Giugno 25th, 2023 Riccardo Fucile
ALEKSEY DYUMIN, EX GUARDIA DEL CORPO DI “MAD VLAD” MA IN OTTIMI RAPPORTI CON GLI UOMINI DELLA WAGNER, SOSTITUIRÀ SHOIGU ALLA DIFESA.. DEI 12 MEMBRI PERMANENTI DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA, SOLO 5 HANNO CHIESTO A PRIGOZHIN DI FERMARSI. E DIVERSI OLIGARCHI RUSSI SONO VOLATI ALL’ESTERO
La certezza, dopo la giornata di sabato 24 giugno, è che lo stato russo è indebolito come mai, almeno nell’era putiniana, e le istituzioni sono a pezzi. Ma a parte questo, molti passaggi vanno spiegati e bisogna cercare di capirli.
Se il maggior perdente appare Vladimir Putin – aveva iniziato questa vicenda promettendo di sterminare i “traditori” e gli “apostati”, accetta invece di graziarli, nonostante nella giornata siano morti almeno dodici piloti delle forze armate russe – anche Prigozhin ha dovuto frenare.
Il capo di Wagner era partito in tromba e arrivato a cento chilometri da Mosca, ma ha deciso infine di non entrarci e di fermarsi. Il colpo di stato è diventato un ammutinamento. Le scuse addotte non convincono (il rischio del «bagno di sangue», per una compagnia di combattenti d’élite che ha vissuto ben altri bagni di sangue in vari teatri di guerra sporca del mondo), così come è chiaro che tutta la posta in gioco dell’accordo non ci è stata detta.
Appare necessario allora provare a ricostruirla, la vera posta in gioco, attraverso fonti non ufficiali, ma che nei mesi si sono rivelate attendibili.
Se hanno ragione tantissime fonti nel mondo wagneriano che abbiamo consultato, via chat, o entrando in canali chiusi, dell’accordo tra Prigozhin e Putin fa parte, senza formula dubitativa, che Shoigu e Gerasimov sono out. Questione di tempo, dicono. Vedremo.
Secondo queste fonti, Prigozhin ha dimostrato che può prendersi tutto, ma non vuole le macerie della Russia, vuole ereditare un sistema in qualche modo ancora in piedi.
Secondo fonti dell’amministrazione presidenziale che hanno parlato a Meduza, i negoziati finali sono stati gestiti da un gruppo di funzionari, che comprendeva, tra gli altri, il capo dell’amministrazione presidenziale Anton Vaino, il segretario del Consiglio di sicurezza Nikolai Patrushev e l’ambasciatore russo in Bielorussia Boris Gryzlov.
Una fonte di Meduza vicina al governo dubita che le decisioni sulla Difesa possano essere prese a breve: «Putin non asseconda quasi mai le circostanze e non cede alle pressioni». Insomma, passerà del tempo.
Tuttavia, la lettura della defenestrazione de facto di Shoigu e Gerasimov viene confermata anche da canali ufficiali assai vicini allo stato russo, per esempio il celebre Rybar, un ex funzionario della Difesa russa.
Rybar riferisce senza tentennamenti anche il nome dell’uomo destinato a succedere a Shoigu: si tratterebbe di Aleksey Dyumin, governatore della regione di Tula, ex guardia del corpo personale di Putin, ma anche uomo in ottimi rapporti da sempre con Wagner e con Prigozhin (c’è chi sostiene abbia partecipato alla fondazione della Compagnia).
Konstanin Sonin, politologo all’Università di Chicago, ricorda che Dyumin «è un ex comandante dell’intelligence militare (Wagner è soprattutto GRU) e uno degli operatori in loco durante l’annessione della Crimea nel 2014». Da molti è considerato il braccio politico, diciamo così, di Wagner.
Qui veniamo al secondo punto: quella di Prigozhin è stata una rivolta vera o una sceneggiata? Nei canali pro Cremlino viene diffusa in queste ore a spron battuto la versione secondo cui la ribellione è stata messa in scena dal Cremlino e da Prigozhin. Ma diversi indicatori dicono il contrario. Fonti del canale “MO” nell’amministrazione presidenziale sostengono che la rivolta è stata reale.
L’autorità russa sulle comunicazioni per tutta la giornata ha inibito in Russia i canali wagneriani e i media di Prigozhin. È stato aperto un procedimento penale contro Prigozhin. Hanno perquisito le sue case e i suoi uffici, mostrando tutti sui media di stato.
Secondo le autorità locali, come riferito da “MO”, Dyumin ha negoziato con Prigozhin tutto il giorno, e solo in seguito si è unito Alexander Lukashenko.
Ma anche fonti ben collegate all’intelligence ucraina, per esempio Insider Ua, ritengono che l’ex guardia del corpo di Putin sarà nominata ministro della Difesa russo. E riferiscono che Surovikin, secondo informazioni russe, potrebbe ottenere la carica di capo di stato maggiore.
Dyumin, oggi governatore della regione di Tula, ha il grado di generale e ha scortato Putin dal 1999 al 2007. Poi ha guidato le operazioni paramilitari in Crimea nel 2013-2014. Era alla nascita di Wagner. E ieri è stato uno dei governatori che non hanno registrato l’appello a Wagner a fermarsi.
