Ottobre 20th, 2023 Riccardo Fucile
“UN VOTO STORICO”… L’ORGANIZZAZIONE RELIGIOSA PROMETTE BATTAGLIA LEGALE
È arrivato il primo sì dei parlamentari ucraini alla messa al bando della Chiesa ortodossa ucraina legata al patriarcato di Mosca (Uoc-Mp). «Un voto storico», l’ha definito su Telegram la deputata Iryna Herashchenko «un primo passo per la rimozione dei preti di Mosca dalla terra ucraina». Ieri, infatti, 267 deputati hanno votato a favore di una legge che vieta le attività dell’istituzione religiosa perché accusata di collaborare con la Russia dopo l’invasione dello scorso anno.
Per essere effettiva la legge deve passare in seconda lettura e poi essere approvata dal presidente Volodymyr Zelensky. La Uoc-Mp si difende sostenendo di non essere più allineata alla Chiesa ortodossa russa dallo scorso maggio 2022.
Tuttavia, una commissione d’inchiesta costituita dal governo ha stabilito che essa sia invece ancora fedele a Mosca e sarebbero già 68 i procedimenti penali – tra cui accuse di tradimento – contro rappresentanti penali della Chiesa ortodossa.
Il dato è stato fornito proprio ieri dal servizio di sicurezza ucraino. L’organizzazione religiosa si è però difesa dicendo che il progetto di legge sarebbe incostituzionale. E che potrebbe pertanto essere impugnata in tribunale, anche di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo, per violazione dei principi dell’omonima Convenzione.
La Chiesa ortodossa d’Ucraina affiliata al patriarcato di Mosca negli anni ha perso molti fedeli, soprattutto dopo il sostegno del patriarca Kirill all’invasione. Già in primavera il metropolita Pavel, del più famoso monastero di Kiev, era stato posto ai domiciliari con l’accusa di giustificare l’invasione e di incitare all’odio interreligioso. Secondo l’analista politico Volodymyr Fesenko riporta il Guardian, è improbabile che il divieto imposto all’Uoc fermi le sue attività. Per Fesenko, la Chiesa potrebbe registrarsi come una nuova entità senza legami con la Russia.
(da agenzie)
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Ottobre 20th, 2023 Riccardo Fucile
“IL CAMBIO DI NOME DEL GRUPPO E’ UN’INVENZIONE DI RENZI. LUI NON SE NE VA PERCHÉ TEME DI PERDERE IL RESIDUO DEL FINANZIAMENTO DELLA SCORSA LEGISLATURA, 400 MILA EURO”
Come nei migliori matrimoni, l’ufficializzazione del divorzio tra
Matteo Renzi e Carlo Calenda lascia strascichi polemici. Intanto perché Italia Viva al Senato ha sette parlamentari e può permettersi un gruppo, mentre Azione no. Invece alla Camera non ci sono problemi di numeri.
Ma lo scioglimento dei gruppi parlamentari può portare a una compressione degli spazi televisivi destinati ad Azione dalla Rai. Ma la realtà, fa sapere oggi il Corriere della Sera, è che il divorzio è ancora simbolico. Lo ha spiegato proprio Calenda ai suoi. Dando a Renzi dell’«infantile». E aggiungendo che «se ne dovrebbe andare via Matteo, non io. Ma non lo vuole fare perché teme di perdere il residuo del finanziamento della scorsa legislatura, 400 mila euro. Eppure io gli ho anche scritto in un pezzo di carta che non gli toglierò quei soldi».
Calenda va oltre: «Comunque, il cambio di nome del gruppo è un’invenzione di Renzi. Per quel passaggio ci voleva l’autorizzazione dei due terzi dei senatori, che non c’è. Quindi per quanto mi riguarda il gruppo si chiama ancora Azione-Italia Viva-Renew Europe. Se vuole va via lui, io anche se decide di chiamare il gruppo “Il Riformista saudita” non mi muovo. Ho fatto anche ricorso e vediamo che succede».
