Giugno 12th, 2023 Riccardo Fucile
COME IL CAVALIERE, OGNI ITALIANO SEMBRA ESSERE TUTTO E IL CONTRARIO DI TUTTO: FURBO E FESSO, MAMMONE E MASCHILISTA, DRAMMATICO E MELODRAMMATICO, GENIALE E PASTICCIONE, CORAGGIOSO E VIGLIACCO, RAZZISTA E TOLLERANTE, CREDENTE E MISCREDENTE, COLTO E IGNORANTE, VITALE E CIALTRONE, DI DESTRA E DI SINISTRA
Certo che è dura. Durissima dover ammettere che un Peron con i tacchetti, uno Stalin mediatico, un Silvio Bellico a rotelle, un fabbricante di miliardi col volto perennemente grigliato come un pollo dai raggi Uva, un bignè in doppiopetto sempre truccato e tricologicamente trapiantato, un seduttore tradito dalla prostata, con cinque figli e due mogli, sgradevolmente donnaiolo, che ne ha combinate di cotte e di crude, è stato e rimarrà, per chissà quanto tempo, l’incarnazione dell’Arci-italiano.
La grande Natalia Aspesi non si fa troppi problemi ad ammetterlo: “Sono terrorizzata dagli italiani. Più il Paese corre verso l’autodistruzione, più loro adorano i propri carnefici – tuona la giornalista – è come se si fossero trasformati in tanti piccoli lemuri che si precipitano entusiasti in fondo al burrone”.
Ma la domanda, a questo punto di non ritorno, è un’altra ed è terribile: come mai una tale moltitudine di italiani, tra Destra e Sinistra, si è gettata gettarsi sul “Centro-frivolo” del berlusconismo senza limitismo? Perché un paese che si sbatte dalla mattina alla sera per arrivare alla fine del mese, da oltre vent’anni ha perso la testa per un miliardario donnaiolo che all’etica delle istituzioni ha sempre preferita la cotica dei propri affari?
Perché dentro di noi c’è il folle e sovente inconfessabile desiderio di essere un Berlusconi. Come canta Giorgio Gaber: “Non temo Berlusconi in sé. Temo Berlusconi in me”. Massì: come il Cavalier Pompetta, ogni italiano sembra essere tutto e il contrario di tutto: furbo e fesso, mammone e maschilista, drammatico e melodrammatico, geniale e pasticcione, coraggioso e vigliacco, razzista e tollerante, credente e miscredente, colto e ignorante, vitale e cialtrone, di destra e di sinistra. Un Berluscone che, quando gli chiedono qual è il complimento più bello che abbia mai ricevuto, risponde radioso: “La volta che, all’uscita da San Siro, un ultrà si gettò contro il parabrezza della mia auto gridando: sei una bella figa!”.
Sondare l’anima di Berlusconi è peggio che difficile. E’ inutile. Simpaticissimo come tutti i mascalzoni, implacabile negli affari come un rullo compressore (”Una volta per riagganciare un cliente gli ho anche tolto la forfora dalla giacca”, professionalmente così frenetico che faceva apparire un battaglione di marines come un gruppo di perdigiorno (“Una volta all’Edilnord ho disegnato persino le fogne. Pensavo: se ho sbagliato le pendenze si sveglieranno tutti nella cacca”), narci-effervescente naturale fino alle bollicine (“E’ importantissimo la mattina guardarsi allo specchio e piacersi, piacersi, piacersi”), Berlusconi ha intuito fin dall’inizio che il vero mistero del mondo è ciò che si vede, non l’invisibile.
A mo’ di lezione, aggiunge: “Ricordiamoci che il nostro pubblico ha fatto la terza media e non era neanche fra i primi della classe”. La mejo, da incorniciare: “Gli sfigati non esistono. Esistono solo dei diseducati al benessere”. Da qui i suoi modi da piazzista che sa mettere insieme cose dissimili, incongrue, se non addirittura incompatibili: come trasformare una azienda in un centro di potere, una cena in una congresso elettorale, un partito in un party, un contratto in una fregatura.
Come quella volta che, giovane editore in ascesa, firmò di venerdì un accordo per dividersi gli spazi pubblicitari con la Rai che sarebbe scattato dal lunedì successivo. Subito dopo riunì in ufficio i suoi agenti di Publitalia: “Avete sabato e domenica per acchiappare tutta la pubblicità che potete”. E quando il lunedì l’accordo entrò in vigore, non c’era più niente su cui accordarsi.
Quante gliene hanno dette in questi anni, giudici e giornalisti, a quest’uomo unico al mondo (noi italiani, si sa, non ci facciamo mai mancare niente). Da “Psico-nano” (Beppe Grillo) a “Caimano” (Nanni Moretti), da “Banana” (Altan) a “Al Tappone” (Travaglio). Ma la miglior descrizione del fenomeno appartiene ad Aldo Busi: “Tutti dicono che se non ci fosse stato Craxi non ci sarebbe stato Berlusconi, ma questo si può dire di qualsiasi imprenditore italiano. Nessun imprenditore di fama ha la coscienza a posto con lo Stato italiano. Sono tutti dei criminali. E allora perché criminalizzare solo Berlusconi? Pensiamo al Banco Ambrosiano. Io non credo che Berlusconi abbia lo zampino nella più grande catastrofe che sia successa in Italia e che ancora è irrisolta, cioè piazza Fontana. Come si può demonizzare Berlusconi quando ci sono molti altri demoni prima di lui che devono prendere corpo?”.
Verità o leggenda? Con Berlusconi la verità è leggenda e viceversa, lui stesso non è che le distingua sempre bene. “Da giovane dicevo: pensa quante donne al mondo vorrebbero venire a letto con me e non lo sanno. La vita è un problema di comunicazione”. Ecco perché, già prima del Biscione, era presente come comparsa in un Carosello. Quando nel novembre del ’79 un colpo di fulmine scoccato da Cupido lo trafisse era seduto al teatro Manzoni di Milano: Veronica Lario, 23 anni, era protagonista della commedia di Crommelynck “Il magnifico cornuto”. Impazzito d’amore Silvio fece interrompere le repliche della commedia. Come? Comperando il Manzoni.
Ah, la vanità. “Raccontano i collaboratori che è un terribile accentratore: se avesse una puntina di seno, sarebbe anche tentato di sostituire l’annunciatrice”, scrive Enzo Biagi. D’altra parte, visto dall’alto, la Natura è stata davvero taccagna. Quando scoprì che il centravanti Galderisi era alto come lui proibì ai collaboratori di chiamarlo “nanu”. Lui si gonfia così: “Ho fatto l’Italia un po’ più bella”. Oppure: “Vedo tutto d’istinto, come ha detto una volta la mia mamma. Sono una specie di strega”. Ancora: “Io sono come quel gran condottiero rinascimentale di Bergamo. Sì, come quel Bartolomeo Colleoni che da madre natura ne ebbe tre e non due”.
Troppo testosterone. Avido di donne, di divertimento, di strapazzi mondani, perennemente avvolto dal consenso femminile, non si chiude in Parlamento ma in Camera (da letto). Polaroid ’99 della prima volta di Silvio nel salottificio capitolino dell’avvocato Giuseppe Consolo. Eccolo che parlotta al telefonino, quindi lo passa a Gianfranco Fini che fa: “Veronica, stai tranquilla. Silvio sta con me”.
Ah, la fregola del cavaliere… Racconta Enzo Mirigliani, patron di Miss Italia: “Nel ’79 appare per la prima volta al concorso anche Silvio Berlusconi, in maglietta e bermuda, accompagnato da Giorgio Medail e alla guida di una piccola troupe della neonata Telemilano”.
Cerca la risata altrui. Sempre. Ovunque. Senza temere di esserne seppellito. E’ più forte di lui: abbia di fronte Clinton, i suoi apostoli di Forza Italia o il temibile comunista di turno, Silvio Berlusconi quando ce l’ha-ce l’ha (la barzelletta), la deve sparare. Ne ha un repertorio vastissimo. Che modella, personalizza, strumentalizza. Ricicla, se necessario. A volte oscilla pericolosamente tra il cattivo gusto e la gaffe: e allora sono smentite, sottili distinguo.
Non esistono colonne d’Ercole che la vena barzellettiera del Cavaliere non oltrepassi. A suo rischio, naturalmente. Come nell’agosto del ’94 quando, da pochi mesi a palazzo Chigi, sentendosi perseguitato dai giornalisti, sfogò così la sua insofferenza: “Al Pontefice cade il breviario in acqua e il premier, camminando sulle acque, glielo va a prendere. Titoli dei quotidiani: “Il presidente del Consiglio non sa nemmeno nuotare”. Il Vaticano tacque per qualche giorno poi, con tono vagamente piccato, fece sapere che il Papa l’aveva già sentita nell’83 quella barzelletta, in Polonia, dopo il colpo di Stato: al posto di Berlusconi c’era il generale Jaruzelski.
Con quel gaudente di Clinton, invece, il Cavaliere è sempre andato a nozze. Come quando, in pieno caso Lewinsky, non esitò a raccontargli di quello che si era fatto disegnare un neo sul pene: “L’ho fatto perché così, quando mi eccito, il neo diventa un moscone”. E l’altro: “Io invece mi sono fatto tatuare le lettere “So”: così, quando mi eccito, compare la scritta “Saluti da San Benedetto del Tronto”.
La controffensiva della barzelletta fu affidata al Manifesto: “Berlusconi muore e va in Paradiso. C’è una lunga coda, il Cavaliere pretende da San Pietro una corsia preferenziale. San Pietro telefona al Padreterno: “C’è uno che vuole passare davanti agli altri. Dice di chiamarsi Berlusconi”. E Dio: “E’ un impostore. Berlusconi sono io”.