Una rassegna di chi ha parlato e chi no può aiutare a capire, ovviamente in modo indiziario, la configurazione del potere alla fine di una giornata che resterà nella storia. Ovviamente hanno taciuto Shoigu e Gerasimov, e ciò era scontato. ma, come nota “Agentsmedia”, dei 12 membri permanenti del Consiglio di sicurezza, solo cinque persone hanno commentato la ribellione di Prigozhin chiedendogli di fermarsi.
Altri sono stati zitti, ed ecco l’elenco fatto da questo informatissimo collettivo di giornalisti russi ieri sera tardi: zitto il direttore del Fsb Alexander Bortnikov, zitto il capo dell’amministrazione presidenziale Anton Vaino, zitto il primo vice capo dell’amministrazione presidenziale Sergei Kiriyenko, zitto l’altro primo vice capo dell’amministrazione presidenziale Alexei Gromov, zitto il primo ministro Mikhail Mishustin (e altri membri del governo), zitto il ministro degli affari interni Vladimir Kolokoltsev (zitto anche Lavrov, va detto). Tra i silenziosi, Nikolai Patrushev, il grande capo dei servizi, il direttore della Rosgvardia Viktor Zolotov. Silente anche Sergey Ivanov, altro membro permanente del Consiglio di sicurezza
(da La Stampa)
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Giugno 25th, 2023 Riccardo Fucile
“NELLA SOCIETÀ RUSSA C’È CHI VUOLE DISTRUGGERE IL SISTEMA DI POTERE VERTICALE DI PUTIN. QUESTO È L’INIZIO DI UN PROCESSO, LA MESSA IN DISCUSSIONE DEL POTERE DI PUTIN E DELLA SUA CAPACITÀ DI CONTROLLO DEL PAESE È GIÀ COMINCIATA”
«Comunque andrà, questo è l’inizio della fine di Putin». Con una dose doppia di ottimismo, giustificata dalle notizie che arrivano dalla Russia, il consigliere dell’Ufficio presidenziale Mykhailo Podolyak, uno degli uomini più ascoltati da Zelensky, non nasconde la soddisfazione di vedere il caos esplodere a casa di chi, 16 mesi fa, ha deciso di invadere l’Ucraina.
«Non poteva che finire così, ce lo aspettavamo… Le prossime 24 ore saranno decisive per le sorti della Federazione», dice a Repubblica in collegamento dal suo ufficio di Kiev nel corso della mattina, prima della marcia indietro della Wagner ormai giunta quasi alle porte di Mosca. «Tutto questo secondo noi avvicinerà di molto la fine della guerra».
Come potete trarre vantaggio dalla ribellione di Prigozhin?
«Per noi al momento non cambia niente, la controffensiva va avanti. Certo, è inevitabile che i disordini interni distoglieranno l’attenzione dell’esercito russo in prima linea, costretto a valutare cosa sta accadendo alle sue spalle. Se a Mosca decideranno di ritirare parte delle truppe dispiegate in Ucraina per reprimere la rivolta della Wagner, vedremo una forte accelerazione del nostro contrattacco».
L’intelligence militare cosa vi dice? Ci sono già segnali di un ripiegamento delle truppe russe?
«No, finora non abbiamo conferme. Ricordatevi però che questo è l’inizio di un processo. Se Prigozhin riuscirà a tenere sotto controllo per almeno 24-48 ore le città che ha occupato, ci saranno cambiamenti sul fronte ucraino. Bisogna aspettare, è prematuro fare previsioni. La posta in gioco è evidente: o Prigozhin verrà distrutto, e con esso la Brigata Wagner, oppure scatenerà una guerra civile che porterà avanti fino alla fine».
Da cosa dipende la riuscita del golpe militare?
«Ci sono quattro componenti. Innanzitutto, risorse, armi e uomini, e lui li ha. Secondo: ha il supporto di una parte dell’élite russa? Probabilmente sì, è questa può essere la sua carta vincente. Bisogna vedere poi se, come detto, riuscirà a mantenere il controllo dei territori presi. Il quarto elemento sono le altre possibili spinte nella società di chi vuole distruggere il sistema di potere verticale di Putin. Sicuramente Prigozhin ha le risorse».
Qual è l’obiettivo del fondatore della Wagner?
«La sostituzione dei personaggi chiave nel governo russo, a partire da Putin e dai suoi fedelissimi. Rovesciare il regime politico in Russia. E, auspicabilmente, anche il ritiro della Russia dalla guerra a condizioni che a quel punto non saranno le stesse di Putin. Per avere un passaggio di potere, le truppe devono tornare in Russia».
Ritiene plausibile lo scenario in cui Putin rimane al Cremlino e vengono sostituiti solo i nemici di Prigozhin, cioè il ministro Shoigu e il comandante in capo Gerasimov?
«Certamente. E però, con la guerra civile in corso la messa in discussione del potere di Putin e della sua capacità di controllo del Paese è già cominciata: non importa come finirà il tentativo di golpe, Putin non sarà più la persona che era fino a ieri. La Federazione potrà attraversare una fase di transizione, ma politicamente non esisterà più in questa forma. E Putin, come attore chiave, se ne andrà».
