L’INVASIONE DI GAZA, ISRAELE NON SA COME ENTRARE E NON SA COME USCIRE
IL TIMORE DELL’ESCALATION, IL NODO DEGLI OSTAGGI, L’ASSENZA DI UN PIANO SUL FUTURO DELLA STRISCIA… “C’E’ UN’ALTRA GAZA SOTTO GAZA”
L’offensiva israeliana di terra nel nord della Striscia di Gaza continua a rimanere congelata, ma la maggior parte degli esperti militari la reputa ormai inevitabile. L’ordine arriverà “presto”, assicura il ministro della Difesa Yoav Gallant, mentre Benjamin Netanyahu visita un battaglione dell’esercito, nei pressi della Striscia, incitandoli a “combattere come leoni”.
Il governo israeliano non considera possibile un altro modo di mantenere la promessa fatta al popolo ebraico all’indomani del trauma del 7 ottobre, ovvero “schiacciare Hamas” ed eliminare per sempre la minaccia rappresentata dal movimento palestinese fondamentalista sostenuto dall’Iran.
Fermo restando che nulla – neanche una vittoria militare a Gaza, al prezzo di perdite umane altissime – può dare a Israele la garanzia di non andarsi a cacciare in un guaio ancora più grande: con l’incognita di chi governerà la Striscia dopo Hamas, e la possibilità di un’escalation del conflitto che potrebbe accendere il fronte libanese e quello siriano, fino ad arrivare a un coinvolgimento diretto dell’Iran.
Con il rischio di cadere di fatto nella trappola di Hamas e ripetere l’errore americano dell’11 settembre, evocato da Joe Biden come cedimento alle pulsioni della vendetta, senza premeditare le strategie di ingresso e soprattutto di uscita da un’operazione militare pericolosa, al limite dell’azzardo.
Dopo la visita in Israele del presidente americano Joe Biden e del premier britannico Rishi Sunak, la questione dello sblocco degli aiuti umanitari a Gaza tramite il valico di Rafah, in Egitto, dovrebbe essere questione di ore. La situazione umanitaria nella Striscia, intanto, si fa sempre più drammatica, con oltre due milioni di persone private dell’accesso a forniture essenziali come cibo, acqua, medicinali.
Secondo Herbert Raymond McMaster, ex generale e consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, un’invasione israeliana di terra a Gaza è inevitabile, dato che Hamas rappresenta una “minaccia esistenziale” per lo Stato ebraico.
La pensa così anche Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana di Difesa, che avverte però dell’imprevedibilità delle conseguenze che una tale mossa comporterebbe. “Se guardiamo la questione da un punto di vista puramente militare, non credo che Israele abbia alternative rispetto a quella di entrare a Gaza, entrarci in profondità e in maniera duratura. Se Israele vuole – come hanno detto i suoi leader sin dal 7 ottobre – rimuovere completamente la minaccia di Hamas, non ha alternativa che condurre un’operazione del genere, perché una sola operazione aerea – seppur massiccia e di grande intensità, come quella di adesso – rischierebbe di non conseguire l’obiettivo. Questo anche perché una parte importante dell’infrastruttura bellica e capacitiva di Hamas è localizzata sotto terra”.
Si tratta dei famosi tunnel ma non solo: si parla di centri di comando e controllo, depositi, officine e quant’altro. “È come se ci fosse un’altra Gaza sotto Gaza, una Gaza sotterranea. Peraltro – aggiunge Batacchi – sono tutte aree cablate in fibra ottica, cosa che impedisce agli israeliani di intercettare le comunicazioni”.
In attesa di sferrare la campagna di terra, Israele sta continuando a condurre operazioni mirate nella Striscia con il duplice obiettivo di raccogliere informazioni sulle condizioni degli ostaggi israeliani ed eliminare i vertici del gruppo terroristico palestinese.
In uno di questi raid sarebbe stato ucciso Jehad Mheisen, capo delle forze di Sicurezza nazionali di Hamas a Gaza. Sarebbe l’ultimo di una serie di leader di Hamas uccisi negli ultimi giorni dalle forze israeliane: nell’elenco figurano diversi nomi, tra cui quelli di Osama al-Mazini (leader politico di Hamas e responsabile delle trattative del soldato israeliano Gilad Shalit), Jawad Abu Shamala (responsabile delle finanze di Hamas), Zakaria Abu Maamar (membro del gabinetto politico del gruppo) e Jamila al-Shanti (vedova del cofondatore di Hamas Abdel Aziz al-Rantisi, unica donna nel consiglio esecutivo del movimento).
È la dimostrazione che Israele sta già perseguendo una strategia di decapitazione dei vertici di Hamas, in una sorta di fase uno di una campagna militare che si annuncia incomparabile, per intensità e modalità, rispetto a qualsiasi operazione Israele abbia portato avanti a Gaza in passato.
Se tutto – a cominciare dalle dichiarazioni della leadership israeliana – fa pensare che l’invasione sia ormai inevitabile, è anche vero che questa opzione deve tenere conto di quelle che Batacchi definisce “una serie di variabili intervenienti”.