I guai maggiori il Cavaliere li ebbe con quella dei banditi che entrano nell’ufficio, gridano “questa è una rapina» e un impiegato risponde: “Meno male, credevo fosse la Guardia di Finanza”: si beccò una querela dalla Fiamme Gialle. O quando sciorinò la storia del malato di Aids al quale il medico aveva consigliato di fare le sabbiature £così si abituerà a stare sotto terra”: insorse mezza Italia.
Era fatto così. Ho avuto occasione di incontrarlo due volte. La prima, nel ’92, a casa di Mario Cecchi Gori, con il quale Berlusconi aveva fondato la Penta Cinematografica, come autore di un filmetto, “Mutande Pazze”. C’era mezzo cinema italico, da Benigni a Verdone. Quando ci incrociammo parlammo di “Quelli della notte”, di Arbore che mai avrebbe lasciato la Rai per Mediaset, poi sparò due conveniveli con Chiara, la mia compagna di allora, infine ci chiese: “siete innamorati?”, ricevuto l’inevitabile risposta affermativa congiunse le nostre mani e ci dichiarò marito e moglie, tra un calicino e una pizzetta…
La seconda volta, quindici anni dopo, a casa di Sandra Carraro. Dopo i soliti convenevoli, mi prese da parte e mi chiese, serie serio: “Hai tatuato anche il tuo pisello?”. Al telefono, vista la grande schiera di ottimi imitatori della sua cadenza brianzola, non sapevo mai se avevo come interlocutore davvero “il presidente”, come veniva annunciato.
Politicamente, lo stregone del Bunga Bunga, egocentrico in stile “Dall’Io all’eternit”, ha fallito. Cannibalizzando delfini e pretendenti al trono, per ritrovarsi oggi con un partito nanizzato all’8 per cento. Se esiste uno spostamento a destra anche dell’elettorato democristo-conservatore, specie al Nord, egli ne porta la responsabilità. Per circa venticinque anni ha occupato il palcoscenico e non è riuscito o non ha voluto costruire un vero partito di centro, con una struttura organizzativa e una classe dirigente. In fondo Giorgia Meloni ha occupato un vuoto. Il suo vuoto.
(da Dagospia)
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Giugno 12th, 2023 Riccardo Fucile
A DI RUBBA (CHE HA SCELTO IL RITO ABBREVIATO) È CONTESTATO IL REATO DI PECULATO – MENTRE ANDREA MANZONI, EX REVISORE CONTABILE DEL CARROCCIO ALLA CAMERA, DEVE RISPONDERE DI BANCAROTTA (NEL SUO CASO IL PROCESSO È CON RITO ORDINARIO) – I DUE SONO STATI GIÀ CONDANNATI IN PRIMO GRADO PER IL FILONE PRINCIPALE DELL’INDAGINE
La Procura di Milano ha chiesto una condanna a 3 anni per Alberto Di Rubba, nominato lo scorso aprile nuovo amministratore federale della Lega, anche ex presidente della Lombardia Film Commission ed ex direttore amministrativo della Lega al Senato, in una tranche di indagine scaturita da quella sul caso Lfc, che aveva portato già ad una condanna per Di Rubba e anche per Andrea Manzoni, ex revisore contabile per il Carroccio alla Camera.
Nel nuovo filone, chiuso nel marzo 2022 a carico di 9 persone, sempre coordinato dall’aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi e condotto dalla Gdf, a Di Rubba e Manzoni e altri sono stati contestati, a vario titolo, reati fiscali, peculato (solo a Di Rubba) e bancarotta, anche a Manzoni, che ha scelto il rito ordinario (il gup dovrà decidere se mandarlo a giudizio).
L’ex commercialista di fiducia della Lega, Michele Scillieri, e suo cognato, Fabio Barbarossa, hanno chiesto intanto di patteggiare, davanti al gup Roberto Crepaldi, una pena di 4-5 mesi in continuazione con quella per peculato già patteggiata nel febbraio 2021.
Al centro del nuovo filone anche la vicenda di peculato relativa alla società Areapergolesi, contestata a Di Rubba e all’amministratore della stessa società Giuseppe Digrandi, e una presunta bancarotta a carico di Manzoni, del presunto prestanome Luca Sostegni (per lui chiesti 2 anni oggi) e altri in relazione al fallimento del marzo 2021 della società New Quien. Per Luca Lanfranchi, altro imputato, sono stati chiesti 2 anni e 2 mesi.
Nel rito ordinario ci sono anche Pierino Maffeis e Elio e Alessandro Foiadelli. Manzoni e Di Rubba sono stati già condannati per il filone principale rispettivamente a 4 anni e 4 mesi e 5 anni. L’udienza preliminare, davanti al gup Natalia Imarisio, andrà avanti il 10 luglio.
(da agenzie)
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Giugno 12th, 2023 Riccardo Fucile
UNA CONVERGENZA DI INTERESSI POTREBBE GARANTIRNE LA SOPRAVVIVENZA, MA FINO A QUANDO?
Non si consideri cinico l’affrontare cosa accade a un partito quando il suo leader muore. Ancor di più se quel partito è Forza Italia e il suo presidente, Silvio Berlusconi, ne è stato anche il fondatore, il finanziatore, il volto nazionale e internazionale, la personificazione dei pilastri ideologici sui quali si è retta tutta l’organizzazione. Un partito che, al primo punto del suo manifesto non scritto, vede il culto di Berlusconi, colui da cui tutto è nato, e l’idealizzazione della sua storia personale. Per queste e tante altre ragioni, tra cui la partecipazione numericamente indispensabile nella maggioranza di centrodestra, analizzare ciò che sarà di Forza Italia, dopo Berlusconi, è rilevante. Iniziando dal nome del prossimo presidente. Lo statuto prevede che il presidente del partito sia eletto ogni tre anni tramite un congresso nazionale. Tuttavia, la norma non è mai stata applicata: sarebbe stata una pura formalità la rielezione di Berlusconi e, quindi, nessuno ha mai chiesto di celebrare un congresso del partito. «Ma secondo voi davvero esiste qualcuno in Forza Italia che contesterebbe mai la presidenza di Berlusconi?», dice un parlamentare del gruppo. La sua affermazione è fattuale: da quando, nel 2013, Forza Italia è rinata – dopo la parentesi iniziata nel 2009 con il Popolo della libertà -, non si è mai tenuto un congresso.
Da statuto, spetta al Comitato di presidenza convocare il congresso, fissando una data. Almeno 90 giorni prima della convocazione congressuale, il Comitato deve stabilire delle regole per i seggi elettorali, il voto e lo spoglio, per le modalità di candidatura alla presidenza del partito e allo stesso Comitato di presidenza. Organo, quest’ultimo, che ad oggi non ha avuto modo di incidere nell’organizzazione del partito: tutte le scelte sono rimaste in capo a Berlusconi e al suo inner circle. Guardando al domani, alcuni giornali e i forzisti resistenti alla prevalente linea governista, ritengono che Antonio Tajani, essendo coordinatore nazionale del partito, non abbia agibilità, nonostante Berlusconi abbia cessato di essere presidente. L’incarico di coordinatore, invero, non è incluso nell’organigramma del Comitato di presidenza. Ma i più dimenticano che il ministro degli Esteri, oltre a essere coordinatore nazionale di Forza Italia, è anche l’unico vicepresidente del partito. Nel caso in cui il presidente in carica si dimettesse o venisse a mancare – ipotesi verificatasi oggi, ma che non è contemplata nello statuto -, è consequenziale che il vicepresidente Tajani diventi il presidente facente funzioni.
Le dinamiche di gestione del partito, negli anni, si sono fatte più complesse: con il tempo Berlusconi ha creato strutture e sovrastrutture i cui compiti si sono ingarbugliati tra loro: Ufficio di presidenza, Comitato di presidenza, Consulta del presidente, Consiglio nazionale, Conferenza dei coordinatori. Non essendo mai stato convocato il congresso nell’ultimo decennio, non c’è una prassi a cui far riferimento per sciogliere i processi interni. Ma a livello politico, cosa potrebbe accadere? Innanzitutto, la centralità che fu di Licia Ronzulli e oggi è detenuta da Marta Fascina potrebbe venire meno: ambedue le figure hanno avuto un peso nelle decisioni per la prossimità fisica a Berlusconi. Anche se Fascina, visto l’apporto dato nella riorganizzazione in chiave governista, potrebbe vantare un credito che Ronzulli non ha. Dovrebbe emergere definitivamente il nucleo che segue la linea del coordinatore nazionale e, appunto, presidente facente funzioni, Tajani. Dalla sua, inoltre, il ministro degli Esteri può vantare l’appoggio del capogruppo alla Camera, Paolo Barelli, che ha riottenuto l’incarico a scapito del ronzulliano Alessandro Cattaneo. Il secondo nucleo, quello che ormai appare minoritario, fa riferimento alla capogruppo al Senato, Ronzulli. Depotenziato dalla regia di Arcore, un paio di mesi fa, tra i volti not
Il debito da 92,2 milioni verso la famiglia
La verità, però, è che nessuna di queste due fazioni avrà mai il potere di prendere in mano il partito e farlo proprio. Perché il futuro di Forza Italia non può prescindere dalla volontà degli eredi di Berlusconi di mantenere economicamente vivo il partito. Seppure la leadership di Forza Italia finisse nelle mani di Tajani, la sussistenza dell’intera struttura è legata alle volontà della famiglia Berlusconi. Il partito ha accumulato un debito di 92,2 milioni di euro, comprensivi di interessi, nei confronti del Cavaliere. Si tratta di debito diretto che, dopo il suo decesso, Forza Italia deve corrispondere agli eredi di Berlusconi. I figli del Cavaliere, Marina Berlusconi in primis, intendono continuare a garantire l’esistenza di Forza Italia, non reclamando i quasi 100 milioni di euro di crediti ereditati? Qui si innestano almeno due schemi possibili. Il primo, che sembra essersi consolidato nelle ultime settimane, è quello di far coincidere gli interessi politici con gli interessi aziendali della holding di famiglia. Conviene sposare la linea governista, affinché gli affari delle compagnie del gruppo abbiano ancora una certa attenzione nelle scelte di governo. Mediaset, ad esempio, che è diventata MediaforEurope: dopo gli anni del Covid, sta registrando una crescita costante nei ricavi e nella raccolta pubblicitaria.
