Giugno 10th, 2023 Riccardo Fucile
LA STORIA DEI “MIGRANTI CHE DIROTTANO UNA NAVE TURCA” SI E’ PRESTO RIVELATA UNA BOLLA DI SAPONE, MA MEDIA SOVRANISTI HANNO GONFIATO LA STORIA
Breve cronaca dei fatti: alcuni immigrati clandestini si sono probabilmente imbarcati di nascosto su una nave turca diretta in Francia e dopo essere stati scoperti mentre la nave era a largo di Napoli tre o quattro di loro hanno impugnato un taglierino, forse per la paura di essere rimpatriati.
Il comandante della nave turca, spaventato, si è rintanato nell’area blindata della nave, ha lanciato un sos e cambiato la rotta verso il porto più vicino (da qui la falsa notizia del dirottamento) che ha provocato l’intervento dei reparti militari della marina che sono prontamente intervenuti e hanno realizzato delle belle immagini da dare in pasto ai telegiornali.
Clandestini armati hanno tentato di dirottare una nave, è stato subito detto. E giù titoli – giustamente – allarmati e notizia in testa.
Ma subito dopo, per fortuna, si è scoperto che la vicenda era assai diversa e che le informazioni sul dirottamento erano largamente sovradimensionate.
In altri termini è stata presentata una storia come se fosse opera di pericolosissimi pirati somali nel mezzo dell’Oceano, mentre si trattava di un gruppo di disperati a largo di Napoli che non potevano, né volevano dirottare nulla. Del resto che ti vuoi dirottare a largo di Napoli? Per andare dove.
Insomma, passata la concitazione del momento e capito che dietro l’sos del comandante non c’era un attacco terroristico gran parte dell’informazione ha continuato a far finta di nulla.
E il tentativo di dirottamento dei clandestini armati è rimasto nei titoli dei tg e di molte testate il tentativo di dirottamento con – in alcuni casi – perfino l’aggiunta di uno scenario terroristico.
Il resto l’ha fatto l’Istituto Luce del governo sovranista a guida Meloni che ha esaltato l’intervento delle forze speciali del battaglione San Marco, con due elicotteri come la più esaltante e complicata operazione militare mentre – appunto – si era trattato poco più di un falso allarme. Per fortuna.
Tra l’altro le forze speciali del battaglione San Marco sono addestrare a fare ben altro tipo di interventi in situazioni molto più serie e pericolose ed esaltarne le virtù per aver affrontato un gruppo di disperati che non hanno nemmeno tentato di resistere non è stato un gran servizio verso la Marina.
Resta il fatto che dopo quasi un giorno, mentre i pericolosissimi dirottatori e terroristi sono stati denunciati a piede libero per porto d’armi (i coltelli) e portati in un centro d’accoglienza, mediaticamente lo scenario da assalto dei pirati somali mezzi terroristi è rimasto tale.
Che dire? Propaganda batte informazione 5-0.
(da Globalist)
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Giugno 10th, 2023 Riccardo Fucile
SOLO DUE DENUNCE A PIEDE LIBERO PER PORTO D’ARMI, LA SPECULAZIONE POLITICA E’ MISERAMENTE CROLLATA
La notizia è circolata ieri sera, per voce del ministro della Difesa Guido Crosetto: “I dirottatori della nave sono stati catturati. Tutto è finito bene”, ha scritto su Twitter. Il riferimento era a una nave turca che si trovava al largo di Napoli e che, sempre secondo quanto dichiarato dal ministro, nelle ore precedenti era stata “sequestrata da circa 15 migranti che erano a bordo dell’imbarcazione”. La Procura di Napoli, però, al momento ha escluso il reato di dirottamento per le persone arrestate.
La prima versione della storia era questa: quindici persone migranti erano nascoste a bordo della nave cargo Galata Seaway, partita dalla Turchia il 7 giugno con 22 membri dell’equipaggio e diretta in Francia con arrivo previsto domani. A un certo punto, dopo essere stati scoperti quando l’imbarcazione si trovava al largo di Ischia, i migranti avrebbero tentato di prendere il controllo della nave con la forza: utilizzando dei coltelli, avrebbero cercato di entrare nella sala macchine per dirottarla.
Dopo l’allarme lanciato dal comandante, sono intervenute le forze speciali italiane. Il Battaglione San Marco della Marina militare di stanza a Brindisi, insieme a Guardia costiera e Guardia di finanza, hanno ripreso il controllo della nave: dopo il loro arrivo i migranti si sono sparsi nella nave, ma in poche ore sono stati catturati.
