lobby al giorno, a seconda di chi protestava, pur di raccattare qualche voto di protesta e spartirsi una poltrona.
Destra sociale e legalitaria questa? Ma non facciamo ridere. Al massimo destra dei bottegai.
Ha ragione invece Cacciari: se non si fosse manifestata apertamente come destra asociale e reazionaria, xenofoba e paraleghista, amica di evasori fiscali e perdonista verso i corrotti, Fdi sarebbe ancora al 4% e non avrebbe rosicchiato l’elettorato di Salvini.
Motivo di più, caro Cacciari, per risponderti: meglio il 4% di testimonianza di una “destra di Borsellino” e vicina ai più deboli, che un 30% conquistato da traditori degli ideali.
Fare politica vuol dire diffondere idee, non rappresentare la parte peggiore degli italiani pur di conquistare una poltrona.
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Giugno 24th, 2023 Riccardo Fucile
PER LA PREMIER IL MES È UNA MEDICINA DA TRANGUGIARE. SALVINI FA UN ALTRO GIOCO PER STRAPPARLE UN PO’ DI VOTI “SOVRANISTI”
La tattica del rinvio, come tanti hanno osservato, è sinonimo di debolezza. Una maggioranza che si assenta in Commissione sulla ratifica del fondo salva-Stati assomiglia al famoso struzzo: mette la testa sotto la sabbia per nascondersi, ma non si accorge che il suo corpaccione rimane in bella vista. Del resto c’era un console e generale romano, Fabio Massimo detto il Temporeggiatore, famoso proprio per le sue tattiche dilatorie.
La differenza era che quel comandante aveva le idee chiare circa i suoi obiettivi, su cosa voleva ottenere. Adesso si temporeggia senza sapere con precisione dove andare. Il centrodestra è prigioniero della sua stessa propaganda. Prima delle elezioni il Mes era il simbolo dell’Europa matrigna che con una mano ti salva sul piano finanziario e con l’altra ti espropria della tua sovranità. Adesso è diventato una strettoia quasi impossibile da aggirare senza pagare un prezzo esorbitante nella logica sia dell’Unione sia dei mercati a cui vendiamo i titoli di Stato, specchio di un alto livello di debito pubblico.
S’intende che non tutte le critiche al meccanismo sono infondate. Ma ben pochi hanno la competenza tecnica per partecipare al dibattito con cognizione di causa. I più, nella stagione dei talk show, si affidano ad argomenti orecchiati. Ed ecco che il Mes diventa una sigla esoterica attraverso cui far passare manovre politiche nate nella cucina domestica. Come è noto, Giorgia Meloni ha intrapreso da tempo un cammino che nelle intenzioni dovrebbe portarla ad essere accettata senza riserve quale interlocutrice dell’”establishment” europeo: capo del fronte conservatore, ma abbastanza pragmatica per tessere rapporti con i popolari e pur coi socialisti e i liberali “macroniani”. Non serve molta immaginazione per capire che in tale prospettiva il Mes è una medicina da trangugiare.
Tuttavia il peso della retorica passata incombe e paralizza. Anche Salvini lo sa, ma il suo gioco è al solito spregiudicato: scavalcare a destra la presidente del Consiglio per condizionarla e strapparle un po’ di voti “sovranisti” . Però è riluttante ad accettare la leadership meloniana ed è tentato dall’organizzare la guerriglia dentro e fuori il perimetro del centrodestra. Sarà un caso, ma sul Mes si è ritrovato in sintonia con l’antico socio, Conte, insofferente a sua volta per via della rivalità con Elly Schlein e contraddizione con se stesso, visto che i 5S il Mes lo avevano accettato.
Oggi però il punto è la capacità della Meloni d’imporre la sua guida alla coalizione. Al momento la leadership è carente. E il rapporto con l’Europa equivale a un esame di maturità: non perché lei debba accettare in toto l’ortodossia europeista, ma per il buon motivo che non esiste un’alternativa nazionalista all’Unione compatibile con la vecchia retorica.