Da Calenda è arrivata anche qualche malignità: «Non vi sfiora il dubbio che Matteo abbia deciso di inscenare questa pantomima perché ha visto che mezza Iv del Nord sta con Rosato e Bonetti e, quindi, con noi?».
(da agenzie)
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Ottobre 20th, 2023 Riccardo Fucile
36% DI GIUDIZI POSITIVI PER IL GOVERNO, 57% DI GIUDIZI NEGATIVI
Il governo Meloni è entrato in carica da un anno quasi esatto –
era il 22 ottobre 2022 quando ha giurato nelle mani del presidente della Repubblica – e si possono fare dei bilanci anche dal punto di vista dei sondaggi e del gradimento. L’esponente del governo che ha lavorato peggio in questo anno è Matteo Salvini, secondo gli elettori sia dell’opposizione che della maggioranza. La migliore, è stata Giorgia Meloni. A mostrarlo è una rilevazione di Quorum/YouTrend per SkyTg24.
In generale, il 36% degli intervistati ha dato un giudizio positivo sul governo, mentre il 57% si è espresso in modo negativo. Tra chi dice di votare per il centrodestra, uno su cinque ha comunque scelto di dare un giudizio negativo al governo finora, mentre il 16% degli elettori dell’opposizione ha dato parere positivo.
Per quanto riguarda chi ha lavorato meglio, poi, c’è poca competizione. Anche se il 50,4% degli intervistati ha detto di non saper rispondere, e il 15,8% ha detto “nessuno”, la persona che ha ricevuto più voti è Giorgia Meloni: il 14,8% in totale.
Il distacco con i suoi ministri è netto: al secondo posto c’è il titolare dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, con il 4,7 (apprezzato più dalle opposizioni che dal centrodestra), poi il leader di Forza Italia Antonio Tajani con il 4,3%. Più in basso, con il 2,3%, si piazza Matteo Salvini. Guardando solamente agli elettori di maggioranza Salvini fa leggermente meglio di Tajani (con un vantaggio dello 0,2%), mentre tra gli elettori dell’opposizione circa uno su dieci riconosce che Meloni è stata la migliore del suo esecutivo.
C’è poi la domanda opposta: chi ha lavorato peggio? In questo caso c’è una maggioranza molto netta che indica Salvini. Per quanto ancora una volta circa la metà degli intervistati non abbia saputo rispondere, il leader del Carroccio è il peggiore per il 20,4% degli elettori. E non solo ottiene un prevedibile 38,8% dagli elettori dell’opposizione (nettamente il più votato come peggiore), ma anche il 9,8% degli elettori di maggioranza. Anche in questo caso, è il giudizio più severo tra tutti i componenti del governo.
Complessivamente, Meloni se la cava con un 35% di giudizi positivi e 54% di negativi. È la figura più polarizzante, dato che ha nettamente il maggior tasso di approvazione ma anche un dato negativo più alto di altri (Tajani è al 48%, Giorgetti al 47%).
Anche in questo caso, tra i peggiori c’è Matteo Salvini: 23% di opinioni positive, 65% di negative. Più in basso, per quanto riguarda i giudizi contrari, c’è solo Daniela Santanché con il 66%, che è anche la ministra meno apprezzata con il 15% di positivi.
Va detto che anche per le opposizioni il sondaggio di Quorum/YouTrend dà poco da celebrare. Solo il 19% degli intervistati ritiene che abbiano operato bene in questo primo anno. A essere più severi sono proprio gli elettori dei partiti di minoranza: il 71% dà un parere negativo, contro il 68% di chi vota centrodestra.
(da agenzie)
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Ottobre 20th, 2023 Riccardo Fucile
LO RIVELA UN SONDAGGIO CONDOTTO DAL QUOTIDIANO “MAARIV” SECONDO CUI, IL 65% DEI CITTADINI È A FAVORE DELL’INVASIONE DI TERRA DELLA STRISCIA DI GAZA
La maggioranza degli israeliani ritiene che il premier Benyamin
Netanyahu deve assumere pubblicamente le sue responsabilità per i fallimenti che hanno portato al massacro dello scorso 7 ottobre.