La Procura di Napoli esclude il dirottamento
Dopo l’operazione, la nave è stata ormeggiata a Napoli ed è iniziato il lavoro della Procura, in particolare della sostituta procuratrice Enrica Parascandolo. In Questura sono stati ascoltati il comandante della nave turca e i quindici migranti che si trovavano a bordo, come persone informate dei fatti. Ne è emersa una versione piuttosto diversa da quella riferita dal ministro.
Il comandante ha raccontato di aver visto due persone, armate con due coltelli – poi sequestrati dalla polizia giudiziaria, insieme a un taglierino – che giravano vicino alla zona macchine della nave, senza riuscire ad entrarci. Non c’è stata nessuna aggressione, secondo quando ricostruito dagli inquirenti: dopo essere stati visti, i due sarebbero tornati ad unirsi agli altri nascosti. Il comandante a questo punto ha lanciato l’allarme per segnalare che c’erano persone armate a bordo.
“Quando ci hanno scoperti avevamo paura che ci fermassero per rimpatriarci”, hanno dichiarato alcuni dei migranti fermati, spiegando perché si sono nascosti – tra camion e container – all’arrivo delle forze armate italiane. La presenza dei due coltelli e il taglierino è stata spiegata così: “Ci serviva per nasconderci sotto i teloni dei camion. Non per far male a qualcuno”.
I reati ipotizzati, almeno per adesso, non sono né di tentato sequestro di persona, né di altre violenze, né di dirottamento. Tre persone sono state denunciate a piede libero per porto d’armi abusivo.
Chi sono i migranti trovati a bordo della nave
Da quanto risulta, le quindici persone (tredici uomini, di cui due minorenni, e due donne) sarebbero nove iracheni, quattro siriani e un iraniano, mentre una persona è ancora di provenienza ignota e al momento è ricoverata per ipotermia all’ospedale del Mare. Anche altri tre migranti sono stati portati in ospedale: due donne, di cui una incinta, e un’altra persona che ha avuto un lieve malore.
Mentre la Procura continua le indagini, le persone migranti che non si trovano in ospedale saranno collocate nel centro di accoglienza della Croce rossa. I due minorenni, invece, andranno invece in un altro centro.
(da Fanpage)
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Giugno 10th, 2023 Riccardo Fucile
ENTRO L’ESTATE LA PREMIER DOVRÀ LASCIARSI ALLE SPALLE I RITARDI ACCUMULATI NEI PRIMI MESI DI GOVERNO … È INIZIATO IL CONTO ALLA ROVESCIA DELLE EUROPEE DI GIUGNO 2024, SI RISCHIA DI TRASFORMARE IL FLOP DEL PNRR IN ARGOMENTO DA CAMPAGNA ELETTORALE
Quando Giorgia Meloni disse per la prima volta che il Recovery Plan andava cambiato non aveva nemmeno vinto le elezioni. Sapeva perfettamente cosa si sarebbe trovata fra le mani, e quanto quegli impegni avrebbero condizionato la sua esperienza da premier.
Lunedì a Roma arrivano gli ispettori della task force della Commissione europea, e da quel momento la faccenda per Palazzo Chigi si farà seria. Entro l’estate la premier dovrà lasciarsi alle spalle le zavorre accumulate nei primi mesi di governo e costruire le condizioni per arrivare al 2026 senza danni.
La Relazione semestrale sull’attuazione del Piano presentata questa settimana serve anzitutto a mandare all’opinione pubblica un messaggio che si può sintetizzare così: comunque andrà, non sarà stata solo colpa nostra. Pagina 11, paragrafo 1.2: «A differenza di altri, il Pnrr italiano si configura come un piano di performance e non come programma di spesa, impegnando l’Italia a raggiungere obiettivi associati a riforme e investimenti, da realizzare entro i termini concordati».
Il lungo documento, modificato più volte nel corso della settimana, è un concentrato di frecciatine, tanto a chi negoziò il Piano (Giuseppe Conte) quanto a chi subito dopo lo modificò senza cambiarlo in profondità, ovvero Mario Draghi. Pagina 15, punto 1.4: «I 68,9 miliardi di euro di sovvenzioni a fondo perduto assegnati all’Italia non sono attribuibili a nessuna particolare attività negoziale, ma semplicemente il risultato dell’applicazione di un criterio di calcolo che tiene conto di numerosità della popolazione, riduzione del Pil e incremento della disoccupazione registrate in Italia rispetto alla media europea».