(da Repubblica”)
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Giugno 25th, 2023 Riccardo Fucile
SULLA TESTATA LA VICENDA COMPARE MARGINALMENTE. ADDIRITTURA LUCIANO NOBILI, FEDELISSIMO DI MATTEONZO, SU TWITTER PROVA A LIQUIDARE IL CASO PARLANDO DI “PERDITA DI TEMPO”
Sul caso del ministro Santanchè e delle sue società Visibilia e Ki Group, sollevato dalla trasmissione Report condotta da Sigfrido Ranucci su Rai3, hanno eccepito praticamente tutti i partiti.
Chi ne ha chiesto le dimissioni come i Verdi e Sinistra Italiana, chi ha invitato la ministra del Turismo in quota Fratelli d’Italia a chiarire in Parlamento, ovvero M5s, Pd, e finanche gli alleati Lega e Forza Italia. La stessa Giorgia Meloni ritiene giusto che Santanchè riferisca nelle aule parlamentari.
Solo un partito e il suo leader, che peraltro dovrebbero essere di “opposizione” al Governo, non hanno proferito parola sul caso. Parliamo di Italia Viva e di Matteo Renzi, il cui quotidiano Il Riformista ha riservato al caso un piccolissimo spazio nel finale di un articolo di Claudia Fusani, che tuttavia non cita le società in questione né tantomeno specifica quali siano le accuse mosse dai dipendenti e dagli azionisti indicate nel servizio di Report e in alcuni articoli pregressi del “Fatto Quotidiano”.
Addirittura il consigliere regionale renziano Luciano Nobili, in un tweet, parla di perdita di tempo riguardo al caso Santanchè. Come mai questa linea? Forse perché la società Visibilia è la concessionaria esclusiva di pubblicità del Riformista? Chissà.
Senz’altro il silenzio sul caso Santanchè da parte di Renzi – dopo quasi una settimana di infuocate polemiche istituzionali che mettono in serie difficoltà il Governo – resta piuttosto peculiare.
(da Dagospia)
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Giugno 25th, 2023 Riccardo Fucile
SALVINI CONTINUA A INFASTIDIRE LA PREMIER SPERANDO DI ROSICCHIARE QUALCHE PUNTO PERCENTUALE IN VISTA DELLE EUROPEE
«E allora ditelo, se siete putiniani…». Raccontano che Giovanbattista Fazzolari, alla notizia di un nuovo ordine del giorno della Lega sull’Ucraina sia sbottato. L’episodio ovviamente risale a giorni precedenti alla rivolta della Wagner contro Mosca.
L’ordine del giorno, presentato dal capogruppo leghista al Senato Massimiliano Romeo, era su quella che i salviniani chiamano la «linea vaticana». Perseguire la pace e la mediazione con ogni mezzo.
Ma, appunto, il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio non ha gradito. Probabilmente, ha letto nel documento leghista l’ennesima goccia dello stillicidio di «segnali» che Matteo Salvini e la Lega non si stancano di dare a Giorgia Meloni e a Fratelli d’Italia. Badando bene a non superare il livello di guardia.
Se il capogruppo leghista alla Camera, e non solo lui, nei giorni scorsi aveva chiesto che la ministra Daniela Santanché venisse a riferire in aula, ieri lo stesso Salvini ha aggiustato il tiro: «Se la politica dovesse lavorare in base alle inchieste di Report , saremmo la Repubblica delle banane».
Oltretutto, con la scomparsa di Silvio Berlusconi — che ieri Salvini ha ricordato con commozione di fronte ai Giovani di Confindustria — ai leghisti è venuto mancare quel gioco di sponda che risale a prima della caduta del governo Draghi e poi è proseguito con la linea comune perseguita sugli estimi catastali o sui balneari.
Anche sul Mes, la frenata di Antonio Tajani ribadita ieri («La mia critica al Mes è europeista: deve essere sottoposto al controllo del Parlamento europeo così come è sottoposta l’attività della Bce») nella Lega non suscita buonumori.
Forza Italia era il partito più favorevole della maggioranza al «Salva Stati», ma il fatto che oggi lo sia di meno nella Lega non viene letto come un compattarsi del centrodestra ma come una conferma del fatto che il rapporto tra Tajani e la premier Meloni sia blindatissimo e offra poco filo da tessere.
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 25th, 2023 Riccardo Fucile
LA MINISTRA SAPEVA DELL’INDAGINE: A MARZO UNA PERQUISIZIONE DELLA GDF ALLA VISIBILIA
La ministra Daniela Santanchè ribadisce di non sapere nulla dell’indagine della procura di Milano e di non essere coinvolta, ma a marzo la Guardia di finanza ha sequestrato atti in una società che è ancora di sua proprietà.
Di certo però non solo c’è che esiste, eccome, una indagine della procura di Milano che ha chiesto anche una perizia di parte appena consegnata e che denuncia plusvalenze fittizie e bilanci falsati nella galassia delle cinque società di Visibilia; ma anche che è in corso un giudizio civile a Roma per una causa di lavoro che farebbe emergere altre anomalie nella gestione di una società della galassia che fino al 2022 è stata di Daniela Santanché e avere tra i suoi amministratori il compagno Dimitri Kunz. Una causa che tira in ballo il gruppo di Fratelli d’Italia al Senato e dove compare anche il nome del presidente del Senato Ignazio La Russa.