La convergenza di interessi
Della stretta correlazione tra politica e azienda è indicativo il percorso di Rete 4: l’emittente si sta connotando sempre di più come canale tematico per gli approfondimenti di politica interna. Per inciso, ad Andrea Giambruno, compagno di Giorgia Meloni, è stata affidata la conduzione di un talk politico in prima serata, proprio su Rete 4. A proposito della presidente del Consiglio, non è da sottovalutare il ruolo che giocherà la leader di Fratelli d’Italia nel futuro del partito di Berlusconi. Il suo interesse principale è quello di continuare ad avere una maggioranza stabile: se Forza Italia si sfaldasse, con un Senato in cui solo qualche decina di senatori fa la differenza tra centrodestra e opposizioni, il governo Meloni potrebbe terminare anzitempo il suo percorso. Gli interessi di Tajani, Meloni e famiglia Berlusconi sembrerebbero dunque convergere tutti nella stessa direzione: garantire una Forza Italia governativa.
NewCo e bad company
Arriviamo al secondo schema, che si sviluppa in senso opposto. Il debito di Forza Italia, ad oggi garantito da Silvio Berlusconi, viene ritenuto troppo ingombrante. Se gli eredi decidessero di non tutelare più il partito dal punto di vista finanziario, allora, potrebbe sorgere una sorta di NewCo, una nuova Forza Italia, lasciando nelle mani della vecchia organizzazione un debito da saldare, magari dilazionandolo in molti anni. Un po’ come avvenuto quando la Lega Nord è stata svuotata della sua ragione politica, ma è rimasta in piedi come bad company, e il partito vero e proprio si è ricostituito nella Lega – Salvini premier. Questa seconda opzione, però, sembra più improbabile: questo tipo di operazione impiegherebbe un po’ di tempo prima che la nuova Forza Italia si stabilizzi, causando fibrillazioni all’attuale maggioranza di governo. «Per chi possiede un’impresa mastodontica come Mediaset», chiosa un parlamentare di lungo corso «è molto più utile avere un partito che può agire in parlamento e nel governo per influenzare le scelte politiche, piuttosto che limitarsi a un lavoro di lobbying. Non vedo perché la famiglia Berlusconi dovrebbe privarsi del ramo politico del suo impero economico».
(da Open)
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Giugno 12th, 2023 Riccardo Fucile
FININVEST RASSICURA INVESTITORI E MERCATI: IL DOPO-CAV NON SARA’ UN TERNO AL LOTTO … GLI SPECULATORI, GIÀ IN AZIONE, SCOMMETTONO SU UN POSSIBILE DISIMPEGNO DELLA FAMIGLIA DA MEDIASET (MA NON DA MONDADORI E MEDIOLANUM)
“Con profondo dolore e sincera partecipazione la Fininvest ricorda il proprio fondatore, Silvio Berlusconi. La sua forza creativa, il suo genio imprenditoriale, la costante correttezza dei comportamenti, la straordinaria umanità sono sempre stati patrimonio inalienabile della società, come delle aziende del gruppo. E tale patrimonio resterà alla base di tutte le nostre attività, che proseguiranno in una linea di assoluta continuità sotto ogni aspetto”. E’ il messaggio di Fininvest in ricordo del suo fondatore.
“Non è difficile immaginare che se arrivassero le offerte giuste la famiglia Berlusconi si potrebbe disimpegnare da Mfe ed è questo il motivo per cui sale il titolo”. E’ la visione degli analisti sulla reazione di Borsa alla morte di Silvio Berlusconi.
Le azioni di categoria A, che trattano a sconto rispetto alle B, guadagnano il 6,18% a 0,50 euro, quelle di categoria B il 3,27% a 0,71 euro. La lunga malattia, i recenti ricoveri fanno immaginare che le aziende fossero preparate alla sua scomparsa e quindi non sono attesi scossoni e in generale il mercato si aspetta che tutto prosegua “in un’ottica di continuità”.
Tuttavia anche se “oggi è prematuro immaginare un orizzonte temporale”, la Borsa specula sulle difficoltà di gestire una famiglia allargata come quella del Cavaliere. La sua morte può quindi “aprire scenari tutti da scrivere” nei quali il mercato “vede la possibilità di uno sviluppo che generi valore”. E qualche considerazione su un possibile compratore porta a Vivendi (-0,91% sul listino di Parigi) che di Mfe è il secondo azionista. Il primo banco di prova per valutare la compattezza, dei cinque figli di Silvio Berlusconi verso le scelte aziendali sarà l’operazione di integrazione a livello europeo di Mediaset che rimane sul tavolo. La Borsa non si aspetta invece cambiamenti nella partecipazione in Mondadori (+1,33%) e nemmeno la quota in Mediolanum (-0,42%) è mai stata messa in discussione, né lo è ora.
(da Il Sole24ore)
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L’EREDITA’ POLITICA DI BERLUSCONI: QUALE SARA’ IL FUTURO DI FORZA ITALIA?
UNA CONVERGENZA DI INTERESSI POTREBBE GARANTIRNE LA SOPRAVVIVENZA, MA FINO A QUANDO?
Non si consideri cinico l’affrontare cosa accade a un partito quando il suo leader muore. Ancor di più se quel partito è Forza Italia e il suo presidente, Silvio Berlusconi, ne è stato anche il fondatore, il finanziatore, il volto nazionale e internazionale, la personificazione dei pilastri ideologici sui quali si è retta tutta l’organizzazione. Un partito che, al primo punto del suo manifesto non scritto, vede il culto di Berlusconi, colui da cui tutto è nato, e l’idealizzazione della sua storia personale. Per queste e tante altre ragioni, tra cui la partecipazione numericamente indispensabile nella maggioranza di centrodestra, analizzare ciò che sarà di Forza Italia, dopo Berlusconi, è rilevante. Iniziando dal nome del prossimo presidente. Lo statuto prevede che il presidente del partito sia eletto ogni tre anni tramite un congresso nazionale. Tuttavia, la norma non è mai stata applicata: sarebbe stata una pura formalità la rielezione di Berlusconi e, quindi, nessuno ha mai chiesto di celebrare un congresso del partito. «Ma secondo voi davvero esiste qualcuno in Forza Italia che contesterebbe mai la presidenza di Berlusconi?», dice un parlamentare del gruppo. La sua affermazione è fattuale: da quando, nel 2013, Forza Italia è rinata – dopo la parentesi iniziata nel 2009 con il Popolo della libertà -, non si è mai tenuto un congresso.
Da statuto, spetta al Comitato di presidenza convocare il congresso, fissando una data. Almeno 90 giorni prima della convocazione congressuale, il Comitato deve stabilire delle regole per i seggi elettorali, il voto e lo spoglio, per le modalità di candidatura alla presidenza del partito e allo stesso Comitato di presidenza. Organo, quest’ultimo, che ad oggi non ha avuto modo di incidere nell’organizzazione del partito: tutte le scelte sono rimaste in capo a Berlusconi e al suo inner circle. Guardando al domani, alcuni giornali e i forzisti resistenti alla prevalente linea governista, ritengono che Antonio Tajani, essendo coordinatore nazionale del partito, non abbia agibilità, nonostante Berlusconi abbia cessato di essere presidente. L’incarico di coordinatore, invero, non è incluso nell’organigramma del Comitato di presidenza. Ma i più dimenticano che il ministro degli Esteri, oltre a essere coordinatore nazionale di Forza Italia, è anche l’unico vicepresidente del partito. Nel caso in cui il presidente in carica si dimettesse o venisse a mancare – ipotesi verificatasi oggi, ma che non è contemplata nello statuto -, è consequenziale che il vicepresidente Tajani diventi il presidente facente funzioni.
Le dinamiche di gestione del partito, negli anni, si sono fatte più complesse: con il tempo Berlusconi ha creato strutture e sovrastrutture i cui compiti si sono ingarbugliati tra loro: Ufficio di presidenza, Comitato di presidenza, Consulta del presidente, Consiglio nazionale, Conferenza dei coordinatori. Non essendo mai stato convocato il congresso nell’ultimo decennio, non c’è una prassi a cui far riferimento per sciogliere i processi interni. Ma a livello politico, cosa potrebbe accadere? Innanzitutto, la centralità che fu di Licia Ronzulli e oggi è detenuta da Marta Fascina potrebbe venire meno: ambedue le figure hanno avuto un peso nelle decisioni per la prossimità fisica a Berlusconi. Anche se Fascina, visto l’apporto dato nella riorganizzazione in chiave governista, potrebbe vantare un credito che Ronzulli non ha. Dovrebbe emergere definitivamente il nucleo che segue la linea del coordinatore nazionale e, appunto, presidente facente funzioni, Tajani. Dalla sua, inoltre, il ministro degli Esteri può vantare l’appoggio del capogruppo alla Camera, Paolo Barelli, che ha riottenuto l’incarico a scapito del ronzulliano Alessandro Cattaneo. Il secondo nucleo, quello che ormai appare minoritario, fa riferimento alla capogruppo al Senato, Ronzulli. Depotenziato dalla regia di Arcore, un paio di mesi fa, tra i volti not
Il debito da 92,2 milioni verso la famiglia
La verità, però, è che nessuna di queste due fazioni avrà mai il potere di prendere in mano il partito e farlo proprio. Perché il futuro di Forza Italia non può prescindere dalla volontà degli eredi di Berlusconi di mantenere economicamente vivo il partito. Seppure la leadership di Forza Italia finisse nelle mani di Tajani, la sussistenza dell’intera struttura è legata alle volontà della famiglia Berlusconi. Il partito ha accumulato un debito di 92,2 milioni di euro, comprensivi di interessi, nei confronti del Cavaliere. Si tratta di debito diretto che, dopo il suo decesso, Forza Italia deve corrispondere agli eredi di Berlusconi. I figli del Cavaliere, Marina Berlusconi in primis, intendono continuare a garantire l’esistenza di Forza Italia, non reclamando i quasi 100 milioni di euro di crediti ereditati? Qui si innestano almeno due schemi possibili. Il primo, che sembra essersi consolidato nelle ultime settimane, è quello di far coincidere gli interessi politici con gli interessi aziendali della holding di famiglia. Conviene sposare la linea governista, affinché gli affari delle compagnie del gruppo abbiano ancora una certa attenzione nelle scelte di governo. Mediaset, ad esempio, che è diventata MediaforEurope: dopo gli anni del Covid, sta registrando una crescita costante nei ricavi e nella raccolta pubblicitaria.