C’è una terza via? Il senatore a vita Mario Monti ne ha suggerito una sul Corriere : ratificare il meccanismo, ma subordinarne l’applicazione (ove mai se ne presentasse la necessità) a una specifica autorizzazione del Parlamento. Un’ipotesi che riecheggia la via imboccata da Berlino, dove sulle cessioni di sovranità si lascia l’ultima parola a una pronuncia della Corte Costituzionale. Quantomeno, è un’idea su cui riflettere.
(da La Repubblica)
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Giugno 24th, 2023 Riccardo Fucile
“ESPANDERE LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA” NON FUNZIONA IN QUESTI CASI
Il governo Meloni ha chiarito più e più volte la sua posizione sul salario minimo: non c’è bisogno di introdurlo in Italia, e anzi sarebbe dannoso, perché ci sono altre misure per alzare i salari – come il taglio del cuneo fiscale – e perché è molto meglio puntare sulla contrattazione collettiva. Cioè, cercare di allargare il più possibile i contratti collettivi nazionali (Ccnl) che i sindacati negoziano con le associazioni dei datori di lavoro.
“La stragrande maggioranza di chi oggi è lavoratore dipendente nel privato è coperto da contratti collettivi nazionali firmati dai sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil, ndr), che già di fatto prevedono un minimo salariale”, aveva detto Giorgia Meloni già prima di diventare presidente del Consiglio, al Festival del lavoro 2022 a Bologna.
Questa è rimasta la linea sua e del suo governo, e per buone ragioni elettorali, nonostante le proteste delle opposizioni.
Ma una sentenza del Tribunale dell’Unione europea, arrivata il 24 maggio, ha messo in evidenza uno dei grandi limiti di questo ragionamento: i contratti collettivi non possono coprire davvero tutti, un salario minimo nazionale sì.
Il caso, in particolare, riguarda una causa mossa da Ryanair contro la Commissione europea per gli aiuti concessi durante il Covid-19
Il caso Ryanair e la sentenza del Tribunale Ue
Nel 2020, il governo italiano ha stanziato 130 milioni di euro di aiuti per le compagnie aeree, per compensare i danni subiti a causa della pandemia. Tra i criteri per accedere a questi aiuti, c’era anche il salario: potevano riceverli solo quelle compagnie aeree che pagavano i loro dipendenti in Italia almeno tanto quanto previsto dal contratto collettivo nazionale di categoria. La misura è stata presentata alla Commissione europea, che l’ha approvata senza fare obiezioni.
Il problema è stato sollevato da Ryanair, che ha fatto causa alla Commissione per non essere intervenuta. L’azienda low cost fa firmare ai suoi dipendenti (anche quelli che vivono in Italia) un contratto irlandese: la paga è più bassa di quella prevista dal contratto collettivo italiano, perché Ryanair non vi aderisce. E ha tutto il diritto di non farlo, legalmente. Anzi, come sottolineato da La Voce, l’associazione che ha negoziato questo Ccnl per nome delle compagnie aeree rappresenta solo l’11,3% del traffico aereo totale in Italia.
Secondo Ryanair, quindi, era ingiusto che potessero avere gli aiuti solo alcune aziende in base a una condizione economica che non è stata decisa da un’organizzazione rappresentativa, ma da una minoranza. Questi aiuti, anzi, andavano contro il principio del libero mercato e della libera concorrenza nel settore dei servizi, che è previsto dall’articolo 56 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Il Tribunale Ue, con la sua sentenza, ha dato ragione a Ryanair: in Italia non c’è una norma che obblighi tutti a riconoscere un certo salario minimo, ma solo un contratto collettivo che non rappresenta davvero le aziende più importanti, quindi basarsi su quello per distribuire degli aiuti economici è scorretto. A sbagliare, formalmente, è stata la Commissione europea che non ha effettuato i necessari controlli prima di dare l’ok.
Il contratto collettivo non può tutelare tutti
La Commissione probabilmente farà ricorso, spiegando meglio perché ha scelto di non fermare la norma. Concretamente, se la sentenza sarà confermata, le compagnie che hanno ricevuto i sostegni dovranno restituirli. Ma la questione è più generale: la decisione del Tribunale Ue mostra che per la contrattazione collettiva, come metodo, è praticamente impossibile arrivare a tutelare tutti i lavoratori.