La prima è quella degli ostaggi. “Credo che già in questi giorni le forze speciali israeliane e le unità paramilitari dello Shin Bet (il Servizio segreto interno) stiano operando dentro Gaza per cercare di capire dove sono gli ostaggi. Immagino stiano cercando di pianificare delle azioni per garantire l’incolumità del numero più alto possibile di ostaggi, anche se la priorità in questo momento non è la vita degli ostaggi, ma la distruzione di Hamas”.
L’ultimo bilancio parla di 203 israeliani ancora nelle mani dei terroristi ma, secondo Batacchi, il numero reale potrebbe essere molto più alto, come suggerisce il fatto che “le autorità israeliane stanno aggiornando il numero ogni giorno, anche per una questione di impatto psicologico sull’opinione pubblica”.
La seconda variabile riguarda le pressioni americane per moderare la reazione: Biden è andato in Israele non solo per ribadire la vicinanza, il supporto, le forniture, la specialità della relazione tra Washington e Tel Aviv, ma anche per moderare e circoscrivere il più possibile l’azione israeliana.
Poi c’è la terza variante: la possibilità che un’operazione del genere porti a un’escalation del conflitto, con l’apertura definitiva di un secondo fronte con il Libano ed eventualmente anche sul Golan.
“L’apertura di un secondo fronte aumenterebbe in maniera esponenziale il rischio di un allargamento del conflitto”, argomenta l’esperto di questioni militari. “A quel punto, Israele reagirebbe e si arriverebbe a uno scontro aperto con Hezbollah; questo scontro aperto potrebbe avere come teatro non solo il Libano del sud ma anche il Golan, perché non dimentichiamoci che Hezbollah è anche in Siria. Israele potrebbe reagire in maniera più massiccia contro la Siria, ma in Siria ci sono i Guardiani della Rivoluzione dell’Iran, con tutto ciò che ne consegue”.
Il confine con il Libano è ormai incandescente: ci sono scontri e scambi tra artiglieria e tiri anticarro tutti i giorni. Le squadre di Hezbollah sparano con armi pesanti o missili anticarro contro le postazioni di Israele, e gli israeliani rispondono con l’artiglieria o con raid aerei. Ci si muove su un filo estremamente sottile.
La grande domanda che tutti si fanno, nelle cancellerie occidentali come nelle capitali arabi, è quale sarà il futuro della Striscia dopo Hamas.
“Gli israeliani hanno già detto che al termine di questa operazione Gaza sarà più piccola, nel senso che probabilmente si ricaveranno una fascia di sicurezza lungo il confine o qualcosa del genere”, osserva ancora Batacchi. “È chiaro però che per il dopo molto importante sarà il ruolo della comunità internazionale – e degli americani, in particolare – per cercare di capire come gestire Gaza dopo Hamas. Posto che l’Iran accetti di perdere un suo proxy come Hamas, e di vedere quindi indebolito il suo dispositivo deterrente rispetto a Israele”.
Secondo l’agenzia di stampa Reuters, l’assenza di un piano postbellico per Gaza è qualcosa che preoccupa molto l’amministrazione Biden, e non solo. La strategia immediata israeliana – secondo funzionari regionali citati da Reuters – è quella di distruggere le infrastrutture di Gaza, anche a costo di ingenti perdite civili, spingere le persone dell’enclave verso il confine egiziano e schiacciare Hamas facendo saltare in aria il labirinto di tunnel sotterranei che il gruppo ha costruito per condurre le sue operazioni. Tuttavia, gli israeliani hanno mostrato di non avere un’idea chiara di come potrebbe essere il futuro del dopoguerra.
Sulle colonne di Foreign Affairs Steven Simon, ex direttore senior del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti per il Medio Oriente e il Nord Africa, lancia l’idea di un piano per “restituire la Striscia di Gaza ai palestinesi e mantenere Israele al sicuro”.
Gli Stati Uniti – suggerisce Simon – potrebbero guidare un gruppo di contatto, un gruppo di Stati vicini e potenze esterne selezionate, vale a dire Israele, Egitto, Giordania, Arabia Saudita, UE, ONU e Autorità Palestinese. Il gruppo svilupperebbe un piano per trasferire il controllo di Gaza da Israele alle Nazioni Unite una volta cessate le operazioni di combattimento, con la prospettiva di sviluppare un piano per le elezioni in Cisgiordania e a Gaza.
Ma ci sono ostacoli enormi affinché questo scenario possa considerarsi anche solo remotamente realizzabile. Innanzitutto, il comprovato immobilismo delle Nazioni Unite per via del meccanismo di veto nel Consiglio di Sicurezza; in secondo luogo, la missione quasi impossibile di far rivivere una moribonda Autorità Nazionale Palestinese. Senza menzionare il rischio di un incendio antisemita e antioccidentale in tutta la regione. Nel deserto di speranze che sta divorando il Medio Oriente, ci vuole un esercizio di immaginazione enorme per provare a scorgere una via d’uscita.
(da Huffingtonpost)
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