La convergenza di interessi
Della stretta correlazione tra politica e azienda è indicativo il percorso di Rete 4: l’emittente si sta connotando sempre di più come canale tematico per gli approfondimenti di politica interna. Per inciso, ad Andrea Giambruno, compagno di Giorgia Meloni, è stata affidata la conduzione di un talk politico in prima serata, proprio su Rete 4. A proposito della presidente del Consiglio, non è da sottovalutare il ruolo che giocherà la leader di Fratelli d’Italia nel futuro del partito di Berlusconi. Il suo interesse principale è quello di continuare ad avere una maggioranza stabile: se Forza Italia si sfaldasse, con un Senato in cui solo qualche decina di senatori fa la differenza tra centrodestra e opposizioni, il governo Meloni potrebbe terminare anzitempo il suo percorso. Gli interessi di Tajani, Meloni e famiglia Berlusconi sembrerebbero dunque convergere tutti nella stessa direzione: garantire una Forza Italia governativa.
NewCo e bad company
Arriviamo al secondo schema, che si sviluppa in senso opposto. Il debito di Forza Italia, ad oggi garantito da Silvio Berlusconi, viene ritenuto troppo ingombrante. Se gli eredi decidessero di non tutelare più il partito dal punto di vista finanziario, allora, potrebbe sorgere una sorta di NewCo, una nuova Forza Italia, lasciando nelle mani della vecchia organizzazione un debito da saldare, magari dilazionandolo in molti anni. Un po’ come avvenuto quando la Lega Nord è stata svuotata della sua ragione politica, ma è rimasta in piedi come bad company, e il partito vero e proprio si è ricostituito nella Lega – Salvini premier. Questa seconda opzione, però, sembra più improbabile: questo tipo di operazione impiegherebbe un po’ di tempo prima che la nuova Forza Italia si stabilizzi, causando fibrillazioni all’attuale maggioranza di governo. «Per chi possiede un’impresa mastodontica come Mediaset», chiosa un parlamentare di lungo corso «è molto più utile avere un partito che può agire in parlamento e nel governo per influenzare le scelte politiche, piuttosto che limitarsi a un lavoro di lobbying. Non vedo perché la famiglia Berlusconi dovrebbe privarsi del ramo politico del suo impero economico».
(da Open)
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Giugno 12th, 2023 Riccardo Fucile
FINI OFFICIA LA CERIMONIA, GASPARRI IN PRIMA FILA CON ALEMANNO. PER FDI, PRESENZIA LA COPPIA DONZELLI-BIGNAMI. TRA I PRESENTI IL GENERALE DELLA FINANZA, FRANCESCO GRECO, E IL NUOVO CORTEGGIATISSIMO DIRETTORE DELLE DOGANE, ROBERTO ALESSE… VISSANI CON SCARPE DI PELLE ROSSA. CESARE PREVITI IN T-SHIRT BIANCA
Il Royal wedding è stato una patacca. Il matrimonio dei Ferragnez una robetta. L’unico vero grande matrimonio è l’Italo Bocchino wedding, 10 giugno 2023, Villa Lina, Ronciglione. In nome della legge vi dichiariamo che Italo ci ha detto sì: “Vi invito al mio matrimonio con Giusi”.
Giusi è Giuseppina Ricci ed è bella come Grace Kelly. Gli toglie pure le rughette sul viso ogni tre settimane. E’ chirurga estetica. Lui è il principe della destra, l’allievo di Pinuccio Tatarella, il fratellino di Gianfranco Fini, il solo che tiene testa ad Andrea Scanzi a Otto e mezzo.
Giorgia Meloni ogni volta che lo vede in video sbarluccica: “Con dieci Italo, io mi prendo pure l’Europa”. La storia della repubblica è solo una lancetta del suo amore.
Le sue prime nozze sigillavano la stagione politica di Silvio Berlusconi. Era il 1995. Le sue seconde, oggi, sono chiaramente la promessa dell’età Meloni. Il giornale: “Ci dobbiamo essere”. Non si può. Come annunciato nei più importanti siti di gossip: “Il matrimonio di Italo e Giusi è a porte chiuse nella graziosa Ronciglione, in provincia di Viterbo”.
Carabinieri, servizio d’ordine. Assicurata anche la presenza di uomini di governo, oltre alla partecipazione garantita di Fini, celebrante del matrimonio civile.
Telefoniamo a Italo, che è anche direttore editoriale del Secolo d’Italia. “Direttore, portiamo il pranzo da casa. Italo, facci entrare. Italo, per noi il tuo matrimonio vale più di dieci feste al Quirinale, quelle del 2 giugno. Urbano Cairo rilegge, ogni mezz’ora, l’intervista che tu e Giuseppina avete rilasciato, e che gli ha fatto fare il botto di clic”.
Tra gli invitati veniamo a sapere che ci sarà pure il ministro Genny Sangiuliano, ma Genny Sangiuliano, per un favore del genere, chiederebbe come minimo il monografico del lunedì del Foglio, a sua firma. Oltre ventottomila battute su Benedetto Croce. Non si può fare. La resa non esiste. Il vicedirettore non vuole saperne.
La destra di Italo è inclusiva: “Un tavolo lo troviamo”. Italo è cuore napoletano. Italo, sei il nostro futuro e la libertà. Italo, grazie. Italo ci gira il prezioso link che vale più di un Btp valore. E’ il link con tutte le comunicazioni per accedere all’Italo wedding. Non lo possiamo comunicare a nessuno.
Finiamo in coda sulla Cassia, dietro una Lancia Musa del 2004 che fa tanto destra. Ci ferma pure la polizia a cui diciamo che siamo diretti a un matrimonio. L’agente fa notare che non abbiamo messo il fiocco. Come invitati siamo una cippa.
Per strada, tra la Roma-Viterbo, numerosi annunci sulle patate novelle a buon prezzo. Questo racconto sta diventando un purè. E’ l’emozione. Il navigatore, che è stato chiaramente sabotato da Andrea Scanzi, impazzisce. Non si sa come, ma prendiamo un tragitto che ci fa allungare di trenta minuti.
Il count down adesso ci fa paura. Entriamo a Ronciglione e ci perdiamo in pieno centro. Il vigile urbano capisce subito: “Siete per il matrimonio di Italo. L’Italo wedding. E’ festa nazionale. Siete quasi arrivati. Si trova a pochi metri da qui”.
Italo e Giuseppina non sposatevi, intendiamo dire, attendeteci. Ecco la villa, le automobili dei carabinieri. Siamo a un passo dall’Italo wedding. Ci fermano perché non somigliamo per nulla a Lucia Annunziata. Il carabiniere guarda un giovane riccioluto con una lista gold. Si guardano a loro volta. Butta male. “Signore, lei non c’è”. Italo, vieni a salvarci! “Si accosti”.
Il carabiniere, cortesissimo: “Sa, ci sono quelli che cercano di entrare all’ultimo minuto. Chiamano gli sposi e ovviamente gli sposi, che sono felici, non riescono a dire di no. Finisce sempre che si trovano a dover aggiungere posti per persone che neppure conoscono. Questi invitati dell’ultimo minuto, mi creda, sono i peggiori”.
Vediamo entrare Carmelo Briguglio, ex deputato di An e oggi al fianco del ministro Nello Musumeci, con papillon e gli occhialini rotondetti. Ricorda il grandissimo Philippe Daverio. Sfreccia una Porsche Cayenne. Sarà forse dell’Annunziata? Vai a sapere.
A seguire le auto di Maurizio Gasparri e di Gianni Alemanno. Sembra Fiuggi, trent’anni dopo. C’è pure l’avvocato Peppino Valentino, che è il più amato dagli ex missini. Il carabiniere ci dice che quello, sì, quello, a cui ha fatto gli onori, è addirittura il generale della Gdf, Francesco Greco, un giorno sicuramente futuro comandante generale della Gdf. Hai capito. Restiamo sempre accostati. Il count down scorre. Il giovane riccioluto si scioglie in un sorriso: “Italo ha detto sì. Entrate”.
Italo tu sei meglio del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, che, per il sito Dagospia, sarebbe addirittura presente, invitato. Siamo finalmente dentro Villa Lina. Parcheggio, a destra. Come non detto. Villa Lina è la villa dove ha pernottato D’Annunzio, il Vate. Ma si sa che il Vate è come Garibaldi, l’eroe che ha dormito in una casa in ogni angolo d’Italia.
Una dolcissima signora ci avvisa che Villa Lina è però davvero speciale perché è la prima villa italiana con piscina olimpionica e che qui vengono a sposarsi perfino dal Libano. “Prosegua, avanti. Gli invitati sono già dentro”. Ci sono statue, ruscelletti, e c’è pure il fieno. E’ bucolico, da sogno. Italico, Italo.
All’ingresso vengono consegnati gli ombrellini di carta per proteggersi dal sole e il bigliettino fatato, la mappa per il tavolo. Ovviamente del tavolo se ne parla dopo. Pochi metri e poi lui. Lo sposo. Italo. C’è Italo! E’ vestito meglio del Windsor. E sapete perché? La scuola. Italo non si nasce, ma si diventa.