Lo rivela un sondaggio condotto dal quotidiano Maariv secondo cui, inoltre, il 65% del campione intervistato è a favore dell’invasione di terra della Striscia.
Per quanto riguarda il premier, l’80% degli israeliani dovrebbe seguire quanto già fatto dai vertici dell’esercito e dello Shin Bet (Servizio si sicurezza interno) nell’assumersi le responsabilità del fallimento nel prevenire l’attacco da Hamas.
Nell’80% c’e’ anche un 69% che ha votato per il premier.
(da agenzie)
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Ottobre 20th, 2023 Riccardo Fucile
IL SINDACO DI TAORMINA MENA DURO: “IL CENTRODESTRA STA SCHIERANDO TUTTI I PESI MASSIMI: FORSE ARRIVERÀ PURE LA MELONI. HANNO PAURA”… SE GLI ANDASSE MALE NEL FEUDO DI BERLUSCONI “PERDEREBBERO PROPRIO LA FACCIA”
«Il Nord e il Sud finalmente uniti», grida con il sorriso Adriano Galliani. «È la prima cosa sensata che dici in questa campagna elettorale», gli ribatte scherzando Cateno De Luca, sindaco di Taormina salito in Brianza per la sua mission impossible .
I due sfidanti, in corsa per conquistare il seggio che fu di Silvio Berlusconi, si incontrano per la prima volta nel centro di Monza. E nel giovedì di mercato, sotto la pioggia, i portici diventano il teatro di questo imprevisto ring politico. Proprio quattro giorni fa, infatti, il braccio destro (sportivo) del Cavaliere aveva dato forfait all’ultimo minuto per il confronto in Rai, a cui era presente anche Marco Cappato, candidato del centrosinistra. Cateno De Luca è appena atterrato dalla Sicilia con un abbigliamento un po’ troppo «ottimista» per gli 11 gradi brianzoli.
Poi, fuori dall’hotel, viene riconosciuto dal signor Giacomo, conterraneo di Caltagirone, che gli dà il suo impermeabile. «Sei il mio novello San Martino, mi hai davvero commosso: grazie!», gli dice l’aspirante senatore. Pochi passi più avanti, mentre racconta questo episodio ai ragazzi del suo staff, De Luca sente chiamare: «Adriano, Adriano!». E da Cateno si trasforma in «Scateno», soprannome perfetto per la sua impertinenza. In un attimo si tuffa davanti a una piccola folla, capitanata dalla capogruppo di Forza Italia al Senato Licia Ronzulli, e con l’indice va a toccare Galliani sulla spalla: «Oh, allora sei vivo! Perché sei scappato da tutti i confronti?».
Il «Condor», così noto per la sua abilità a colpire nel calciomercato, risponde con una stretta di mano. Si scambiano i «santini» elettorali e poi via ognuno per la sua strada.
«Hanno paura, il centrodestra sta schierando tutti i pesi massimi: il ministro degli Esteri Tajani, mentre c’è una crisi devastante in Medio Oriente, è già venuto due volte. Poi è toccato a Salvini e forse arriverà Meloni. Il motivo? — ragiona De Luca, inventore del movimento Sud chiama Nord — Questo non è un seggio qualunque, ma quello di Silvio Berlusconi: se gli andasse male perderebbero proprio la faccia». E così «Scateno» ha affilato gli artigli e ha organizzato una campagna a tappeto, visitando 35 dei 55 Comuni del collegio.