Ma andiamo con ordine. La vicenda della causa di lavoro, riportata dal Fatto quotidiano, riguarda un ex dirigente di Visibilia messo in cassa integrazione a zero ore durante l’epoca Covid con i fondi dello Stato stanziati dal governo Conte (attaccato in televisione più volte dalla Santanché per non aiutare gli imprenditori nell’emergenza sanitaria). Con la Cassa integrazione a zero ore lo Stato si impegna a pagare la quasi totalità dello stipendio di un lavoratore, a patto però che l’attività del dipendente venga sospesa.
Invece il dirigente avrebbe continuato a lavorare per Visibilia. Ma c’è di più: nello stesso periodo, secondo quanto riportato dal Fatto quotidiano in diversi articoli (mai smentiti dagli interessanti formalmente), avrebbe lavorato anche con fatture pagate dal gruppo di Fratelli d’Italia al Senato e sarebbe stato “assegnato” all’allora senatore Ignazio La Russa. La causa è ancora in corso a Roma, ma secondo quanto ricostruito anche da Report ci sarebbero altri casi di dipendenti messi in cassa integrazione dalle aziende Visibilia di Santanché e che avrebbero continuato a lavorare. Dallo staff di La Russa fanno sapere a Repubblica che “nessun dipendente ha mai lavorato avendo problemi di incompatibilità con la cassa integrazione”.
Il nome di La Russa in passato è stato accostato a Visibilia: compare come firmatario in una diffida legale inviata al quotidiano online Milanotoday per conto di Visibilia e in una seconda diffida per conto del fondo con sede a Dubai. Il fondo Negma, che ha avviato un prestito obbligazionario per immettere liquidità in Visibilia, per tre milioni di euro, e nella Ki group, altra azienda di Santanché che ha ridotto le attività e licenziato quasi tutti i dipendenti.
Ma il principale filone giudiziario è aperto a Milano ed è difficile che Santanché non sappia. Come si legge nella relazione di parte chiesta dalla procura, e raccontata da Repubblica, nel marzo scorso la Guardia di finanza è entrata negli uffici di Visibilia srl per recuperare bilanci e altri documenti. Inoltre ci sono verbali di consegna di documentazione cartacea ai periti della procura, su mandato per fascicolo di indagine aperto il 2 novembre, dell’11 novembre 2022, del 23 novembre 2022 e del 16 dicembre 2022. E alcune società Visibilia hanno consegnato alla procura anche memorie difensive.
Come faceva la ministra a non sapere nulla dell’indagine visto che risulta anche proprietaria al 90 per cento della società Visibilia srl in liquidazione? E come fa a non sapere, quando a fine novembre una società della galassia, Visibilia editore, per la quale la procura aveva presentato istanza di fallimento, si salva dopo una immissione di liquidità che arrivata da Visibilia concessionaria? Si legge nella perizia della procura: “Visibilia Concessionaria srl risulta essere amministrata da un amministratore unico nella figura della signora Daniela Garnero Santanchè fino al 22 novembre 2022”.
(da La Repubblica)
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Giugno 25th, 2023 Riccardo Fucile
NEI DELIRI SOVRANISTI TUTTO DEVE ESSERE “ITALIANO”: COMINCINO A RIVENDICARE ANCHE IL DEBITO PUBBLICO “ITALIANO”, LA MAFIA “ITALIANA”, PONTE MORANDI “ITALIANO”, UNA CLASSE POLITICA DI SCAPPATI DI CASA “ITALIANA”
No ai “fondi stranieri” e ai “soggetti stranieri”, il debito pubblico “deve rimanere italiano”. È con questo concetto fieramente autarchico che il Salvini ha ri-bocciato il Mes, che da quello che si è capito sarebbe una specie di paracadute da tenere nell’armadio e da usare solo in caso di emergenza, ma nella visione salviniana è un grimaldello del bieco mondialismo per scardinare i forzieri della Patria.
I “soggetti stranieri” si annidano nel Mes come gli achei nel cavallo di Troia.
La parola “italiano” ricorre, nei discorsi del Salvini, più della virgola. Tutto deve essere “italiano”, compreso il nostro cavernoso debito pubblico, conquistato con il sudore della fronte, l’ininterrotta lagna assistenzialista e la velocità di gamba con la quale scansare le tasse.
In questo senso il Salvini ha mille volte ragione: l’italianità del debito italiano andrebbe rivendicata con lucido realismo. Alla stessa maniera l’italianità delle frane e delle alluvioni, l’italianità del ponte Morandi, l’italianità delle mafie (ne abbiamo una collezione quasi prodigiosa), l’italianità di tutte le nostre magagne e omissioni.
In fin dei conti sarebbe un bel passo avanti, perché il patriottismo facile e piacione (“siamo i migliori!”) potrebbe essere bilanciato da una specie di patriottismo riflessivo: siamo anche dei notevoli pirla, e in qualche caso dei mascalzoni di lunga esperienza e di tenace fedeltà alle cause peggiori.