L’Italia ancora non sa se riuscirà a spendere i 191 miliardi ottenuti sin dal 2020. Sempre dalla Relazione semestrale: «Diversamente da quanto indicato dal precedente governo (Draghi, ndr) in cui si affermava l’assenza di criticità e di rischi di rallentamento per tutti gli interventi, sono stati riscontrati numerosi ostacoli che hanno richiesto un’azione mirata e persistente per il loro superamento».
Ancora: Meloni imputa al governo dell’ex banchiere centrale di averle lasciato in eredità lo scorso autunno «una trentina di obiettivi da conseguire». Di qui – questa l’accusa implicita – il ritardo nell’erogazione della terza rata.
Siamo tornati al punto di partenza, ovvero le riforme che ci chiede l’Europa, oltre a un paio di questioni su cui Meloni non sa come cavarsi d’impaccio: la mancata ratifica della riforma del Fondo salva-Stati e la pervicace resistenza alla messa a gara delle concessioni pubbliche. Non sono impegni direttamente legati al Pnrr, ma nei rapporti con l’Europa tout se tient. «Col passare del tempo la strada si fa in salita perché i tempi sono stretti», avverte sibillino Gentiloni. Il non detto dell’ex premier Pd è nel calendario: ieri è iniziato il conto alla rovescia delle elezioni europee di giugno 2024, e il rischio di trasformare il flop del Pnrr in un argomento per la campagna elettorale degli uni e degli altri è altissimo.
(da agenzie)
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Giugno 10th, 2023 Riccardo Fucile
NESSUNO SI ATTENDE UN’ABIURA A STRETTO GIRO. MA DOPO IL VOTO DOVRÀ SCEGLIERE
All’ennesima sollecitazione, i tre europarlamentari tedeschi della Cdu, che addentano un tramezzino mentre ascoltano Manfred Weber, allargano le braccia spazientiti: “Non c’è nessuna possibilità di un accordo tra Ppe ed Ecr. Nessuna. Zero. No way. E scrivetelo, per favore. Questa è semmai una fantasia della signora Meloni, ma non esiste”.
Al che il portavoce del presidente del Popolari, olandese dal piglio deciso, interviene sfoggiando un italiano impeccabile: “Il partito PiS e i suoi dirigenti sono i nostri nemici politici. E infatti in autunno saremo compatti al fianco di Donald Tusk per batterli”. Si capisce insomma che il problema, per Meloni, sono i suoi alleati attuali, polacchi su tutti.
L’operazione “spaccare i Conservatori” scatta qui, nell’afa di Via della Conciliazione. “Meloni? Come presidente del Consiglio, in chiave europea, ci sarebbe poco da contestarle, Mes a parte”, ragiona Andreas Schwab, Cdu, a Bruxelles dal 2004. “E’ come leader di Ecr che insomma…”. Dunque il problema sta lì: nei compagni di viaggio che Donna Giorgia dovrà abbandonare, se vuole conquistarne di nuovi, e più importanti. Solo che di quel partito guardato con così tanto sospetto, i Conservatori, lei è presidente: lasciarli non sarà facilissimo.
Ma certo non dovrà farlo prima delle elezioni europee, che la campagna elettorale esige la sua propaganda, e dunque nessuno si attende un’abiura a stretto giro. Ma dopo? “E dopo sarà Meloni – ci spiega un’europarlamentare francese – a dover scegliere”. Quello che sarà il discrimine della prossima legislatura europea Weber lo indica così: “Costruttivi contro distruttivi”. Dove starà FdI?
Un indizio, qui nell’incontro conclusivo di questa due giorni di popolarismo europeo all’ombra del Cupolone, lo si coglie nella scelta di campo che l’esecutivo italiano ha fatto giovedì a Lussemburgo. “Lo strappo rispetto a Polonia e Ungheria è il segno tangibile di come sia il governo italiano ad avvicinarsi alle posizioni del Ppe, e non viceversa”, nota Weber.
E Meloni? Per lei, come per i cechi di Petr Fiala, come per altri componenti meno esagitate di Ecr, potrà esserci spazio. Non a caso vari europarlamentari popolari ricordano del precedente del 2004, quando per accogliere i Tory inglesi aggirando veti e complicazioni politiche, il gruppo del Ppe assunse un nome più esteso: “Ppe e Democratici europei”.