La strategia? Colpire nel suo principale serbatoio elettorale Galliani, amministratore delegato del Monza, cavalcando le voci di una presunta vendita del club. Mentre dal punto di vista organizzativo, il sindaco di Taormina e recordman di preferenze all’assemblea regionale è partito a luglio con una sorta di catena elettorale di Sant’Antonio, riunendo tutte le numerose comunità meridionali in piccoli incontri, che poi sono diventati sempre più partecipati. «E alla fine, i tanti che mi sfottevano si sono dovuti ricredere», dice soddisfatto De Luca, il cui vero obiettivo è far pesare i propri voti in vista degli accordi per le Europee di giugno
(da il Corriere della Sera(
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Ottobre 20th, 2023 Riccardo Fucile
SOTTOVALUTARE LA CAPACITA’ DI SFRUTTARE LE NOSTRE DEBOLEZZE E LA NOSTRA VOGLIA DI VITA TRANQUILLIA E’ UNA FOLLIA
Già, l’odore della morte. Non ci piace e non lo vogliamo sentire.
Infatti riempiamo di fiori e profumi la sala in cui diamo l’ultimo saluto a chi ci lascia e cerchiamo di chiudere tutto al più presto in una fortezza di zinco e legno che chiamiamo bara: serve per non vedere e, soprattutto, per non sentire.
A Gaza però non funziona così: i medici dell’ospedale colpito da un razzo di Hamas (non c’è un dubbio al mondo su questo) hanno fatto una conferenza stampa (quanto spontanea non sappiamo, penso molto poco) in mezzo ai cadaveri, perché da quelle parti la morte è ancora di casa.
Dobbiamo guardare dentro a questa storia maledetta e dobbiamo capire cosa sta accadendo. Ma per farlo non possiamo ragionare in astratto: dobbiamo stare con i piedi per terra, quella terra, quella terribile e meravigliosa terra d’Israele e Palestina. E se stiamo lì vediamo benissimo come stanno le cose: Hamas sta vincendo. Non nettamente, ma sta vincendo.
Provo a spiegare perché in cinque punti.
Primo: sta vincendo sul campo di battaglia, perché può permettersi migliaia di morti (anzi li cerca e li provoca), saranno il serbatoio della rabbia futura capace di esplodere con ancora maggior forza tra qualche tempo.
Secondo: sta vincendo sul piano militare perché l’invasione via terra della Striscia di Gaza è una follia operativa e se verrà messa in campo si rivelerà un autogol. perché gli eserciti servono per combattere altri eserciti, ma non funzionano più di tanto contro le popolazioni e perché Israele non può tenere 300.000 riservisti mobilitati all’infinito: hanno famiglie, lavori, vita privata.
Terzo: sta vincendo sul piano politico perché l’arrivo di Joe Biden è importante per Israele (e per la comunità ebraica americana), ma evidenzia un punto a mio avviso pericolosissimo: così passa il messaggio che il problema palestinese è “roba nostra” di europei e americani, il tutto mentre Vladimir Putin e Xi Jinping si fanno i fatti loro e i paesi islamici si girano dall’altra parte (perché questo è esattamente quello che stanno facendo). Per non parlare poi del terremoto che avrà la politica interna israeliana: basta aspettare qualche mese.
Quarto: sta vincendo sul piano diplomatico, perché il processo di avvicinamento tra Arabia Saudita e Israele (la più grande novità degli ultimi trent’anni) è fortemente a rischio, tanto è vero che proprio in queste ore (ieri) è stato a Gedda il ministro degli Esteri dell’Iran Hossein Amir-Abdollahian. È chiaro cosa vuol dire?
Quinto: sta vincendo sul piano dell’intelligence, perché ha dimostrato che può colpire in modo devastante Israele (nessuno l’avrebbe immaginato). E se è vero che la reazione israeliana sta assestando duri colpi all’organizzazione a Gaza è altrettanto vero che tutte le figure di vertice di Hamas vivono ben protette all’estero, ospitate con tutti gli onori in diversi Paesi (Qatar in testa). Quindi perfettamente in grado di agire, oggi come domani.
Potremmo continuare, guardando per quello che sono le manifestazioni pro-Palestina nelle nostre città o la ripresa degli attentati di cosiddetti “lupi solitari”, che tali non sono (e chi ci crede è scemo o pazzo). Sottovalutare Hamas e la sua capacità di sfruttare le nostre debolezze e la nostra voglia di vita tranquilla è una follia.