Ogni paio di settimane si dovrebbe aprire l’oblò che si affaccia sul debito pubblico (possiamo immaginarlo identico al deposito di Paperone, ma vuoto e rimbombante) e constatare, con la voce di Alberto Sordi, che non c’è una lira.
Nemmeno un euro, ma è valuta straniera e dunque possiamo fare finta che non ci riguardi.
(da La Repubblica)
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Giugno 25th, 2023 Riccardo Fucile
MASSIMO FINI RACCONTA: MI DISSE “IN CULO A BERLUSCONI, RESTIAMO ALL’INDIPENDENTE”, IL GIORNO DOPO PASSO’ AL GIORNALE”
Estate 1993. Vittorio Feltri dirige l’Indipendente da un anno e mezzo e l’ha portato dalle 19mila copie cui l’aveva lasciato l’ameba similanglosassone Ricardo Franco Levi a 120mila, un exploit unico nella storia dei quotidiani italiani del dopoguerra.
Tutto sembra andar bene. Se Montanelli lascia il Giornale, come deve fare perché Berlusconi è diventato un uomo politico, ci arriverebbero senza colpo ferire altre 40 o 50mila copie e l’Indipendente potrebbe diventare Repubblica degli anni Novanta e del Duemila e oltre.
In agosto Vittorio mi invita a cena, in una normale pizzeria perché allora non amava i locali eleganti che predilige oggi e non cercava di vestirsi “all’inglese” (nel Cyrano lo prenderò bonariamente in giro: “Nessun inglese si è mai vestito all’inglese”). Feltri mi fa questa terrificante domanda: “Se vado al Giornale vieni con me?”. E io a cercare di spiegargli che è un errore, professionale, politico e anche, a parer mio, personale. Finita la cena, entrambi un po’ brilli, alziamo i calici di vino e Vittorio dice: “In culo al Berlusca, restiamo all’Indi”. Questa scena si sarà ripetuta almeno quattro volte. L’ultima “in culo al Berlusca, restiamo all’Indi”, il giorno dopo passa al Giornale. E lì da forcaiolo che era (“il cinghialone” appioppato a Craxi trasformando così le legittime inchieste di Mani Pulite in una sorta di caccia sadica, Carra in manette sbattuto in prima pagina, accanimento sui figli di Craxi, Stefania e Bobo che toccò a me difendere) iniziò a bombardare Mani Pulite e a difendere i tangentari. Io gli diedi del “traditore”, del “voltagabbana” ma lui, che pur come ogni prima donna è permalosissimo, me la lasciò passare. Feltri si portò via tutta la struttura dell’Indipendente e tutti gli editorialisti. Io rifiutai. Il giovane editore Zanussi ebbe la dabbenaggine di chiedere proprio a Feltri di indicargli un direttore per l’Indi e Vittorio scelse ovviamente “il peggio fico del bigoncio”, Pia Luisa Bianco.
Avrei potuto farmi avanti e certamente la direzione me l’avrebbero data perché, dopo Feltri, ero la prima firma del giornale. Ma non lo feci perché non mi sentivo in grado di dirigere un giornale e comunque con Vittorio dall’altra parte non ci sarebbe stata partita (una volta Vittorio mi confidò: “Tu scrivi meglio di me”; “Può darsi – risposi – ma io non sono in grado di dirigere un giornale visto che non sono capace di dirigere nemmeno me stesso”).
Senza Feltri, la struttura che aveva creato e gli editorialisti che si era scelto, l’Indi capitombolò. Feltri più volte mi aveva fatto offerte perché andassi con lui al Giornale e alla fine, visto che la situazione precipitava, decisi di accettare. Combinammo i termini della collaborazione. Dovevo solo parlare con l’amministratore Roberto Crespi per formalizzare il contratto. Crespi mi parlò per mezz’ora, in termini quasi militari, delle strategie e delle tattiche del Giornale, cose che a me interessano nulla. Per interrompere quell’insopportabile arringa gli chiesi a che squadra tenesse. Disse: “Tenevo alla Juventus, ma adesso tengo al Milan perché mi piace il bel gioco”. Tornai da Feltri: “Non vengo più”. Se non si poteva nemmeno tenere alla squadra del cuore, era chiaro che, nonostante tutte le assicurazioni che mi aveva dato Vittorio, non avrei potuto scrivere liberamente.
Il miracolo dell’Indipendente fu dovuto anche al fatto che Vittorio vi faceva scrivere tutti, di destra, di sinistra, di centro e pure estremisti di ogni sorta, ma il giornale conservava un’unità e un’identità ed era proprio lui a dargliela. Si era inventato il “feltrismo”. Dopo che era passato al Giornale lo accompagnai a Bergamo, la sua città. Il pubblico, tutto leghista, rumoreggiava contro di lui. Dissi: ”Non potete insultare così un uomo che vi ha sostenuto per anni”. Sotto il banco Vittorio mi strinse la mano. È l’unico contatto fisico che ho avuto con lui, ma ciò che davvero ci unisce è una forte malinconia di fondo.
Un altro exploit Feltri lo aveva fatto con l’Europeo diretto da Lanfranco Vaccari: lo portò da 80mila a 120mila copie. Dell’insuccesso dell’Europeo di Vaccari io ero in buona parte responsabile. Il giovane Vaccari mi aveva assunto perché oltre alle solite inchieste ed editoriali, gli facessi anche un po’ da ‘consigliori’. Io, ispirandomi all’Europeo di Tommaso Giglio, volli un giornale molto rigoroso, quasi khomeinista. Ma non funzionò, altri tempi, di sbraco direi, stavano venendo avanti.