Servirà dunque una simile trovata, pare, per consentire a un pezzo dei Conservatori di entrare strutturalmente nell’orbita del Ppe, nella prospettiva però di una riproposizione della maggioranza “Ursula”, sia pure in versione rivista, ma comunque con un’intesa solida tra Popolari, Socialisti e Liberali. Per Meloni significherebbe dover tradire gli amici di sempre, i polacchi del PiS, e quelli mai davvero rinnegati, come Viktor Orbán. Lo farà? Qui al bar dell’Auditorium gli europarlamentari della Cdu dicono che lo si capirà a breve, con le elezioni in Spagna. Perché pure Vox rientra nel novero degli impresentabili. E il voto per la Moncloa è a fine luglio.
(da il Foglio)
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Giugno 10th, 2023 Riccardo Fucile
IL COMMISSARIO EUROPEO GENTILONI LA FULMINA: “DRAGHI È STATO PUNTUALE E HA RISPETTATO I TEMPI. SEMMAI È L’ATTUALE GOVERNO CHE DEVE FARE LA SUA PROPOSTA DI REVISIONE DEL PIANO AL PIÙ PRESTO. NON BISOGNA ASPETTARE LA FINE DI AGOSTO”
E’ il Pnrr il tema su cui tornano tutti, curiosi e preoccupati. La premier non si sottrae. Prima scarica sui suoi predecessori, Mario Draghi e Giuseppe Conte, la responsabilità degli ostacoli incontrati finora, poi cerca la complicità di chi la ascolta, criticando l’atteggiamento della Commissione europea che, da quando lei è al governo, improvvisamente, si è fatto puntiglioso. È una narrazione che Meloni non vuole abbandonare, quella dell’Europa insidiosa, una vecchia nemica.
Il giorno seguente, intervistata da Vespa, Meloni non abbandona l’immaginario di una Bruxelles così distante dagli interessi italiani. Come quando preme su palazzo Chigi per ottenere la ratifica delle modifiche al trattato del Mes. «Ma sul Mes non ho cambiato idea», dice la premier. «È uno stigma che blocca risorse, perché nessuno l’utilizzerebbe in questo momento. Sarebbe meglio modificarlo e renderlo utilizzabile, visto che parliamo sempre di trovare nuove risorse». L’Italia è rimasta l’unico paese a non aver approvato il Mes.
«Il Mes – dice – è parte di un insieme di strumenti che vanno discussi nel loro complesso. Non ha molto senso ratificare la riforma del Mes senza sapere cosa contengono le nuove norme sul Patto di stabilità». Ratificarlo senza un dibattito su questi temi, aggiunge quindi Meloni, «è una scelta stupida». La premier vuole prima trattare le nuove regole di bilancio e per il momento, dice, «non sono convinta sulla proposta della Commissione europea». Meloni continua a chiedere di scorporare dal calcolo del debito dei paesi membri gli investimenti sulla transizione ecologica e digitale:. A risponderle, a distanza, è il commissario europeo Paolo Gentiloni.
Prima sul Pnrr, facendole notare che «Draghi è stato puntuale e ha rispettato i tempi». Semmai è l’attuale governo che «deve fare la sua proposta di revisione del piano al più presto. Non bisogna aspettare la fine di agosto». E poi, a proposito del Mes, «la Commissione rispetterà qualsiasi decisione del governo, ma se devo ragionare in termini di utilità non sono sicuro che una mancata ratifica renda l’Italia un Paese più forte, anzi forse è vero il contrario». Gentiloni, ricorda come il Mes che uscirà da queste modifiche del trattato sarà profondamente diverso dal Mes di un tempo, avversato da tutti i partiti populisti e sovranisti: «Oggi serve per mettere un cuscinetto di 68 miliardi per aiutare i correntisti in caso di crisi, anche di singole banche».
Questo Giorgetti lo sa bene, ma la linea resta quella espressa da Meloni. Ed è ciò che dirà la prossima settimana all’Eurogruppo, quando si discuterà di Mes: l’Italia vuole aspettare. Con termini meno tranchant, più diplomatici, rappresentando le difficoltà che si incontrano sul tema in Parlamento, e non da questa legislatura, perché anche con Conte e Draghi si è proceduto a singhiozzo.