Non siamo attrezzati davvero per una battaglia come questa, ci fa schifo l’odore della morte. Per loro non è così.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 20th, 2023 Riccardo Fucile
IL TIMORE DELL’ESCALATION, IL NODO DEGLI OSTAGGI, L’ASSENZA DI UN PIANO SUL FUTURO DELLA STRISCIA… “C’E’ UN’ALTRA GAZA SOTTO GAZA”
L’offensiva israeliana di terra nel nord della Striscia di Gaza continua a rimanere congelata, ma la maggior parte degli esperti militari la reputa ormai inevitabile. L’ordine arriverà “presto”, assicura il ministro della Difesa Yoav Gallant, mentre Benjamin Netanyahu visita un battaglione dell’esercito, nei pressi della Striscia, incitandoli a “combattere come leoni”.
Il governo israeliano non considera possibile un altro modo di mantenere la promessa fatta al popolo ebraico all’indomani del trauma del 7 ottobre, ovvero “schiacciare Hamas” ed eliminare per sempre la minaccia rappresentata dal movimento palestinese fondamentalista sostenuto dall’Iran.
Fermo restando che nulla – neanche una vittoria militare a Gaza, al prezzo di perdite umane altissime – può dare a Israele la garanzia di non andarsi a cacciare in un guaio ancora più grande: con l’incognita di chi governerà la Striscia dopo Hamas, e la possibilità di un’escalation del conflitto che potrebbe accendere il fronte libanese e quello siriano, fino ad arrivare a un coinvolgimento diretto dell’Iran.
Con il rischio di cadere di fatto nella trappola di Hamas e ripetere l’errore americano dell’11 settembre, evocato da Joe Biden come cedimento alle pulsioni della vendetta, senza premeditare le strategie di ingresso e soprattutto di uscita da un’operazione militare pericolosa, al limite dell’azzardo.
Dopo la visita in Israele del presidente americano Joe Biden e del premier britannico Rishi Sunak, la questione dello sblocco degli aiuti umanitari a Gaza tramite il valico di Rafah, in Egitto, dovrebbe essere questione di ore. La situazione umanitaria nella Striscia, intanto, si fa sempre più drammatica, con oltre due milioni di persone private dell’accesso a forniture essenziali come cibo, acqua, medicinali.
Secondo Herbert Raymond McMaster, ex generale e consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, un’invasione israeliana di terra a Gaza è inevitabile, dato che Hamas rappresenta una “minaccia esistenziale” per lo Stato ebraico.
La pensa così anche Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana di Difesa, che avverte però dell’imprevedibilità delle conseguenze che una tale mossa comporterebbe. “Se guardiamo la questione da un punto di vista puramente militare, non credo che Israele abbia alternative rispetto a quella di entrare a Gaza, entrarci in profondità e in maniera duratura. Se Israele vuole – come hanno detto i suoi leader sin dal 7 ottobre – rimuovere completamente la minaccia di Hamas, non ha alternativa che condurre un’operazione del genere, perché una sola operazione aerea – seppur massiccia e di grande intensità, come quella di adesso – rischierebbe di non conseguire l’obiettivo. Questo anche perché una parte importante dell’infrastruttura bellica e capacitiva di Hamas è localizzata sotto terra”.
Si tratta dei famosi tunnel ma non solo: si parla di centri di comando e controllo, depositi, officine e quant’altro. “È come se ci fosse un’altra Gaza sotto Gaza, una Gaza sotterranea. Peraltro – aggiunge Batacchi – sono tutte aree cablate in fibra ottica, cosa che impedisce agli israeliani di intercettare le comunicazioni”.
In attesa di sferrare la campagna di terra, Israele sta continuando a condurre operazioni mirate nella Striscia con il duplice obiettivo di raccogliere informazioni sulle condizioni degli ostaggi israeliani ed eliminare i vertici del gruppo terroristico palestinese.