Di fronte al fenomeno Lega, Feltri si comportò come sempre dovrebbe comportarsi un giornalista: non lo demonizzò, come tutti gli altri giornali, ma cercò di osservarlo e capirlo e, poiché io questa posizione l’avevo assunta almeno un anno prima di lui, ciò spiega il successo del suo Europeo: la Lega di Bossi al Nord prendeva quasi il 50 per cento.
Anche quando eravamo in freddo, come è stato spesso nella nostra altalenante amicizia, Feltri mi pubblicava pezzi che nessun altro giornale avrebbe osato pubblicare. Uno, “Cerco Ideali. E sono disposto a tutto”, iniziava così: “Vorrei essere un talebano, avere valori fortissimi che santificano il sacrificio della vita, propria e altrui. Vorrei essere, per lo stesso motivo, un kamikaze islamico. Vorrei essere un afghano, un iracheno, un ceceno che si batte per la libertà del proprio Paese dall’occupante, arrogante e stupido. Avrei voluto essere un bolscevico, un fascista, un nazista che credeva in quello che faceva. O un ebreo che, nel lager, lottava con tutte le sue forze interiori per rimanere un uomo. Vorrei far parte dei ‘boat people’ che vengono ad approdare e spesso a morire sulle nostre coste. Perché sono spinti almeno da una speranza. Vorrei essere ed essere stato tutto, tranne quello che sono e sono stato per 60 anni e passa: un uomo che ha vissuto nella democrazia italiana”.
Tutto si può rimproverare a Feltri tranne che gli manchi il fiuto del giornalista. Mi venne in soccorso anche in un’altra occasione. In un giugno canicolare e patibolare la Rizzoli mi aveva liquidato, con altri giornalisti un po’ stupiti di vedermi lì, nell’agenzia del lavoro di via Lepetit 8 senza farmi ricevere neppure dall’ultimo dei manager. Io rimuginai l’amarezza per un mese, poi telefonai a Vittorio con cui all’epoca ero ai ferri corti: “Vuoi sapere cosa succede realmente al glorioso gruppo Rizzoli-Corriere della Sera?”. Lui pubblicò due mie colonne in prima pagina e due pagine interne. Ogni frase era da querela, se non fosse stata vera. Ma i dirigenti del Gruppo Rcs non alzarono orecchia. Aggiungo, di passata, che al gruppo Rcs avevo lavorato complessivamente per vent’anni, scrivendo più articoli di qualunque altro fosse passato, almeno a quel tempo, da quelle parti e lasciandoci anche qualche brandello di salute. Alla Pirelli avevo lavorato due anni dando più fastidio che altro. Ma fui ricevuto per mezz’ora dal capo ufficio stampa e pubblicità Ghisalberti e poi dall’amministratore delegato della Pirelli, Franco Brambilla, cognato di Leopoldo Pirelli, al prestigioso trentesimo piano del grattacielo di Gio Ponti e Pier Luigi Nervi. Brambilla mi accolse così: “Preferisce un caffè o un bourbon?”. “Bourbon, naturalmente”. E così in quello strano modo brindammo alla mia uscita dalla Pirelli. Brambilla mi parlò come un sessantenne può parlare a un ragazzo di poco più di vent’anni: “Capisco che a un ragazzo come lei un ambiente come quello della Pirelli provochi sofferenza. Ma nella vita ogni cosa serve. Lei è un ragazzo intelligente e vedrà che troverà la sua strada”. Non mi pare abbia sbagliato di molto. Se quelli del gruppo Rcs avessero mostrato verso di me non dico dell’umanità, ma almeno un po’ di sensibilità, si sarebbero risparmiate quelle pagine feroci che scrissi poi sul Giornale.
A quell’epoca Feltri e io non sapevamo neanche dell’esistenza dell’uno e dell’altro, lui era un cronista abbastanza anonimo dell’Informazione, io un disoccupato. Feltri lo conobbi veramente quando nel 1989 arrivò all’Europeo. La redazione fece uno sciopero sciocco, a cui partecipai anch’io, perché gli si rinfacciava di essere arrivato a quella posizione perché legato a una figlia di Biagi, Bice. Mi telefonò per chiedermi un pezzo. “Non posso, c’è lo sciopero”. Ma poco dopo lo raggiunsi all’Indipendente e qui il cerchio si chiude.
Massimo Fini
(da il Fatto Quotidiano)
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Giugno 25th, 2023 Riccardo Fucile
“È STATO IL CROLLO DEL MONDO. MA LO SENTO FORTISSIMO DENTRO DI ME” – E POI SANREMO CON “QUEL ROMPICOGLIONI DI MORANDI”
Roberto Vecchioni, com’è avere 80 anni?