(da La Stampa)
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Giugno 10th, 2023 Riccardo Fucile
“I GIOVANI DEVONO FORZARE I PARLAMENTI AD OCCUPARSI DI AMBIENTE”
I partiti? “Strutture vuote, macchine che fanno vivere i dirigenti”, provoca Albert Ogien, sociologo francese, direttore emerito del Centro studi dei movimenti sociali a Parigi, che su FQ MillenniuM in edicola da domani ragiona su politica e movimenti, con un occhio alla Francia delle proteste di massa sulle pensioni e l’altro all’Italia delle ribellioni sul clima e sulla pace.
Qual è lo stato della protesta in Francia?
La forza dei movimenti di protesta è fuori dai partiti. E non ha uno sbocco politico. Chi fa resistenza sono i partiti, strutture vuote e senza militanti. Alle persone non serve più entrarci per fare politica. Però hanno voglia di farla e si auto-organizzano. La loro forza è più grande di quella dei partiti.
Protestare è il solo modo per smuovere la società?
In Francia i partiti non hanno più militanti. Sono macchine che fanno vivere i dirigenti. È un fatto. Il numero degli aderenti è lo 0,5% della popolazione. Perché i media se ne occupano? In Italia succede con Renzi. Il peso che ha sulla politica è spaventoso. Penso, come sociologo, che la politica si faccia nella società e non per forza nelle istituzioni. Per esempio, su aborto, omosessualità, diritti delle donne, razzismo, sono stati decisivi i movimenti sociali. Bisogna che la società forzi il Parlamento a occuparsi di cose che sono importanti. Per questo è significativo che i giovani siano per l’ambiente. E visto che si è persa l’idea che andare a votare serva a qualcosa, la rivendicazione passa completamente al di fuori dei partiti.
L’obiettivo è il potere?
È una domanda che pongo. Quando arrivano al potere, sembra che non possano fare grandi cose. Però, non si può restare al di fuori del gioco politico. Per esempio il caso Elly Schlein è importante: vedere come un partito istituzionale può avere un discorso avanzato d’alternativa e che cosa succede se va al governo.
La democrazia è in crisi?
Ora c’è una fissazione sull’astensione, sul fatto che se c’è il voto, c’è la democrazia. Per fortuna, il sistema democratico è anche altro: delle istituzioni che fanno vivere lo Stato di diritto. La giustizia, la scuola, l’ospedale, i servizi pubblici: se funzionano, ce ne freghiamo dell’affluenza al 20%. Certo l’astensione dovrebbe allertare i rappresentanti: dovrebbero essere più umili e chiedere alle persone che rappresentano il parere su quello che rappresentano.
La sinistra rappresenta queste proteste?
C’è anche una crisi della sinistra. I partiti socialdemocratici si sono allineati al neoliberalismo e ora non possono venire a dire: votate per noi. All’epoca dell’elezione di François Mitterrand, il programma comune della sinistra era uno stravolgimento della vita. Ora i partiti propongono cose marginali. La destra non ha molte cose da cambiare, la sinistra non sa cosa fare tra l’essere anti-capitalista o essere per i diritti civili.
(da Il fatto Quotidiano)
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Giugno 10th, 2023 Riccardo Fucile
DOPO NOVE ANNI SI RICOMINCIA CON LA MOLTIPLICAZIONE DELLE POLTRONE
È quasi pronto il disegno di legge per il ripristino dell’elezione diretta di presidenti e consigli delle province italiane. La norma manderà in soffitta la legge 56/2014 “Delrio”, con la quale gli organismi di governo di questi enti intermedi erano eletti non dai cittadini, ma da e tra sindaci e consiglieri dei comuni appartenenti. Questo progetto di “controriforma” è stato legittimamente proposto della maggioranza di centrodestra; ho l’impressione che non sia inviso nemmeno alle opposizioni, per i motivi che dirò.
Ricordo innanzitutto che la Delrio nasceva quale norma transitoria, in attesa della riforma costituzionale di Renzi che aveva l’obiettivo di sopprimere le province dalla Costituzione. Il referendum del 2016, bocciato dagli italiani, ha reso monco quel processo.
Le province hanno continuato a funzionare in questi nove anni: i presidenti eletti con questo meccanismo di secondo livello, insieme con i consiglieri provinciali (a cui vengono affidate le varie deleghe – non esiste più la figura dell’assessore) hanno seguitato a gestire, senza ricevere compenso, le materie che la Delrio aveva loro affidato: in particolare l’edilizia scolastica e la viabilità, oltre ad alcune deleghe su ambiente e lavoro. Il resto delle funzioni sarebbero dovute passare, secondo un meccanismo di gradualità che si è rivelato farraginoso, alle città metropolitane e alle regioni.