Dicevamo della fortuna di Italo. Quando si cresce con Tatarella, si combatte politicamente con Gianfranco Fini, si ragiona con Pietrangelo Buttafuoco (hanno vissuto a Roma nella stessa casa i loro anni più belli) è naturale che si diventa Italo.
Il presidente come avrebbe potuto mancare? Il presidente è solo un presidente. In realtà, alle nozze di Italo, doveva esserci pure quello del Senato, Ignazio La Russa, ma, purtroppo, un inderogabile impegno istituzionale, un passaggio storico, la finale di Champions League dell’Inter, ha impedito a La Russa di unirsi.
Che comunità, quella degli ex An. Ma, come dicevamo, per questa comunità c’è solo un presidente. Il rosa, in Italia, lo ha sdoganato lui. Chi, prima del presidente, aveva il coraggio di indossare le cravatte color rosa? Chi? Chi, prima del presidente, portava gli abiti a quadrettoni, sartoria ischitana? Lo vediamo seduto su una piccola sedia a dondolo mentre studia il codice civile che reciterà con il suo italiano superbo.
E’ il presidentissimo Fini, l’ex presidente della Camera, il segretario di An, lo zio della destra italiana, lo zio di Meloni, di Galeazzo Bignami, di Giovanni Donzelli (che poi vedremo arrivare in compagnia delle loro mogli).
La svolta di Fiuggi l’ha voluta lui. “Che fai? Mi cacci” è la frase che l’italiano offeso dalla vita, e dal capo, sogna tutte le notti di urlare a squarciagola, così come Fini la urlò a Silvio Berlusconi. Eroe. Furono i migliori anni della loro vita. E’ Fini che ha tolto il grasso della destra e infatti, Fini, è sempre magro e profumato come un albero di limone. Ci avviciniamo pure noi come l’urologo Mirone, invitato a nozze: “Presidente si ricorda? Ero militante di Futuro e Libertà”. Sentite che risposta: “Non si preoccupi, caro professore, un reato prescritto”.
Ci presentiamo. Italo è troppo preso, comprensibilmente. Ha pensieri solo per la sua Giusi che, dopo la preziosa intervista di Candida Morvillo, sul Corriere, sappiamo essere la luna di Italo.
Chiediamo aneddoti sugli sposi, sui matrimoni aennini. Lo zio: “Ho perso il conto dei matrimoni che ho celebrato. A Roma, durante la sindacatura Rutelli, tutti i romani di destra, che mi volevano sindaco, mi chiedevano di celebrare i loro matrimoni. Ma sono stato consigliere comunale anche ad Aprilia, Reggio Calabria, Marino e Brescia. E quindi anche quelli. Quanti chicchi di riso nella mia vita. Non ha idea. Ma parliamo d’altro. Devo dire la verità. Ho rimproverato Italo. Sono quasi le 11,50 e non è stato versato neppure un goccio di spumante. Così non va bene”.
Concordiamo con il presidente. Ora capite perché Fini era davvero “il compagno Fini”? Insieme allo zio seguiamo con gli occhi lo sposo. Italo ha appena salutato il nuovo direttore delle Dogane, Roberto Alesse, corteggiatissimo, già capo di gabinetto di Fini e tante altre cariche che servirebbe un paragrafo per elencarle. Indossa un abito modello Fini, perché la classe è sempre classe.
Quello che fa marameo con la barba, alla Russel Crowe, è invece Mario Orfeo, il direttore del Tg3, l’ultima casa in collina del Pd in Rai, ma anche “fratello di Italo, non d’Italia”, e con la calza da vero Gallo.
Lo zio Fini ha capito che abbiamo bisogno della sua guida. Ci indica un invitato che dice corrispondere al triestino Roberto Menia, mentre, a destra, quello è il super editore Pippo Marra dell’Adnkronos.
Era invitato pure l’editore del Riformista e Unità, Alfredo Romeo, ma non ce l’ha fatta, così come non ce l’ha fatta Piero Sansonetti. Ma qui l’editoria fa da testimone in ogni senso. Quello di Italo (il testimone) è il supermanager Francesco Dini, vent’anni a Mediaset e altri venti nel gruppo Espresso di Carlo De Benedetti.
La testimone di Giuseppina è invece la sorella. Non lasciamo Fini, almeno fino a quando non ci caccia. Tutti vogliono il selfie con lo zio e chiunque si avvicini gli chiede: “Presidente, lei ci manca. Presidente, torni”. Lui: “Vivo sereno. La vita è cambiata. E’ più lenta. Ho giocato la Champions, il resto mi sembra campionato”.
I Ray Ban, che erano gli occhiali dello zio, sono gli occhiali da sole più esibiti all’Italo wedding. Mentre lo zio Fini accende il toscanello, con il nostro accendino, si presenta una damigella. Sembra la sposa. Ed è come se lo fosse. Tiene per mano un ragazzo e lo presenta con tenerezza allo zio Fini.
Dice al fidanzatino: “Lo sai che lui mi ha cresciuto, mi teneva in braccio?”. Lo zio sta quasi per commuoversi: “Sei uguale a tua madre”. E’ Antonia, la figlia di Italo, avuta dal suo primo matrimonio. L’altra, vestita come la sorella, è Eugenia. Ma ci sono anche le due figlie di Giuseppina.
La famiglia Ricci-Bocchino è allegra, come Allegra è la moglie di Luca Josi, l’ultimo dei socialisti, presente pure lui per Italo. Quanti ricordi, ma anche quanti affetti sacrificati. Lo testimonia ancora lo zio: “Alla fine resta solo l’amore, e chi meglio di me lo può dire?”.
Lo zio: “Dovete sapere che Italo si è formato con Luciano Laffranco, uomo di intelligenza unica. Era il capo dei Grifoni. Si tratta del movimento goliardico degli studenti perugini. A quel tempo, la goliardia era sul serio qualcosa di intelligente. Laffranco era titolare di una libreria. Italo ha avuto come maestri Tatarella e Laffranco. E’ stato Laffranco a teorizzare la svolta di Fiuggi”.
Lo zio e Italo hanno almeno cinque librerie nella loro testa. Quanto leggevano. Lo zio, anticipa, ha preparato una serie di aforismi sul matrimonio che intende declamare. E noi ci allontaniamo perché è venuto a salutarlo forse l’ospite simbolo dell’Italo wedding. E’ un italiano, un chirurgo, che ha il record di trapianti riusciti.
Militante del partito Fratelli di Italo. Si chiama Cataldo Doria. Ha preso un volo dall’America, insieme a tutta la famiglia, perché non voleva mancare alle nozze. Dirige la divisione trapianti della Jefferson University. Ci sono fratelli di Italo nel mondo e ci sono pure già cinquanta sedie allestite che attendono. Cerchiamo un amico della sposa e lo troviamo. Dice di chiamarsi Giovanni e, come Briguglio, porta il papillon. Che chic.
Chiediamo a Giovanni se sarebbe disposto a cedere il codice del telefono alla sua compagna, così come hanno fatto Italo e Giusi. Sarà il vero tormentone del matrimonio. Giusi e Italo hanno dichiarato di possedere entrambi il codice segreto del loro rispettivo telefono perché il loro amore non ha opacità.
Fini garantisce dopo: “Sono due piccioncini. Si amano, si vede”. L’amico di Giuseppina dice che lui “non ce la fa a dare il codice” e che non vuole avere il codice della sua compagna, fedele al motto “occhio che non vede, cuore che non duole”.
Il cuore quanto bene e male può fare. Giovanni Donzelli, vicino a sua moglie, dovreste vederlo. Non le lascia mai la mano. Si è tagliato pure i capelli e sorride anche a noi che gliene abbiamo combinate.
Vicino a lui c’è Galeazzo Bignami, figlio di Marcello, colonna della destra bolognese. E’ ritenuto da tutti gli invitati il più preparato Fratello d’Italia. Italo chiede alla figlia Antonia: “Ma quando arriva Giusi. Quando, quando?”. Da Napoli (anche la bomboniera è campana, del maestro Ferrigno, un cornetto) è intanto sbarcato Stefano Caldoro, ex governatore socialista, e sempre dalla Campania, con moglie, è arrivato anche Maurizio Pietrantonio, direttore generale del Festival di Ravello, già sovrintendente al Teatro Lirico di Cagliari.
Segnatevi questo nome. I napoletani, Vincenzo De Luca, gli orchestrali, lo vogliono alla guida del San Carlo di Napoli, teatro dove il fantasma dell’Opera è sempre Carlo Fuortes. Genny Sangiuliano cosa farà a questo punto? La Rai è l’ovunque nazionale.
Partecipa all’Italo wedding pure il parlamentare di FdI Luca Sbardella, membro della Vigilanza Rai, che, giustamente, fa notare agli amici: “Ma perché fare una commissione di Vigilanza alle 8 di mattina, sempre alle 8 di mattina? Ma che modo è?”.
Parlando di Rai, non si può che fare menzione di Gasparri, che in Rai è sempre il leader del partito Gasparri. Racconta che lui è sposato da quarant’anni. Urge un documentario sulla coppia Gasparri. Se troviamo la moglie, vi spergiuriamo che le faremo l’intervista del secolo. Mancano davvero pochi minuti, ma qualcuno ha già procurato dello spumante Franciacorta Mille dei Fratelli Muratori che si accompagnerà, come leggiamo sull’invito (acquerello su carta, a firma di Eugenia Bocchino) al “vino Grecante di Arnaldo Caprai, al Merlot Lapone e al Florus Banfi”.
Caffè quanti ne volete. Sul prato di Villa Lina, di fronte a manufatti di roccia antica, e quasi esoterica, una donna si interroga: “Ma io quello lo ricordo. Il nome ce l’ho sulla lingua”. E’ una figura celebre degli anni berlusconiani. Sulla lingua, sulla lingua. E’ un uomo dal fisico asciutto, uno straordinario ottantottenne e sbalordisce tutti perché, sotto la giacca, come fa Armani, porta una t-shirt di colore bianco. Magnifica.