In uno di questi raid sarebbe stato ucciso Jehad Mheisen, capo delle forze di Sicurezza nazionali di Hamas a Gaza. Sarebbe l’ultimo di una serie di leader di Hamas uccisi negli ultimi giorni dalle forze israeliane: nell’elenco figurano diversi nomi, tra cui quelli di Osama al-Mazini (leader politico di Hamas e responsabile delle trattative del soldato israeliano Gilad Shalit), Jawad Abu Shamala (responsabile delle finanze di Hamas), Zakaria Abu Maamar (membro del gabinetto politico del gruppo) e Jamila al-Shanti (vedova del cofondatore di Hamas Abdel Aziz al-Rantisi, unica donna nel consiglio esecutivo del movimento).
È la dimostrazione che Israele sta già perseguendo una strategia di decapitazione dei vertici di Hamas, in una sorta di fase uno di una campagna militare che si annuncia incomparabile, per intensità e modalità, rispetto a qualsiasi operazione Israele abbia portato avanti a Gaza in passato.
Se tutto – a cominciare dalle dichiarazioni della leadership israeliana – fa pensare che l’invasione sia ormai inevitabile, è anche vero che questa opzione deve tenere conto di quelle che Batacchi definisce “una serie di variabili intervenienti”.
La prima è quella degli ostaggi. “Credo che già in questi giorni le forze speciali israeliane e le unità paramilitari dello Shin Bet (il Servizio segreto interno) stiano operando dentro Gaza per cercare di capire dove sono gli ostaggi. Immagino stiano cercando di pianificare delle azioni per garantire l’incolumità del numero più alto possibile di ostaggi, anche se la priorità in questo momento non è la vita degli ostaggi, ma la distruzione di Hamas”.
L’ultimo bilancio parla di 203 israeliani ancora nelle mani dei terroristi ma, secondo Batacchi, il numero reale potrebbe essere molto più alto, come suggerisce il fatto che “le autorità israeliane stanno aggiornando il numero ogni giorno, anche per una questione di impatto psicologico sull’opinione pubblica”.
La seconda variabile riguarda le pressioni americane per moderare la reazione: Biden è andato in Israele non solo per ribadire la vicinanza, il supporto, le forniture, la specialità della relazione tra Washington e Tel Aviv, ma anche per moderare e circoscrivere il più possibile l’azione israeliana.
Poi c’è la terza variante: la possibilità che un’operazione del genere porti a un’escalation del conflitto, con l’apertura definitiva di un secondo fronte con il Libano ed eventualmente anche sul Golan.
“L’apertura di un secondo fronte aumenterebbe in maniera esponenziale il rischio di un allargamento del conflitto”, argomenta l’esperto di questioni militari. “A quel punto, Israele reagirebbe e si arriverebbe a uno scontro aperto con Hezbollah; questo scontro aperto potrebbe avere come teatro non solo il Libano del sud ma anche il Golan, perché non dimentichiamoci che Hezbollah è anche in Siria. Israele potrebbe reagire in maniera più massiccia contro la Siria, ma in Siria ci sono i Guardiani della Rivoluzione dell’Iran, con tutto ciò che ne consegue”.
Il confine con il Libano è ormai incandescente: ci sono scontri e scambi tra artiglieria e tiri anticarro tutti i giorni. Le squadre di Hezbollah sparano con armi pesanti o missili anticarro contro le postazioni di Israele, e gli israeliani rispondono con l’artiglieria o con raid aerei. Ci si muove su un filo estremamente sottile.
La grande domanda che tutti si fanno, nelle cancellerie occidentali come nelle capitali arabi, è quale sarà il futuro della Striscia dopo Hamas.
“Gli israeliani hanno già detto che al termine di questa operazione Gaza sarà più piccola, nel senso che probabilmente si ricaveranno una fascia di sicurezza lungo il confine o qualcosa del genere”, osserva ancora Batacchi. “È chiaro però che per il dopo molto importante sarà il ruolo della comunità internazionale – e degli americani, in particolare – per cercare di capire come gestire Gaza dopo Hamas. Posto che l’Iran accetti di perdere un suo proxy come Hamas, e di vedere quindi indebolito il suo dispositivo deterrente rispetto a Israele”.