«Io credo che sia un’età assolutamente uguale a tante altre. Il tempo ha due funzioni: una esterna, che ci debilita o ci opprime. È come scalare ogni giorno una montagna tremenda: è il nostro fisico. Poi c’è l’altra, con Bergson potremmo dire che è l’interiorità di ciascuno di noi. E questa stagione, che riflette il tempo della coscienza, ha poche variazioni. Magari ha slittamenti intellettuali, ideologici, ma la sua natura, dai vent’anni in poi, non si riduce. Anzi, aumenta ogni ora. È un tempo della vita di cui ti sai appropriare. Si è capaci di custodirlo, di assaporarlo con il pensiero. Mentre il destino ha un peso rilevante nella vita fisica, in quella della tua coscienza conta ben poco. È proprio la tua scelta che vince, il libero arbitrio del tuo ragionare e delle tue decisioni».
Quali dei sogni che avevi da ragazzo si sono realizzati?
«Nessuno completamente. Si sono realizzati in parte, poi si sono spezzettati, poi realizzati di nuovo. È il ciclo normale dell’esistenza umana: primavera, estate, autunno, inverno. Le settimane che finiscono inevitabilmente con domenica e cominciano con lunedì. La vita del mondo è un ciclo, non esiste una definizione finale o un approdo finale. Questo consente di tenere vivi i tuoi sogni e di poterli realizzare un pezzetto alla volta, oppure di accontentarti di ciò che sei riuscito a fare».
Cosa ti fa pensare la guerra in Ucraina?
«Non c’è lungimiranza. Io vorrei portare Putin davanti ad un prato della pianura padana per fargli vedere quanta erba c’è. Poi tirare su un filo e dirgli: “Questo prato è l’universo, questo filo è la Russia, cosa credi di fare?”.
Immaginiamo che tu possa telefonare a casa tua in un momento della tua vita e parlare con te stesso, quale momento sceglieresti?
«Questa tua domanda mi colpisce. Fuori sacco ti racconto cosa sto scrivendo. Tu non lo dirai mai».
Gli errori che consiglieresti a te bambino di non fare?
«Ne ho fatti tantissimi, anche grandi. C’è sempre gente che dice “no io non rifarei tutto quello che ho fatto”. Ma, in realtà, se fai un’altra cosa, sbagli lo stesso. La vita è fatta di errori, di salti, di sbagli e io ne ho fatti tanti. La mia carriera ha influito tanto, tantissimo per le persone che mi sono vicine. Però se avessi rinunciato alla mia carriera probabilmente sarebbe successo qualcos’altro. Molti amici li ho persi per colpa mia, perché mi sono comportato in maniera stupida o arrogante. Li ho persi e qualcuno non l’ho ritrovato più. Gli errori sono sempre sugli affetti, mai sulle cose. Non mi importa nulla di aver vinto o no Sanremo. L’errore è sull’affetto sbagliato, non compreso o non dare nel momento in cui devi».
E la musica quando la incontri?
«Ho cominciato perché sentivo a radio Luxembourg canzoni americane, francesi. Sempre per la mia curiosità, la mia voglia di cercare ciò che non sapevo già, ho voluto imparare a suonare la chitarra. Ho tentato di imparare da solo, ma non riuscivo, allora mia mamma che era una donna meravigliosa, mi ha preso un maestro. Lui insegnava con il solfeggio, io però volevo gli accordi per suonare le canzoni. Dopo quattro lezioni il maestro è tornato da mia madre e le ha detto “Le ridò i soldi, suo figlio di musica non capisce niente”. Così è iniziata la mia carriera».
Sanremo cosa è stato per te?
«Inimmaginabile, quello che è successo. Innanzitutto quel rompicoglioni di Morandi che mi telefonava ogni giorno per farmi andare. È persino venuto a casa mia da Bologna per prendermi per il collo. Io gli dicevo che non avevo brani, che la mia musica con Sanremo non c’entrava niente. Ma lui insisteva. Una sera mi trovavo a Roma per un concerto. Vivevamo un periodo brutto, il 2011, e io ero addolorato per l’Italia. Il portiere di notte dell’albergo mi disse “Professo’, adda passà ‘a nuttata”. Io ero in ascensore e quella frase mi era restata dentro. Pensavo “questa maledetta notte dovrà pur finire”. In camera avevo scritto già mezza canzone, nella mia testa. Non avevo niente per scrivere e allora ho telefonato al mio arrangiatore e gli ho cantato tutta la canzone per telefono. Il giorno dopo ho chiamato Morandi e gli ho detto: “Gianni, ce l’ho, la canzone”»
Anche «Luci a San Siro» e «Samarcanda» mica son da buttare via…
«Luci a San Siro è una canzone d’anima, quelle che vengono fuori così, senza neanche bisogno di ragionare. Samarcanda l’ho scritta tra Milano e Bologna in macchina. Mio padre è morto proprio quando sembrava che stesse guarendo. Era malato di cancro, sembrava guarito, ma nel momento in cui pensavamo che fosse tutto a posto, il destino se l’è preso.
Ho ricordato la leggenda araba del re che salva il suo servo e lo manda in un’altra città per allontanarlo dalla morte. Ho scritto questa storia durante quel viaggio in auto. Ce l’avevo già tutta. Solo che mi mancava uno spunto, qualcosa. Sì, era una bella canzone, però volevo metterci qualcosa che giungesse a tutti. Arrivo a Bologna, a un semaforo. Uno davanti a me frena, all’improvviso, io gli vado quasi addosso e gli urlo “Oh, coglione!” E quell’“Oh coglione” è diventato “Oh cavallo”». […]
C’è un altro brano, quello su tuo figlio Arrigo, morto a trentasei anni due mesi fa: «Figlio chi si è preso il tuo domani /quelli che hanno il mondo nelle mani».