Dato che i Ccnl si applicano solo alle imprese che scelgono di farne parte, un’azienda come Ryanair può tranquillamente pagare i suoi dipendenti meno delle altre compagnie aeree del settore. Dato che, peraltro, la compagnia irlandese si trova in una posizione di forza nel mercato (fa il 40% dei voli in Italia). E un contratto collettivo non basta, anche se è stato firmato dai sindacati confederali, come in questo caso. Non si può obbligare Ryanair ad alzare i propri salari passando dai Ccnl, e in assenza di un salario minimo nazionale non c’è nessun riferimento per sapere quanto sia ‘giusto’, legalmente, pagare i dipendenti.
(da Fanpage)
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Giugno 24th, 2023 Riccardo Fucile
RIGUARDEREBBE LE COMUNICAZIONI TRA IL 2016 E IL 2020 DI VISIBILIA
Emergono nuovi elementi sul caso della ministra Daniela Santanchè. Dopo la puntata di Report sulle aziende legate alla ministra del Turismo, da cui sono emerse accuse di pagamenti mancati, gestione poco trasparente e tfr mai percepiti, ora spunta anche l’ipotesi di falso in bilancio.
A parlarne è il Corriere della Sera, che cita le carte dell’inchiesta che la Procura di Milano sta conducendo dallo scorso novembre sulla senatrice di Fratelli d’Italia.
In particolare, l’ipotesi di falso in bilancio riguarderebbe le comunicazioni tra il 2016 e il 2020 di Visibilia editore Spa, della quale Santanchè è stata presidente fino a gennaio di quest’anno, quando ha ceduto le sue quote.
“La presentazione di bilanci inattendibili, a partire quantomeno dal 2016, ha ritardato l’emersione di un dissesto patrimoniale significativo”, si leggerebbe tra le carte.
Non solo: il Corriere della Sera cita anche le considerazioni di Nicola Pecchiari, docente della Bocconi nominato come consulente dai pm, secondo cui “i presupposti per una svalutazione integrale dell’avviamento di 3,8 milioni erano già manifesti al 31 dicembre 2016”. E ancora: “Tale svalutazione è stata evitata dalla società sulla base di una perizia di ‘impairment test’ basata su un piano industriale irrealistico, senza tenere in considerazione che già dall’esercizio 2014 i dati previsionali non erano rispettati a consuntivo, e che i consuntivi del triennio manifestavano palesemente la presenza di una evidente crisi strutturale di redditività operativa”.
Nel frattempo, non si placa nemmeno il caso politico. Anzi, ora anche dall’interno della stessa maggioranza arrivano le richieste di chiarimenti alla ministra.
Il capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, ha detto di essere in attesa che l’alleata “spieghi le sue ragioni” in Parlamento. E anche l’altro capogruppo del Carroccio, il senatore Massimiliano Romeo, ha sottolineato che sebbene non si stiano chiedendo le dimissioni, c’è la necessità che la ministra si presenti in Aula per chiarire la questione.
(da Fanpage)
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Giugno 24th, 2023 Riccardo Fucile
SANTANCHE’ NELLA BUFERA SU PIU’ FRONTI
Amori & affari, lusso e potere, bilanci in rosso e politica in nero. Quella sapientemente costruita da Daniela Garnero – per sempre e anche dopo il divorzio dal suo primo marito – in Santanchè, è una sceneggiatura che a volte appare fin troppo ricca e sfrontata per essere realistica.
Una trama che s’intreccia con i volti e i luoghi della “Milano da bere”, stuzzica i siti e le riviste di gossip – escluse forse quelle da lei stessa possedute – e alla fine vede come spettatori interessati anche gli investigatori della guardia di finanza e un nutrito stuolo di magistrati che esaminano gli atti dell’imprenditrice-politica sotto ben tre diversi profili: penale, civile e fallimentare.