Secondo l’agenzia di stampa Reuters, l’assenza di un piano postbellico per Gaza è qualcosa che preoccupa molto l’amministrazione Biden, e non solo. La strategia immediata israeliana – secondo funzionari regionali citati da Reuters – è quella di distruggere le infrastrutture di Gaza, anche a costo di ingenti perdite civili, spingere le persone dell’enclave verso il confine egiziano e schiacciare Hamas facendo saltare in aria il labirinto di tunnel sotterranei che il gruppo ha costruito per condurre le sue operazioni. Tuttavia, gli israeliani hanno mostrato di non avere un’idea chiara di come potrebbe essere il futuro del dopoguerra.
Sulle colonne di Foreign Affairs Steven Simon, ex direttore senior del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti per il Medio Oriente e il Nord Africa, lancia l’idea di un piano per “restituire la Striscia di Gaza ai palestinesi e mantenere Israele al sicuro”.
Gli Stati Uniti – suggerisce Simon – potrebbero guidare un gruppo di contatto, un gruppo di Stati vicini e potenze esterne selezionate, vale a dire Israele, Egitto, Giordania, Arabia Saudita, UE, ONU e Autorità Palestinese. Il gruppo svilupperebbe un piano per trasferire il controllo di Gaza da Israele alle Nazioni Unite una volta cessate le operazioni di combattimento, con la prospettiva di sviluppare un piano per le elezioni in Cisgiordania e a Gaza.
Ma ci sono ostacoli enormi affinché questo scenario possa considerarsi anche solo remotamente realizzabile. Innanzitutto, il comprovato immobilismo delle Nazioni Unite per via del meccanismo di veto nel Consiglio di Sicurezza; in secondo luogo, la missione quasi impossibile di far rivivere una moribonda Autorità Nazionale Palestinese. Senza menzionare il rischio di un incendio antisemita e antioccidentale in tutta la regione. Nel deserto di speranze che sta divorando il Medio Oriente, ci vuole un esercizio di immaginazione enorme per provare a scorgere una via d’uscita.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 20th, 2023 Riccardo Fucile
ACCOLTO IL RICORSO DELLA PROCURA GENERALE DI PERUGIA SUL CASO DELL’ESPULSIONE DELLA MOGLIE DEL DISSIDENTE KAZAKO ABYAZOV E DI SUA FIGLIA… TRA GLI IMPUTATI I SUPERPOLIZIOTTI CORTESE E IMPROTA
La Corte di Cassazione ha annullato le assoluzioni di tutti gli
imputati coinvolti nel processo sull’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, allora minorenne, avvenuta a Roma dieci anni fa, nel 2013. La donna, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, venne espulsa verso il Kazakistan.
I giudici della Quinta Sezione Penale della Cassazione hanno accolto il ricorso della procura generale di Perugia che aveva chiesto di annullare con rinvio la sentenza pronunciata il 9 giugno 2022. Allora il collegio, presieduto da Paolo Micheli, aveva assolto gli imputati dall’accusa di sequestro di persona “perché il fatto non sussiste”, ribaltando il verdetto di primo grado.
Tra loro, condannati in primo grado a pene a 5 anni di reclusione, anche due superpoliziotti: l’ex capo della Squadra Mobile di Roma ed ex questore di Palermo Renato Cortese (l’uomo che catturò il boss della mafia Bernardo Provenzano) e l’ex capo dell’Ufficio immigrazione e ed ex vertice della Polfer Maurizio Improta.
Anche il sostituto pg di Cassazione Luigi Giordano aveva stamane, nella sua requisitoria, sollecitato l’accoglimento del ricorso.
Dopo il deposito delle motivazioni, gli atti saranno trasmessi a Firenze per un processo d’appello bis.