«Questa è una canzone che io amo tantissimo, anche se non è mai andata. Era un ritratto abbastanza preciso di una pubertà, di una gioventù che si lasciava andare. Arrigo aveva tante meravigliose qualità, in primo luogo la sensibilità. Ma anche tante debolezze, insicurezze, incertezze che non c’era modo di fargli passare e che forse aumentavano nel vedere il padre che aveva successo. Ma qui siamo alla domanda di prima: che strada prendere? Che errore non fare? Rinunciare ai concerti? Non lo so…»
Cosa è stata per te la sua fine?
«Una cesura tra una vita e un’altra, lo è stato ancora di più per mia moglie. Non l’ho presa come un’ingiustizia. Questo no, assolutamente no. Mi viene in mente Eschilo che diceva: “Si impara soffrendo”. Forse dalla felicità non si impara un cazzo. Si impara solo soffrendo, sperando di tornare alla felicità. È stato il crollo del mondo, dell’universo, ma non di certezze e ideali. E poi lo sento dentro fortissimo, mio figlio. Lo sento intensamente, Arrigo, me lo rivedo dentro continuamente. Lui era bipolare, ho una metafora: un giorno, tornando dall’ospedale vicino Piacenza dove lui andava a fare terapia, abbiamo preso la Statale per andare a Desenzano ed era piena di autovelox. Gli ho detto “Facciamo una cosa: tu guida, passa, ogni volta che c’è un autovelox te lo dico e tu rallenti”. Abbiamo fatto questa strada di corsa e sembrava la vita, proprio. Corsa, corsa corsa e ad ogni autovelox lo fermavo. Quando siamo arrivati lui mi ha abbracciato e mi ha detto: “Li abbiamo fottuti tutti, papà”. E invece un autovelox ci aveva beccati. Ho tentato di dire: “Non è colpa sua, ma mia, guidavo io”. “Eh no…” hanno risposto. “… abbiamo visto, prendiamo lui”». Questa è la morte di mio figlio: gli autovelox della vita».
«Corro nel tuo cuore e non ti piglio».
«È così per tutti i padri. Il mistero che c’è, dentro un figlio o una figlia, è soprattutto quando lo vedi fare cose che non sono nelle tue consuetudini, non sono comprensibili per il tuo essere novecentesco. Lasci fare, ma non capisci. Quello per un figlio è un amore incosciente, non riesci a comprendere perché, ma sai che devi amarlo, sempre».
La canzone si chiude con una duplice domanda: «Dimmi dimmi cosa ne sarà di te/ dimmi cosa dimmi cosa ne sarà di me». Che risposta ti dai oggi?
«Lui non lo sapeva, cosa sarebbe stato di sé. Non potevo chiederglielo, però potevo chiedergli cosa ne sarà di me. Nella sua intelligenza avrebbe risposto: “Padre non smettere mai di correre per quella strada, perché è la tua vita”. Mi avrebbe risposto così».
(da Corriere della Sera)
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Giugno 25th, 2023 Riccardo Fucile
SCOPPIA LA PROTESTA DEI GENITORI NELLA SCUOLA DI ROVIGO
All’Itis Viola Marchesini di Rovigo l’anno scolastico finisce come è iniziato: nel caos. Nella scuola dove l’11 ottobre scorso alcuni ragazzi hanno sparato con una pistola ad aria compressa contro una docente, ora le polemiche riguardano i voti in condotta e le bocciature.
I due alunni ritenuti responsabili per quanto accaduto sono stati promossi e hanno ricevuto un 9 in condotta.
Una situazione che nei giorni scorsi aveva già mandato su tutte le furie Maria Cristina Finatti, la professoressa vittima dell’episodio, che ha chiesto spiegazioni alla scuola.
Ora, racconta Il Gazzettino, a protestare sono anche i genitori di altri ragazzi che frequentano l’istituto e sono stati bocciati o penalizzati nella pagella di fine anno. «Perché mio figlio ha preso 8 in condotta e i ragazzi che hanno sparato alla docente hanno preso 9?», chiedono alcuni di loro.
Se le proteste dei genitori finora si limitano a una semplice richiesta di spiegazioni, gli avvocati di Finatti sono andati oltre e hanno confermato la volontà di richiedere l’accesso agli atti per conoscere le motivazioni delle scelte fatte dai colleghi per i voti in pagella.
In questi giorni, l’istituto di Rovigo è sotto ispezione ministeriale, ordinata da Giuseppe Valditara. Una decisione che la professoressa Finatti commenta così: «Speriamo bene. Vedremo quel che accadrà con l’ispezione, le decisioni che saranno assunte. Ho sempre l’impressione che a scuola si tenda a cancellare quel che è accaduto. Certo si può sbagliare, ma bisogna saper soffrire per i propri errori e accettarne le conseguenze: invece questi ragazzi quasi si vedono premiare».
(da agenzie)
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