Oggi è nella bufera su più fronti. Sia per le vicenda della galassia Visibilia, che vede i pm indagare per falso in bilancio. Sia per Ki Group, la società di prodotti bio finita in disgrazia che ha presentato al tribunale fallimentare un’istanza di concordato semplificato, a sua volta trasmessa in procura per una valutazione. Come da prassi è stato aperto un fascicolo a “modello 45”, per fatti non costituenti notizie di reato. Un faro acceso per vederci chiaro.
Nella giungla dei business spesso finiti male, almeno a giudicare dai dati ufficiali delle società, e nella scalata che l’ha portata dalla provincia di Cuneo al ruolo di ministro del Turismo, il coté mondano non è certo l’ultimo. Anzi i piani spesso si intrecciano in un “Sistema Santa” dove alla fine si ritrovano sempre i soliti noti.
È il caso di Canio Mazzaro, a lungo partner di Santanchè e padre del figlio Lorenzo: università a Londra, Porsche fiammante in regalo dalla mamma. Proprio Canio Mazzaro è spesso richiamato nelle inchieste di questi anni sui movimenti finanziari della galassia Santanchè.
Ma nel gioco delle coppie della destra milanese rientra anche la lunga liaison – sette anni – tra la stessa Pitonessa e Alessandro Sallusti che all’epoca era direttore del Giornale berlusconiano, coppia di potere che fu assai ambita nelle serate di Milano. Città che l’imprenditrice non ha mai abbandonato: «Sì, si può fare qualcosa di più, basta andare in giro per Milano e vedere che le criticità sono molte, il degrado e tutto quello che succede intorno alle stazioni, la Centrale in primis», ha ammonito qualche settimana fa, prima di dirsi ovviamente d’accordo con l’idea di dedicare l’aeroporto di Linate a Berlusconi.
Politica, tv e affari l’hanno fatta finire anche nelle barre dei rapper, da Fedez a J-Ax a Marracach: «Santanchè, Santa anche no». Una consacrazione, in un certo senso. «Dopo che sono stata nominata ministro, sembrava che io fossi Al Capone», accusava lei il 30 novembre 2022. Certo, l’understatement non è mai stato la sua cifra: anche casa Santanché è, a suo modo, una favola: mille metri quadri circa in uno splendido villino ottocentesco acquistato nel 2000, quattro anni dopo che il precedente proprietario – Giuseppe Poggi Longostrevi, re delle critiche private milanesi – si era ucciso proprio in quelle stanze dopo essere stato accusato di corruzione. Quattro piani, incantevole giardino, la villa in zona corso Vercelli, area assai “affluent”, era passata di mano per un milione e duecentomila euro. Prezzo poi contestato, inutilmente, come troppo basso dalla figlia di Poggi Longostrevi. Casa Santanché rimane memorabile sia per un Natale in cui fu addobbata con ricchissime luminarie, nello sconcerto dei vicini, sia – racconta chi c’è stato – per l’esposizione di borse Kelly della padrona di casa che accoglieva gli ospiti.
Niente toni bassi, appunto. L’ulima volta è stato il 25 settembre scorso, quando Giorgia Meloni aveva dato ai suoi l’ordine di non enfatizzare il successo elettorale di Fratelli d’Italia. Quella sera Santanché aveva interpretato la direttiva romana prendendo in affitto la “Terrazza Riccione 12”, decimo piano di un edificio in pieno centro con splendida vista sul Duomo, servizio all’altezza e ospiti assortiti tra amici e compagni di partito.
Tra di loro anche Geronimo La Russa, avvocato, presidente dell’Aci meneghino, ma soprattutto figlio di Ignazio. E anche se per le cronache locali il presidente del Senato e la ministra del Turismo sono su fronti avversari dello stesso partito, nel “Sistema Santa” tutto si tiene.