Si pone ora una domanda: è stata così fallimentare la riforma Delrio? Da più parti si sostiene di sì; anche la Corte dei Conti, con una recente relazione, si è espressa negativamente sulla L. 56, evidenziando criticità in ordine a difficoltà e disomogeneità nei meccanismi di trasferimento di competenze dalle province agli altri enti, a fronte di un risparmio per le casse dello Stato rivelatosi modesto: il rapporto della Corte riferisce di una riduzione delle spese degli Organi Istituzionali provinciali, nel periodo 2013-16, di appena 70 milioni. Secondo il tribunale contabile il ripristino dell’elezione diretta non dovrebbe comportare oneri particolarmente impattanti (ho letto che il governo stanzierà circa 200 milioni per l’attuazione della riforma).
Va tutto bene, insomma, abbasso la Delrio e viva l’elezione diretta delle province? Direi di sì, ma consentitemi di avanzare qualche perplessità.
Sottolineo, intanto, come ancora una volta si sancisca il principio di sopravvivenza di tutti i livelli di governo di area vasta, mentre da tempo in Italia si era aperto un fronte di dibattito sull’eccessiva ridondanza e onerosità delle amministrazioni locali (da più parti si è sostenuto che uno, tra le regioni e le province, fosse un ente di troppo: a sostenerlo era non solo Renzi, ma lo stesso Berlusconi nel 2008).
Il ripristino dell’elezione a suffragio universale degli consigli provinciali dovrebbe riassegnare nuovi capitoli di spesa ai propri organi esecutivi; i quali, una volta ristabilito il rapporto diretto con l’elettorato, potrebbero essere tentati di allentare i cordoni della borsa in mille rivoli (ricordo i tempi in cui le province finanziavano allegramente sagre e altre amenità). Immagino che alla politica italiana (di destra, centro o manca) faccia inoltre gola il migliaio di incarichi retribuiti per presidenti e consiglieri, nel tempo in cui ancora riecheggia il taglio di 345 seggi in Parlamento.
Nondimeno potrebbero ripresentarsi pulsioni che hanno visto proliferare, nei decenni scorsi, il numero di amministrazioni provinciali: il caso più eclatante fu quello della Sardegna, che le aveva aumentate fino al considerevole numero di otto, salvo poi ridurle di nuovo.
Del resto, la tendenza della politica italiana a moltiplicare improbabili enti era diventata proverbiale con il libro di Rizzo e Stella La casta, il cui incipit raccontava di una comunità montana pugliese che aveva l’invidiabile primato della vetta più alta (un “cocuzzolo himalaiano”) a quota 86 metri s.l.m., 12 in meno del campanile di Venezia!
(da Il Fatto Quotidiano)
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Giugno 10th, 2023 Riccardo Fucile
I POTERI FORTI IN CODA PER APPLAUDIRE LA MELONI
Bruno Vespa è fermo sulla ghiaia, con un’impazienza ben mascherata. «Ma come? Sono ancora tutti in piedi? Non va bene, non va bene. Avevo detto che dovevano essere pronti. Portateli ai tavoli, subito. Devono essere tutti seduti ai loro posti. Appena lei arriverà, si alzeranno per salutarla». Il conduttore tv impartisce ordini al telefono mentre attende che Giorgia Meloni esca dalla suite per la cena.
È giovedì sera, la premier è atterrata in ritardo, l’intervista con Vespa che avrebbe dovuto aprire la rassegna nella masseria salentina del conduttore Rai è stata rinviata all’indomani. Sono un paio d’ore che gli ospiti bighellonano, incuriositi e affamati. Qui li chiamano tutti sponsor. Sono manager, dirigenti di azienda, banchieri. Seguono la rotta del nuovo potere, affidandosi al suo regista. Bruno Vespa è tante cose.
Il maestro di cerimonia della politica italiana, padrone unico e assoluto di un salotto televisivo che si è guadagnato il nome di Terza Camera, dove si sono seduti tutti. Persino Beppe Grillo: «Ma ancora Elly Schlein non è venuta».