Ma chi è? Non c’è dubbio è proprio Cesare Previti, l’ex ministro della Difesa, berlusconiano, ed è accompagnato dalla moglie, attrice teatrale, capello corto biondo. Donna di gusto.
E’ lei a rivelarci che la t-shirt di Cesare è della casa di moda Kiton. Cesare si diverte un mondo. Ottantotto anni e non sentirli. Ci consente di dargli del tu e ci annuncia che questa estate se ne va in barca a vela, alla faccia di tutti i magistrati che nella sua vita ha combattuto, con la freccia e con il manoscritto. Anm, birignao!
Ma chiediamo lumi. Ci siamo dimenticati di dire che, dopo il primo calice Mille, che abbiamo visto, anche noi Mille e ancora Mille, come la canzone di Orietta Berti. Parliamo con Previti, come se fossimo al bar di piazza di Pietra a Roma. Domandiamo a Cesare se ha votato Meloni e lui: “Me piace. Certo, l’ho votata. Giorgia è gajarda. Ha dieci anni di governo garantito. La sua squadra di governo deve solo compiere il salto di qualità. Meloni era finora un mistero. Io dico un mistero necessario. Oramai è la certezza. Evviva”.
Gianni Alemanno cerca le polpette con la paprika e il piattino con la cozza spumantosa. Orfeo che è direttore, se leggesse questo pezzo, ci farebbe notare che non abbiamo ancora detto nulla sull’abito della sposa. Ma, per fortuna, noi gli stiamo lontano. Servono indiscrezioni sull’abbigliamento. Giuseppina dove ha comprato l’abito che toglierà il fiato? Aiutati dalla moglie di Previti andiamo a chiedere a Susette, l’amica di Giusi che lavora con lei. “Non ricordo, ma vedrete. Rimarrete a bocca aperta”.
La band Baraonna ci avvisa. La sposa, la sposa. La sposa arriva. Italo è già con le mani sull’anello. Lo zio Fini afferra i documenti, aiutato dal delegato comunale. Andiamo. Vediamo Giuseppina incedere e ora si capisce perché Italo tritura Scanzi ogni sera, in televisione. Il paragone con Grace Kelly lo fa un’amica. Diadema, capelli, portati dietro. Il velo è lunghissimo. Viene voglia di sposarsi, salvo pensare che, se come Italo dovessimo dare il codice a nostra moglie, finiremmo all’ergastolo. Facciamo sposare Italo e Giuseppina.
Lo zio meglio di un prete recita la formula delle formule: “Lei è il signor Italo Bocchino? Lo dica forte e chiaro. Lei è la signora Giuseppina Ricci? Lo dica forte e chiaro. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà…”. Non ci crederete, ma mentre lo zio è impegnato nella sua funzione civile, si alzano in cielo dei droni per catturare questi momenti di felicità. Sono paparazzi tecnologici.
Premette lo zio Fini: “Ero indeciso se dirlo, ma confido nella vostra generosità e nella loro (rivolto a Giuseppina e Italo) ironica intelligenza”. Ecco l’ultimo aforisma: “L’amore disinteressato della sposa toglie le rughe dal cuore del suo uomo. Auguri!”.
Orfeo, che vuole sempre arrivare primo sulle notizie, è pure il primo a lanciare il riso. Giuseppina prende la parola e piange dalla gioia. Ringrazia gli amici che sono stati vicino. Sangiuliano, che ogni giorno si fa comunicare le vendite dei libri dell’ex ministro della Cultura, Dario Franceschini e che li confronta ai suoi per dire: “Io ho venduto più di Franceschini”, ha l’occhialetto lucido. Ripone infatti l’occhiale da vista nel taschino e mette quelli da sole. Sono color argento. Li avrà rubati ai Depeche Mode?
Lo raggiungiamo e ci spiega che con Italo l’amicizia è lunga, dai tempi del Fuan . Ma Sangiuliano dice che lui non è uomo d’interviste e che lui fa solo editoriali in prima pagina. E’ un metodo: “I direttori mi chiedono l’intervista e io rilancio sempre. Ti faccio un editoriale. Funziona”.
Il maestro Vissani, che è amico di Italo, scarpe di pelle rossa, concorda che i matrimoni di Italo sono il solo cronometro della politica italiana. Ma gli invitati replicano che l’unica vera leadership è quella di Vissani che ha sbancato l’uninominale Ronciglione-Viterbo, con il suo riso carnaroli, cucinato con “uva e olio di rosmarino, pallotte cacio e ova”.
Sangiuliano, che ormai ci teme, chiede al cameriere di tenerci a debita distanza, ma noi siamo ormai amici di Italo che ci chiama direttamente al telefono per assicurarsi che siamo ben alimentati. Ve la vedete una come Elly Schlein che telefona solo per chiedere all’invitato elettore: “Stai mangiando?”. Il cameriere non fa altro che ripianare il calice sotto il pergolato del tavolo Gerusalemme.
Ci indicano che al tavolo c’è un campione della comunicazione come Luca Ferlaino, figlio di Corrado, e che la donna, che si è appena alzata, con il cappello più scintillante della festa, è Donna Tatarella, la professoressa Tatarella.
Sulle note di “Malafemmena”, che Italo e Giuseppina cantano in coro con Luigi Carbone, presidente di sezione del Consiglio di stato, ed ex capo di gabinetto di Roberto Gualtieri al Mef, decidiamo di inseguire Donna Tatarella per afferrare i suoi pensieri. Previti ci schiaccia l’occhio. Andate. Raggiungiamo la professoressa Tatarella Filipponio che è una fan di Giorgia Meloni.
C’era chi ha perfino ipotizzato la presenza della premier. Ma la nostra premier, dicono qui a Villa Lina, da Palazzo Chigi avrebbe benedetto Giuseppina e Italo. Ed è naturale. Non può che benedire questa bella comunità che, alla fine, l’ha fatta crescere patriota e forte.
E’ vero che lei ha ricominciato da sola, con l’altro zio Ignazio, e che si è inventata FdI, ma Bocchino e Fini sono l’eleganza della destra: gemelli d’oro, libri antiquari, quotidiani di carta, galanteria. Cercano ancora le cose belle, le poesie, come fa Donna Tatarella.
A Italo consegna questo foglio. E’ una poesia di Erich Fried: “E’ assurdo dice la ragione / e quel che è, dice l’amore. E’ ridicolo dice l’orgoglio / E’ avventato dice la prudenza / E’ impossibile dice l’esperienza / E’ quel che è dice l’amore”. Dopo tutto questo sapere confessiamo alla professoressa Tatarella che ci sentiamo travolti d’amore. E lei: “E’ la condizione più felice. Il resto cosa volete che sia?”.
E’ questo il vero inno della comunità. Giuseppina dirige, Italo accompagna: “Staje luntana da stu core / a te volo cu ‘o penziero, ca tenerte sempre a fianco a me!”. Donzelli, Bignami, anche loro: “Si’ sicura ‘e chist’ammore / comm’i’, so’sicuro ‘e te…”.
Lo zio Fini si allontana proprio quando arriva la strofa, o forse siamo noi che non lo troviamo più.§
Diceva prima: “Si amano, si amano. Guardi. Guardi come è bello vederli. Io lo so cosa significa amore. Se c’è qualcuno che lo ha conosciuto, e sofferto per amore, quello sono io”.
E’ la strofa che lui mastica di nascosto, quando nessuno lo vede, è quella la strofa dell’amore, la strofa che Giuseppina si scambia con Italo: “Oje vita, oje vita mia / Oje core ‘e chistu core / si’ stata ‘o primmo ammore/ e ‘o primmo e ll’urdemo sarraje pe’ me”.
(da Il Foglio)
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Giugno 12th, 2023 Riccardo Fucile
TANO PERRETTA, 36 ANNI, LAVORA COME DESIGNER DA 11 ANNI NELLA CITTA’ TEDESCA
Tano Perretta ha 36 anni e gli ultimi undici li ha passati a Berlino. Originario della provincia di Cosenza, dopo il liceo si è trasferito a Milano per studiare Design della comunicazione, senza più riavvicinarsi a casa.
In Germania, svolge la professione di User Interface Designer (si occupa dell’interfaccia utente di software e pagine web). Non ha idea di cosa ne sarà del suo futuro, ma sa che quella di trasferirsi – e stabilirsi, almeno per ora – nella capitale tedesca è stata la scelta migliore che potesse fare
Ha raccontato la sua storia, che è quella di tanti ragazzi e ragazze che per amore, studio e soprattutto lavoro decidono ogni anno di emigrare dall’Italia.
“Undici anni fa, poco dopo la laurea al Politecnico di Milano, ho fatto le valigie e mi sono trasferito a Berlino”. Da quel 2012 Tano non è più tornato a vivere in Italia.
“Ho deciso di seguire la mia ragazza di allora, che aveva trovato lavoro in Germania. Io al tempo stavo facendo un tirocinio in un quotidiano che a malapena mi permetteva di pagare l’affitto per un posto letto a Milano. I 300 euro che guadagnavo finivano tutti per la stanza (e comunque i prezzi erano notevolmente più bassi rispetto ad ora), senza coprire nemmeno le bollette”.
Appena arrivato a Berlino, Tano ha trovato un altro lavoro da tirocinante e sin da subito ha capito che l’aria era diversa: “Lavoravo come digital designer per 650 euro al mese. La stanza, spese incluse, costava 280 euro: si trattava di un netto miglioramento della mia situazione”.
Sono passati 11 anni e diversi lavori da allora, ma ancora si stupisce al ricordo di essere partito con un pensiero completamente diverso: “All’inizio pensavo fosse una cosa solo temporanea, non ero mica partito con l’idea di restare. Però poi mi sono trovato molto bene, mi hanno offerto un contratto a tempo indeterminato… Beh, sono rimasto”.