(da La Repubblica)
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Giugno 24th, 2023 Riccardo Fucile
PER 150.000 EURO IN 25 ANNI SERVE UNO STIPENDIO MINIMO DI 2.300 EURO AL MESE
Lasciate ogni speranza o voi che entrate… in banca per accendere un mutuo. Visti i tempi che corrono, tra continui rialzi dei tassi d’interesse e l’inflazione alle stelle, ottenere un finanziamento ipotecario per l’acquisto di una casa sta diventando praticamente impossibile. In difficoltà persino i lavoratori con redditi medi, per non parlare poi di chi ha già ottenuto un mutuo a tasso variabile e si ritrova a dover combattere con pagamenti mensili lievitati oltre l’inimmaginabile.
A distanza di un anno e mezzo, la rata di un mutuo a tasso fisso da 150mila euro, sia per 25 che per 30 anni, ha registrato un incremento del 30% circa. Secondo un’analisi di Telemutuo, a novembre 2021 per una durata di 25 anni il costo della rata si attestava a 572 euro (determinato da un tasso fisso dell’1,10%) per scendere a 496 se si allungava la durata a 30 anni (e tasso all’1,20%). Dopo 18 mesi la rata di queste due tipologie di finanziamento è arrivata rispettivamente a 750 euro (tasso un tasso fisso al 3,5%) e a 650 euro (tasso un tasso fisso al 3,25%). Si parla di 178 euro in più al mese nella scadenza più corta (+30%) e di 154 euro in più in quella più lunga (+31%).
Per 150mila euro in 25 anni serve uno stipendio di 2.300 euro
“Per valutare la solvibilità di un potenziale soggetto da finanziare, le banche si basano su una regola non scritta che indica al 30% circa delle entrate nette mensili di un soggetto la soglia massima della rata per la concessione di un mutuo”, chiosa Angelo Spiezia, amministratore delegato del comparatore di mutui. Applicando questa regola alla realtà scopriamo che per un finanziamento medio di 150.000 euro in 25 anni ci vuole uno stipendio minimo di 2.300 euro al mese, cifra molto lontana dal salario medio presente oggi in Italia che si attesta a circa 1.800 euro al mese (dati Ocse).
Crescono le preoccupazioni per la tenuta del sistema economico e sociale del Paese. Questa condizione, infatti, potrebbe determinare un rallentamento nella concessione di finanziamenti ipotecari da parte delle banche alle fasce medie dei lavoratori. Per i giovani under 36 però esiste un’ancora di salvataggio: la garanzia statale per i mutui sulla prima casa. Il fondo di Garanzia mutui prima casa, istituito nel 2013 e gestito da Consap, che fa da garante fino all’80% del valore dell’immobile di fronte alla banca che deve concedere il prestito, si ottiene così un mutuo al 100%. Si tratta di una misura introdotta dalla legge di bilancio 2023, a cui possono accedere gli under 36 (ma anche i nuclei monogenitoriali con figli minori) che possiedono determinati requisiti, tra cui un indicatore Isee non superiore a 40.000 euro annui. Per gli under 36 è comunque prevista per tutto il 2023 l’esenzione dalle imposte di registro, ipotecaria e catastale in sede di rogito, il riconoscimento di un credito d’imposta per chi compra da impresa soggetta a Iva e l’esenzione dall’imposta sostitutiva del mutuo.
(da today.it)
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Giugno 24th, 2023 Riccardo Fucile
IL GINECOLOGO PASSARINI SIMULAVA L’INIEZIONE DELLE DOSI DI VACCINO A PAZIENTI CHE POTEVANO COSI’ ESIBIRE IL CERTIFICATO
227 persone andranno a processo per le finte vaccinazioni anti Covid, eseguite dal medico di base e ginecologo 66enne Mauro Passarini, che è stato arrestato dalla polizia in seguito a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa la sera del 10 novembre 2021.
Dallo scorso luglio è tornato libero del tutto e il suo nome, infatti, figura tra quelli dell’Ordine dei medici.
Secondo quanto emerso dalle verifiche della squadra Mobile il 66enne avrebbe simulato l’iniezione di molte dosi di vaccino Pfizer a diverse persone arrivate anche da fuori regione per rivolgersi proprio a lui. L’uomo era infatti considerato un punto di riferimento nella galassia dei contrari al vaccino. Ora 227 pazienti sono accusati di falso ideologico in concorso. E tra loro spicca anche il nome di un noto politico locale: Alberto Ferrero, segretario e capogruppo in Comune di Fratelli d’Italia.