Con Meloni c’è un grande feeling, e lei lo ha preso un po’ da consigliere. È un vignaiolo, proprietario di un masseria a cinque minuti di macchina da Manduria, orgoglioso delle sue etichette che qui spuntano ovunque e che sono protagoniste di un libro lasciato in bella mostra, dove ogni vino della casata è abbinato a un piatto di uno chef italiano rigorosamente tristellato (si parte con il Brut Rosé Noitre per accompagnare il rognone con sorbetto di senape di Massimiliano Alajmo): un libro scritto da Vespa, sui vini di Vespa, per gli ospiti di Vespa. Ma Vespa è soprattutto una cosa quando lo vedi in azione, dal vivo, anche nella sua Masseria, con un caldo che scioglie la concentrazione a chiunque, non a lui. È un regista. Ha il montaggio in testa.
Taglia e cuce con gli occhi e con gli occhi controlla ogni cosa, e ogni cosa deve essere funzionale a questo teatro all’aria aperta e in movimento. Al suo fianco c’è sempre il suo storico autore Maurizio Ricci. «Sono con lui dal secondo anno di Porta a Porta. Prima ho fatto un po’ di film con Ermanno Olmi». Ma la vera curatrice dei dettagli e della messa in scena finale è Donna Augusta Iannini, sua moglie dal 1975. Sceglie la fragranza melogranata che assale gli ospiti in soggiorno, si lamenta che le telecamere impallano la vista del palco dove il marito intervista Meloni, cambia all’ultimo le tovagliette per la cena, vigila sui giornalisti non accreditati sospettati di scrocco aggravato, «Se non glielo dici tu, prendo il microfono io e mi sentono…». «Non lo fare, per carità», la ferma Vespa.
Tutto è pronto, spunta anche una principessa con uno splendido corallo al collo. È Carolina Theresa Pancrazia Galdina zu Fürstenberg: in breve Ira von Fürstenberg, è qui in qualità di zia di Ernesto Fürstenberg Fassio, presidente di Banca Ifis. Nobili e contado.
Un fuori programma sono i coltivatori di ciliegie che entrano nella tenuta e si fiondano su Meloni prima dell’intervista. «Venga presidente, una foto con le nostre ceras’». In fondo, anche loro hanno bisogno di uno sponsor
Gianluca Comin, fondatore e guida di Comin&Partners, si rallegra: l’organizzazione sta andando liscia, i manager e gli imprenditori che ha portato in Puglia sembrano soddisfatti. Ha solo un cruccio: nessuno si fila il ministro della Salute Orazio Schillaci, l’unico presente prima dell’arrivo del ministro-cognato Francesco Lollobrigida e di Guido Crosetto.
Il clima sarebbe disteso e informale, se non fosse per lo zelo degli agenti che su ordine dello staff di Meloni, eternamente in ansia per i giornalisti, blindano entrate e uscite del labirinto di tufo della masseria seicentesca che fu delle monache benedettine e che a fine Ottocento il neonato Stato italiano sequestrò e mise all’asta
Il bisticcio con la polizia avviene di fronte a una signora in bikini e panama che prende il sole su una sdraio di fronte alle piccole piscine in stile termale. È la signora Palenzona. Il marito, Fabrizio, un passato nella Margherita, ex Unicredit e oggi presidente di Aiscat Servizi, è in prima fila a sorridere e ad applaudire alle battute di Meloni. Gli applausi e le risate sono ripetute. Quando attacca Schlein, quando difende i Paesi di Visegrad e accenna qualche smorfia contro Bruxelles (qui la battuta migliore su Polonia e Ungheria è di un collega cronista: «Sta dicendo che è colpa del comunismo se sono fascisti»).
La più entusiasta sembra Maria Bianca Farina, presidente di Ania, l’associazione delle assicurazioni. Applaude convintamente, anche lei in prima fila, due sedie più in là dell’immancabile segretaria personale della premier, Patrizia Scurti, e al presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti. Lo fa più timidamente la presidente di Ance, Federica Brancaccio. La sera prima ha fatto compagnia a Meloni per una sigaretta. Rappresenta i costruttori e ha le sue idee sul Pnrr.
La premier racconta aneddoti, poi si concede alle curiosità e ai dubbi dei manager. Si torna sempre al Pnrr. Meloni scarica le difficoltà sulle rigidità della Commissione europea e sull’impianto definito dai suoi predecessori, Giuseppe Conte e Mario Draghi.