Berlino, per Tano, è una continua scoperta: “Io vengo da un paesino del sud Italia, fa ancora più contrasto. È una città dinamica, in continua crescita ed evoluzione. Berlino offre davvero tanto a chiunque – forse persino troppo, è alto il rischio di perdersi – a livello di sviluppo personale si sta decisamente meglio”.
Per non parlare poi della prospettiva lavorativa. “Non è solo una questione di stipendi – senza paragoni – ma anche di concezione del lavoro in sé, di rispetto dei lavoratori e della loro attività. Ho lavorato come freelance sia in Italia che in Germania. Ebbene, per lo stesso identico progetto in Italia mi assumevano per la metà delle ore, ero pagato meno e mi richiedevano lo stesso carico di lavoro che in Germania mi avrebbero dato con 10-15 ore di lavoro in più e con stipendi maggiori”.
“Un esempio, per rendere meglio l’idea della diversa percezione del lavoro e dell’importanza dello stesso dipendente. Ieri il nostro capo ci ha detto: ‘Per invogliarvi a passare più giornate in ufficio (visto che siamo tutti in smart working), pensavo di organizzare grigliate dopo il lavoro ed eventi di team building’. Io ridevo sotto i baffi e cercavo di immaginarmi come sarebbe andata in Italia, probabilmente se la sarebbe cavata con un secco: ‘Domani tornate in ufficio, punto e basta’”.
Secondo il giovane, questo clima di rispetto reciproco e stima sarebbe abbastanza comune al di là delle Alpi, non frutto di un fortunato caso: “La differenza è che in Germania c’è tanto lavoro, quindi il dipendente ha il coltello dalla parte del manico. Le aziende ci tengono a trattarti bene per non perderti”.
Lo stesso non si può certo dire dell’Italia: “Sono stato un anno in Australia e al mio rientro, nel 2020, ho cercato lavoro in Italia, Spagna e Germania. Ho fatto un colloquio in Italia e ho chiesto uno stipendio più basso addirittura del 30%: mi hanno guardato quasi scocciati facendomi capire che era comunque troppo”.
“Lavorare in Italia, dopo aver lavorato in Germania o Australia, come si dice dalle mie parti è ‘come se una volta provata la carne, torni indietro a mangiare pane e cipolle’”.
La vita da emigrato non è ovviamente tutta rose e fiori, certe mancanze come la famiglia, le bellezze artistiche e naturali si fanno sentire. “Eppure, perché dovrei tornare? Non credo possa cambiare, l’Italia è così. La cosa triste è che, soprattutto visto da fuori, sembra un Paese bloccato: si parla sempre degli stessi problemi, non si riescono mai a fare reali passi avanti”.
Quella di Tano è solo una delle tante storie di quelli che vengono definiti “expat”, italiani stabilitisi all’estero per motivi di lavoro. A Berlino è frequentissimo sentire parlare italiano per strada, o dietro al bancone di un locale, nei negozi. Persino nei cambi d’ora tra una lezione e l’altra, nelle scuole.
Marco – chiamiamo così un altro giovane che si è rivolto a Fanpage.it ma preferisce restare anonimo – è originario di Foggia e dopo essere emigrato già una prima volta a Bologna per frequentare la facoltà di Lingue, è tornato nella sua Puglia. Per tre anni ha insegnato tedesco part-time in un liceo, con uno stipendio che si aggirava intorno ai 600 euro.
A marzo 2023 si è licenziato e ha deciso di trasferirsi in pianta stabile a Berlino. “Ho lavorato circa un mese e mezzo in un museo come interprete – racconta a Fanpage.it – prima di essere assunto come professore di tedesco a tempo pieno nella scuola dove insegno adesso. Il mio stipendio è di 4200 euro lordi (circa 2750 euro netti), chiaramente a tempo indeterminato. La scuola mi fornisce il biglietto mensile dei mezzi pubblici e tutti i vari corsi di perfezionamento”.
“Mi risultava difficile anche solo immaginare che un giovane potesse vivere così, senza essere condannato alla precarietà, prima di venire a Berlino. Mi mancano sì le piccole cose, come il rumore del mare in sottofondo o l’istintiva accoglienza delle persone: adoro l’Italia, la sua storia, le persone, il cibo, la natura e la sua bellezza. Proprio perché la amo così tanto provo ancora più rabbia”.
“Vorrei che i miei coetanei e colleghi sapessero che il problema non sono loro, ma la mancanza di opportunità che caratterizza il nostro Paese e lo differenzia da altre realtà come quella tedesca. È improbabile che cambi la situazione. So che suona come se mi stessi arrendendo, ma mi chiedo spesso: fino a che punto ha senso resistere?”.
(da Fanpage)
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Giugno 12th, 2023 Riccardo Fucile
RIESCE NELL’IMPRESA DI SMENTIRSI DA SOLO DOPO AVER RIMEDIATO UNA BRUTTA FIGURA…RIBADIAMO: NESSUN MINISTRO DOVREBBE PUBBLICIZZARE UNA OPERAZIONE ANTI-TERRORISMO IN CORSO (A MAGGIOR RAGIONE SE NON LA E’)
Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha pubblicato un documento su Twitter, per tornare sulla vicenda del cargo turco, che intanto ha ripreso la sua regolare rotta verso la Francia: “Oggi alcuni giornali infangano, raccontando i fatti della Nave Galata Seaways come ‘inventati’. Poiché Ministero della Difesa e Ministro agiscono con responsabilità ed approfondendo, è giusto dimostrare la verità e l’infondatezza di queste notizie, a tutela del Sistema Paese”, ha ribadito.
La versione del ministro continua a essere quella del tentato assalto da parte dei migranti, una sorta di operazione di pirateria. Per il momento però non ci sarebbero riscontri. Eppure il sito del ministero della Difesa continua a riportare la notizia in apertura, con il titolo del tutto fuorviante: “Difesa – La Marina sventa tentativo di dirottamento”.
La vicenda del cargo turco: cosa non torna
Il caso è nato venerdì, quando si è saputo che le nostre unità di stanza a Brindisi, con un blitz, avevano liberato un’imbarcazione turca con 22 persone di equipaggio che avrebbe subito, al largo di Napoli, un sequestro da parte di 15 migranti che erano a bordo.
Alcuni di loro, armati, avrebbero tentato, seconda la prima versione circolata, di prendere il controllo della nave con la forza per dirottare la nave. Dopo l’allarme lanciato dal comandate, la Brigata San Marco è intervenuta con gli elicotteri.
“I dirottatori della nave sono stati catturati. Tutto è finito bene”, aveva fatto sapere il ministro della Difesa, Guido Crosetto.
Ma dalle indagini condotte dalla procura di Napoli emerge un quadro differente. La Procura di Napoli ha escluso il reato di dirottamento per le persone arrestate: tre migranti che erano a bordo della nave, partita dal porto di Topcular in Turchia lo scorso 7 giugno e diretta a Sète, in Francia, sono state denunciate a piede libero per porto d’armi, per il possesso a bordo di due coltelli e un taglierino.
Le pm Enrica Parascandolo e Alessandra Converso hanno sentito nella giornata di ieri 11 dei 15 migranti che erano a bordo della Galata Seaways, e hanno incrociato le loro testimonianze con i video delle telecamere di bordo e con le versioni di altri presenti.
E il racconto dei migranti, di nazionalità siriana e irachena, di cui due sono donne incinte e due sono minori, sembra convergere: si erano nascosti a bordo della nave per arrivare in Europa.
A un certo punto, durante la navigazione, in acque italiane, sarebbero stati scoperti dall’equipaggio. “Abbiamo avuto paura che ci rimpatriassero”, hanno detto agli inquirenti. A quel punto avrebbero tentato di tagliare con due coltelli e un taglierino il telone del camion sul quale si erano nascosti, solo per prendere aria, e non certo per prendere il controllo del cargo.
Il comandante del mercantile comunque si sarebbe mosso semplicemente nel rispetto protocollo d’emergenza: avendo saputo che a bordo c’erano persone armate non identificate ha fatto dunque riparare l’equipaggio nella cabina blindata e ha lanciato l’Sos.
Sentito dalla Squadra Mobile di Napoli e dalla Guardia di Finanza, il comandante ha raccontato di aver visto due persone armate di coltello che si aggiravano nella zona macchine della nave, senza riuscirvi ad accedere. In quel momento i due migranti si sarebbero riuniti al resto del gruppo, e per questo motivo il comandante ha deciso di lanciare l’allarme.
Al tweet che il ministro della Difesa Crosetto ha pubblicato stamattina è allegato anche un documento che contiene “l’attività ispettiva” effettuata a bordo della motonave.
Si tratta di un documento di due pagine che ricostruisce cronologicamente cosa è avvenuto a poche miglia da Ischia. Al termine della nota si legge: “Si precisa che le attività di ricerca dei clandestini a bordo della motonave non hanno, in nessun momento, comportato l’uso della forza da parte dei militari. Nessun danno fisico è stato quindi riscontrato a chicchessia durante l’espletamento delle attività”.
Nessun dirottamento sventato quindi, al contrario di quanto ha ribadito il ministro.
(da Fanpage)
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Giugno 12th, 2023 Riccardo Fucile
AMATO O ODIATO, E’ UN PERSONAGGIO DIVISIVO
Scrivere di Silvio Berlusconi è sempre stato abbastanza semplice, diciamoci la verità. Di fronte a un uomo così divisivo, in effetti, hai a disposizione diverse possibilità, tutte con codici noti e prassi collaudate. Puoi adottare un registro critico, avendo a disposizione un formidabile armamentario retorico e, nel caso specifico, una mole impressionante di episodi e fatti da utilizzare per dimostrare il tuo punto.
Puoi muoverti nelle zone d’ombra, insistere sulle sfumature e adottare un approccio conciliante e garantista. O semplicemente puoi salire sul carro della fandom, utilizzandone il linguaggio e lo spazio vitale.