Il medico
La maxi-udienza preliminare è stata fissata per inizio febbraio 2024. Passarini non ci sarà quel giorno. Ma il suo percorso giudiziario non è finito: dovrà rispondere anche di peculato per via della contestata appropriazione di fiale di vaccino anti Covid trovate abbandonate nel suo ambulatorio, e di evasione per avere parlato il 17 novembre 2021 a un giornalista uscendo di casa mentre si trovava ai domiciliari. Le indagini erano state chiuse a ottobre dello scorso anno ed era stato notificato a 250 persone l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
(da agenzie)
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Giugno 24th, 2023 Riccardo Fucile
I SONDAGGI DI YOUGOV RIVELANO CHE ORA SONO PENTITI
Sono passati sette anni dal referendum sulla Brexit. Il 23 giugno 2016, cittadine e cittadini della Gran Bretagna votarono per abbandonare l’Unione europea. La campagna referendaria era stata lunga e combattuta, con promesse di una maggiore indipendenza politica, più soldi da dedicare a settori come il sistema sanitario nazionale, e meno burocrazia cavillosa.
Alla fine, il Leave (“lasciare”) vinse con il 52% dei voti contro il 48% dei Remain. Oggi, i sondaggi mostrano che l’opinione nel Paese è decisamente cambiata.
YouGov, autorevole società di rilevazione britannica, ha mostrato che se si tornasse al voto, escludendo le persone che non andrebbero alle urne o che non sanno cosa sceglierebbero, il 58,2% voterebbe per tornare nell’Ue. È da mesi che il dato è consolidato: a febbraio era ancora più alto, al 60%, il numero più alto mai registrato nei sondaggi di YouGov sull’argomento.
Non è sempre stato così. All’inizio del 2021, solo il 47% della popolazione avrebbe scelto di rientrare nell’Unione. Da allora però la crisi economica e la scarsa credibilità del governo conservatore – passato da Boris Johnson, al breve mandato di Liz Truss, all’attuale Rishi Sunak – hanno fatto nuovamente crescere i rimpianti di chi vorrebbe tornare all’Unione europea.
Dall’aprile 2021 (quando le misure contro il Covid si allentarono e i vaccini iniziarono a diffondersi) a oggi, il tasso di disapprovazione del governo è passato dal 42% al 65%, sempre secondo dati YouGov.
Quello di approvazione è crollato dal 37% al 15%. Non solo, ma i cittadini britannici hanno addirittura detto di recente di avere una maggior fiducia verso la Commissione europea (25%) che verso il proprio governo (24%).
Insomma, la Brexit si è dimostrata lontana dal sogno che era stato annunciato, e questo ha avuto un impatto anche sugli altri Paesi. Ad esempio, allontanando l’idea di altre ‘fughe’ dall’Ue.
Sia in Italia che in Francia, due Paesi che hanno sempre avuto una certa propensione all’euroscetticismo, la maggior parte della popolazione sceglierebbe di rimanere in un eventuale referendum: rispettivamente il 63% e il 62%.
Il dato è anche più in alto in Germania (69%) mentre non c’è gara in Spagna (87%). Gli stessi abitanti del Regno Unito non credono che altri Paesi usciranno: il 42% pensa che sia improbabile, contro il 40% che pensa sia probabile. Sembrano dati equilibrati, ma nel 2020 i possibiliti erano il 58% e gli scettici il 26%.
Anche se la maggioranza dei britannici vorrebbe rientrare nell’Unione europea, però, l’opinione diffusa nel Paese è che questo non accadrà. In un sondaggio il 48% ha detto che lo ritiene improbabile, e solo il 33% ha risposto il contrario. Sono stati più ottimisti gli elettori dei laburisti (44% ‘probabile’, 41% ‘improbabile’) e più scettici i conservatori (25% ‘probabile’, 59% ‘improbabile’). Anche in questo caso, però, il trend mostra un aumento di chi ritiene possibile un ritorno nell’Unione.
(da agenzie)
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