(da la Stampa)
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Giugno 10th, 2023 Riccardo Fucile
PER LA TESTATA AMMIRAGLIA IL GOVERNO HA SEMPRE RAGIONE
Si contrae in una posa compiaciuta, Giorgia Meloni. Sono i secondi finali dei Cinque Minuti di Bruno Vespa, ieri dopo il Tg1: e per il medesimo tg, per Vespa, per l’intera rete e forse per il paese intero si è chiusa una giornata quasi campale. Il conduttore del tg più visto dagli italiani poco prima aveva assunto un fare serio e motivato annunciando che tra pochissimo avremmo saputo tutto quello che sta succedendo “in diretta da Manduria”. Che in effetti fa un po’ impressione.
Da una settimana c’è il nuovo Tg1, direttore Gian Marco Chiocci – eugubino, curriculum stracolmo e frastagliato – e ieri, con il Governo riunito nella vecchia masseria di Vespa – dalla terza Camera, che suonava un po’ troppo singola, alla terza dimora del Parlamento – si è consumata la prima prova del fuoco per il Tg1 e per l’intero nuovo corso Rai.
In più, vai a sapere se per botta di fortuna o cosa, è andata anche l’apertura dell’edizione serale con le nostre Forze speciali che debellano il gruppo di migranti che a Napoli sequestra, o qualcosa di simile, una nave turca. L’insieme sapeva di luminosi destini per la Nazione, maiuscola.
Bisogna partire debellando anche qui solenni sciocchezze – per esempio ipotizzare che sia mai esistito un Tg1 d’opposizione – ma è chiaro che in zona potere si è compiaciuti e ci si attende molto dal nuovo corso. Lo sanno gli spettatori che si sono sorbiti in questa settimana nelle edizioni serali momenti tostissimi, vedi una chilometrica intervista a Ignazio La Russa che va bene tutto, ma nessuno si sognerebbe di tagliare sul più bello. Chiocci e quelli del nuovo corso sanno benissimo quanto sia alto il compito, ma anche quanto sia facile.
Esistono per esempio soluzioni alla portata di chiunque: vedi, sempre ieri sera, la spinosa questione del patrocinio della Regione Lazio al Pride. Logica vorrebbe che si facesse parlare il governatore Rocca, sempre ieri sera, e poi magari anche qualcuno che non è proprio d’accordo con la decisione. E invece parla solo Rocca ma il metodo è quello – detto un po’ all’ingrosso – di farlo dilungare sul fatto che lui ha molti amici gay, o comunque era qualcosa che somigliava. E tante parole di miele per il mondo Lgbtq+, purché non tradiscano le promesse, e poi ancora le iniziative a favore eccetera: come a dire, non siamo noi a non far parlare chi non è d’accordo, è lui che è complesso.
Quanto alle micidiali brevi dichiarazioni dei politici, la tecnica storica rimane quella del panino, governo-opposizione-alleati di governo, con qualche variante se necessario: vedi il caso di ieri sera e la domanda, che potrebbe far passare notti insonni, su quale tipo di panino sia la sequenza Tajani-Schlein-Renzi. Ma alla fine scopriremo che quello è il meno, visto che intanto l’azione di governo delle ultime ore tra accordo sui migranti (e Orban? Chi è Orban?), viaggi imminenti in Tunisia e – da Vespa – anche un riferimento alle accise, da parte della premier, non meglio identificato – appare quasi frenetica e azzeccata sempre: e comunque con tutti assai tesi a dimostrare come questi, quelli che governano, quanto meno si stanno dando un gran daffare e i risultati eccoli qui, volando a razzo per chiudere in pochi secondi servizi e commenti. Che poi, sempre a razzo, tra gli elenchi che enunciano in pochi secondi Schlein o una rappresentante grillina, il Paese sembri traforato di guai entra nella completezza, a razzo, dell’informazione. Infine, il grande successo dell’asta dei Btp: una di quelle ricorrenze storiche per cui si dovrebbero immaginare italiani festanti nelle case anche se nessuno sa il perché.
Al Tg1, e in tutta la nuova Rai, sanno benissimo quanto siano esposti a critiche e accuse simili, ma lo spirito del tempo è quell’altro, la nuova comunicazione idem e la famosa narrazione non ne parliamo: riguarda tutto, nelle ultime ore è anche sbucata l’ipotesi concreta che torni in pista su Raiuno il Bagaglino, con il novantenne Pingitore che sforna battute del tipo: sarà difficile far ridere più dei politici, che per la prima volta venne detta da un legionario romano. Risate a non finire, buon umore da diffondere e tutto va in sostanza bene, e soprattutto quanto si impegnano, i nostri al Governo. Nostri nel senso di italiani, ovviamente.
(da Il Fatto Quotidiano)
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