All’interno di questa dinamica ci si muove almeno da trent’anni, dall’ingresso del Cavaliere sulla scena politica. Per citare Curzio Maltese: “Dal 1994 l’Italia è divisa in due: chi vive felicemente dentro questa bolla di sapone, si sente protetto e si identifica con il carattere, i presunti vizi e le virtù del Capo; chi invece ostinatamente non si rassegna al fatto che metà paese si sia lasciato irretire, portare fuori strada dal Cavaliere il quale da anni domina la scena politico-mediatica nazionale facendosi per forza di cose notare anche all’estero”.
Ci sono pochi dubbi, in effetti, sul fatto che Berlusconi sia stato uno dei leader più divisivi della storia recente e che abbia contribuito in modo determinante alla trasformazione e alla modernizzazione della politica italiana e non solo.
È stato un personaggio che ha inciso in profondità sull’intera struttura della Repubblica, che ha scritto pagine importanti della nostra storia recente e ha ridefinito codici di comportamento e prassi politiche.
Anche per questo, ho sempre guardato con grande perplessità ai tentativi degli ultimi anni di rimuovere dalla memoria collettiva gli aspetti controversi e delicati dell’esperienza pubblica di Silvio Berlusconi. Tentativi spesso accompagnati da un’interpretazione della storia (in ambito politico, giudiziario e via discorrendo), che hanno prodotto effetti grotteschi e finanche confondenti per l’opinione pubblica.
In fin dei conti, resto convinto del fatto che privare della complessità e della profondità di giudizio la figura del leader di Forza Italia, del presidente del Milan e poi del Monza, del primo tycoon italiano, del creatore di un nuovo linguaggio per la politica e di mille altre cose, sia fargli un torto enorme.
Eppure, la sua morte è destinata a essere un catalizzatore di quel processo già avviato negli ultimi anni: il tentativo di costruire una memoria condivisa di Silvio Berlusconi, di trovare una chiave interpretativa delle sue opere e azioni che mettesse d’accordo tutti gli italiani, edulcorandone contraddizioni e problematiche per ricavarne un’immagine da bonario padre della patria e statista visionario.
È un’operazione ardita, che parte da presupposti sbagliati per arrivare a risultati deludenti. La memoria è, quasi per definizione, personale o comunque parziale.
Ognuno di noi ha una sua “idea di Berlusconi”, che risente di un’enorme quantità di fattori. Questo perché milioni di italiani hanno letteralmente vissuto con Berlusconi per decenni, ne hanno introiettato modi e comportamenti, si sono abituati alla sua presenza costante e continua. Resta finanche difficile immaginare cosa sarebbe stata l’Italia senza Berlusconi.§
Per tantissimi di noi, il Cavaliere è stato il primo e più diretto modo di fare esperienza della politica. Ha messo in moto energie enormi: per tanti è stato l’uomo che ha guidato il riscatto di una parte, per altri colui che ha incarnato il peggio della della politica.
Difficile finanche incasellarlo in una corrente di pensiero: si è sempre definito liberale e moderato, ma le sue politiche hanno seguito traiettorie ondivaghe, con scelte spesso in contraddizione con il suo progetto utopistico della “rivoluzione liberale”.
Ma le memorie collettive non sono una mera sommatoria di quelle individuali. Come scrive lo storico De Luca, “la memoria pubblica è un patto in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato; su questi eventi si costruisce l’albero genealogico di una nazione”.
Eccolo, il problema. Silvio Berlusconi occupa un posto centrale nell’autobiografia della Nazione, non solo perché ne ha incarnato i tratti essenziali, portando all’estremo la rappresentazione dell’Italia e degli italiani. B. ha contribuito a cambiare nel profondo il Paese, a trasformare le dinamiche relazionali fra cittadini e politica, a incrinare la fiducia nelle istituzioni e al contempo provocarne uno stravolgimento profondo (si pensi solo all’enorme tema della giustizia).
L’avventura berlusconiana, però, non può essere letta come un lineare susseguirsi di eventi determinati dalla volontà di un geniale/furbo/compromesso imprenditore/politico/imbonitore. È stato un periodo complesso e confuso, con fasi diverse che meriterebbero considerazioni diverse.
Perché se la memoria è personale, restano i fatti. La storia, cioè, non si cancella con un colpo di spugna, resta al di là di ogni volontà di pacificazione. Non c’è da meravigliarsi né da indignarsi se le memorie di Silvio Berlusconi non somiglino alla nostra.
Se, ad esempio, fuori dai nostri confini si racconti con meraviglia e stupore una vita costellata di scandali, inchieste, cadute e rinascite. O se in tantissimi mostrano di non capire lo sforzo concettuale e interpretativo dei suoi avversari di un tempo nel riabilitare compiutamente una figura così controversa.
Le critiche, la rabbia, la contestazione profonda del modello berlusconiano sono parte essenziale della storia del Cavaliere. Così come lo sono le sue azioni, le scelte, gli errori e le storture. Sono fatti, che certo vanno contestualizzati e spiegati, ma non possono essere omessi dal racconto collettivo. Non aveva funzionato nelle settimane in cui B credette davvero di poter diventare presidente della Repubblica, non può funzionare adesso, nel tempo del cordoglio e del lutto.
L’uomo politico più divisivo della storia recente del Paese, quello che ha cambiato le regole del gioco e ha ridefinito l’idea stesso dello scontro fra partiti e movimenti, non può essere ridotto a un simpatico signor Bonaventura che ha sempre avuto a cuore solo gli interessi degli italiani. L’imprenditore che ha contribuito in modo decisivo alla destrutturazione culturale del Paese, macinando così miliardi e consensi, non è altro dal fenomenale uomo di cultura, capace di tenere discorsi a braccio lunghi ore. Il leader politico responsabile dello sdoganamento dei post fascisti e dei populisti, fino a portarli al governo, è lo stesso che poi per anni si sarebbe caricato il ruolo di argine democratico e moderato alla destra, anche in Europa.
L’uomo che ha fatto del sessismo e del machismo una linea espressiva e comunicativa non può essere raccontato come una specie di liberale illuminato e progressista in tema di diritti civili.
Il manager coinvolto in decine di procedimenti giudiziari, prescritto, assolto e condannato, non può essere dipinto come un perseguitato politico.
Aspetti che non possono essere rimossi dalla memoria pubblica, con il rischio di finire omogeneizzati in una pappa indistinta, da cui emerge una visione caricaturale della stessa figura di Berlusconi. E dell’Italia che lui ha vissuto, guidato, cambiato.
Come se ne esce, allora? Accettare una ricostruzione a tinte dolci, rifugiarsi nei non detti, nelle sfumature, o ancora sperticarsi in contro-narrazioni al limite della provocazione?
Storicizzare, storicizzare sempre, direbbe qualcuno che il Cavaliere non ha mai apprezzato fino in fondo. Avendo chiaro che la storicizzazione non è solo un risultato, ma anche un processo, che consta nella capacità di giungere a un’analisi “intersoggettiva e multifocale” del passato e dei suoi protagonisti. E che distingue i fatti dalle narrazioni, anche per come hanno influito e modificato le percezioni individuali. Proprio per dargli il loro posto nella storia. E solo dopo, nella nostra memoria.
(Da Fanpage)
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Giugno 12th, 2023 Riccardo Fucile
SI DOVRA’ ANCHE DISCUTERE DEI PROGETTI CHE NON POTRANNO ESSERE CONCLUSI A GIUGNO 2026 E DI QUELLI CHE NON RIENTRANO NELLE CARATTERISTICHE DEL PIANO COME GLI STADI DI FIRENZE E VENEZIA… IL PIATTO PIANGE: L’ITALIA È ANCORA IN ATTESA DELLA TERZA RATA DEL PIANO (21,8 MILIARDI DI EURO)
Una visita «di routine» e «programmata da tempo». L’arrivo dei tecnici della Ue a Roma per il Pnrr, a partire da oggi lunedì 12 giugno, è definita così dal ministro Raffaele Fitto e dalla portavoce della Commissione europea che si occupa dei Pnrr nazionali, Nuyts Weerle.
È evidente lo sforzo di Bruxelles e del nostro governo a non alimentare uno scontro mentre Roma è in attesa della terza rata del piano (21,8 miliardi di euro) e si avvicina la scadenza di fine agosto per la sua modifica che l’esecutivo Meloni ha annunciato di voler presentare integrando il RePowerUe.
L’ultima occasione
Revisione che il ministro ha definito «l’ultima occasione per mettere ordine». Fitto si è detto «ottimista» sull’arrivo della rata. Sull’arrivo dei tecnici della Ue ha appunto ricondotto tutto a visite che si svolgono e si sono già svolte «ogni sei mesi» e in «tutti i paesi» negando appunto ci sia un “caso Italia”.
Probabile che i tecnici Ue vogliano vederci chiaro e chiedere garanzie sull’attuazione del Pnrr italiano, e verificare qual è la situazione dei controlli, dopo la polemica dei giorni scorsi sul ruolo della Corte dei conti. Il tutto prima di passare al livello successivo: intavolare ogni trattativa sulla revisione del Piano.
Rimodulazioni comunque sono in corso. Sia per i progetti che non potranno essere portati a termine per giugno 2026 (e che dovrebbero essere spostati su strumenti senza quelle scadenze) sia per quelli che non rientrano nelle caratteristiche del piano come gli oramai celebri casi degli stadi di Firenze e Venezia. Un lavoro di coordinamento poi è in itinere fra le risorse Pnrr e quelli dei fondi di sviluppo e coesione e le politiche di coesione.
Le Regioni
L’esecutivo ha ribadito la sua linea di fronte alle regioni (fra queste la Campania e Puglia sono state apertamente critiche nei giorni scorsi): nel 2014-2020 sono stati spesi solo il 34% dei fondi Ue, il «sistema non funziona», ribadisce Fitto. E quindi alle Regioni le risorse andranno solo dietro una lista precisa e puntuale di obiettivi e un cronoprogramma.
(da agenzie)
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