(da agenzie)
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Ottobre 20th, 2023 Riccardo Fucile
“L’OSPEDALE DI GAZA E’ STATO COLPITO DA ISRAELE CON UNA BOMBA TERMOBARICA, NESSUNO DEI GRUPPI PALESTINESI HA QUESTO TIPO DI ORDIGNO”
Ihsan Ataya, 59 anni, è il rappresentante della Jihad Islamica in Libano. È nato a Sidone nel 1964 e faceva l’insegnante prima di entrare nel gruppo armato. Il Movimento per il Jihad Islamico in Palestina deriva dai Fratelli Musulmani e ha rivendicato molti attentati in Medio Oriente tanto da essere indicato come un’organizzazione terroristica transnazionale. Ihsan Ataya è entrato nel gruppo armato negli Anni Ottanta. Ora vive a Beirut.
Oggi dice in un’intervista a la Repubblica che la sua organizzazione «non fa trattative. La politica la lasciamo ad Hamas. Il nostro lavoro è solo la resistenza per la liberazione della Palestina». L’esercito israeliano ha accusato l’organizzazione di essere responsabile per la strage all’ospedale di Gaza City.
Le prove che mancano
Ma secondo Ihsan Ataya si tratta di un «falso. Sono stati gli israeliani, con una bomba termobarica, per questo non c’è il cratere nel parcheggio dell’ospedale. Quando esplodono i missili della Resistenza trovi molte parti della bomba. Non c’erano. È stato un attacco verticale».
A Gabriella Colarusso, che gli chiede le prove, Ataya risponde che «nessuno dei gruppi palestinesi ha questo tipo di armi. L’esercito israeliano ha detto su Telegram e su X che avevano dato l’ordine di evacuazione all’ospedale. È una ammissione di responsabilità. Poi hanno cancellato i post».
Mentre secondo lui la conversazione tra militanti di Hamas in cui si parla del missile «risale al 2022. Avevamo iniziato un’operazione su cui Hamas non era d’accordo». Poi però ammette che «Gaza è molto piccola. Non ci sono spazi vuoti. Noi lanciamo i missili da posti all’aperto, non chiusi, ma può essere che ci siano dei civili intorno. I depositi sono nei tunnel, non abbiamo bisogno di tenere missili e munizioni nei palazzi».
Gli ostaggi
Ihsah Ataya dice che l’attacco contro Israele è stato pianificato da Hamas senza la loro partecipazione. La Jihad Islamica si è aggregata per catturare i soldati e liberare i suoi prigionieri. Ma anche per catturare gli ostaggi: oggi ne detengono «più di 30». Li libereranno «quando ci sarà un cessate il fuoco, lo stop ai combattimenti e alle bombe sui civili». Aggiunge che la loro non è una guerra di religione ma per la liberazione della Palestina. E quando Colarusso gli fa notare che molti civili israeliani sono stati uccisi replica così: «Molti civili da Gaza che hanno perso figli, padri, famiglie intere, sono entrati nei territori occupati con le forze della resistenza. Forse qualcuno ha commesso omicidi. Non era compito di Hamas controllarli».
L’Iran
Sui finanziamenti dell’Iran invece dice che «Teheran sostiene tutte le parti palestinesi, E ha guadagnato influenza da quando i Paesi arabi hanno dimenticato la causa palestinese per fare accordi con gli americani». Mentre con Hamas «siamo alleati ma non siamo interessati a tutti gli obiettivi di Hamas, che fa politica, vuole essere leader dei palestinesi e parte dell’Olp nel guidarli. Hanno negoziati con Fatah, cercano di fare accordi. Noi non abbiamo questo obiettivo. Non ora. Il nostro obiettivo è che Israele, che nel 1948 ha rubato la nostra terra, compie massacri e non rispetta le leggi internazionali, venga smantellato come Stato. Non abbiamo problemi con gli ebrei, vogliamo uno Stato palestinese e gli ebrei possono viverci, se vogliono».
(da La Repubblica)
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