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COSA C’È DIETRO L’OSSESSIONE DI GIORGIA MELONI PER IL SIGNORE DEGLI ANELLI? IL QUOTIDIANO INGLESE “THE GUARDIAN” SI INTERROGA SULLA PASSIONE DELLA DUCETTA PER TOLKIEN

Novembre 4th, 2023 Riccardo Fucile

“LE SAGHE DELLA TERRA DI MEZZO SI INSERISCONO BENE NELLA LOGICA DEL POPULISMO DI DESTRA”… “CI SONO HOBBIT ED ELFI ‘BUONI’ CHE COMBATTONO GLI ORCHI ‘CATTIVI’, NON CI VUOLE MOLTO SFORZO PER PIEGARE QUESTA DEFINIZIONE A SCOPI NAZIONALISTI

In quanto fan di lunga data di J.R.R. Tolkien, ho spesso trovato perplessità nell’ossessione di Giorgia Meloni per Il Signore degli Anelli. Nel corso degli anni, il primo ministro ultraconservatore italiano ha citato brani nelle interviste, ha condiviso foto di sé stessa mentre leggeva il romanzo e ha persino posato con una statua del mago Gandalf come parte di una campagna. Nella sua autobiografia-manifesto, dedica diverse pagine al suo “libro preferito”, che a un certo punto definisce un testo “sacro”.
Quando questa settimana ho letto la notizia che il Ministero della Cultura italiano sta spendendo 250.000 euro per organizzare una mostra su Tolkien alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, e che la Meloni parteciperà all’inaugurazione, non ho potuto fare a meno di chiedermi: perché? Cosa sta cercando di ottenere questo governo imprimendo il suo marchio in modo così aggressivo su una delle saghe fantasy più amate al mondo?
I miei amici italiani non capiscono il problema. Si tratta di politica quotidiana, dicono, un semplice esercizio di branding per ammorbidire l’immagine della Meloni. Forse. Ma c’è un lato più profondo, e francamente più strano, di questa storia. Quando Il Signore degli Anelli arrivò per la prima volta sugli scaffali italiani negli anni Settanta, l’accademico Elémire Zolla scrisse una breve introduzione in cui interpretava il libro come un’allegoria sui gruppi etnici “puri” che si difendono dalla contaminazione degli invasori stranieri. I simpatizzanti fascisti del Movimento Sociale Italiano (MSI) colsero subito la provocazione.
Ispirati dalle parole di Zolla, hanno visto nel mondo di Tolkien uno spazio dove poter esplorare la propria ideologia in termini socialmente accettabili, liberi dai tabù del passato. Meloni, membro dell’ala giovanile del MSI, ha sviluppato la sua coscienza politica in quell’ambiente. Da adolescente ha persino partecipato a un “Campo Hobbit”, un ritiro estivo organizzato dall’MSI in cui i partecipanti si vestivano in abiti cosplay, cantavano ballate popolari e discutevano di come le mitologie tolkieniane potessero aiutare la destra post-fascista a trovare credibilità in una nuova era
Ovviamente stiamo parlando di un movimento marginale. Ma vale la pena riconoscere che, con un po’ di immaginazione, le saghe della Terra di Mezzo si inseriscono piuttosto bene nella logica del populismo di destra contemporaneo. Il Signore degli Anelli segue la logica di un gioco a somma zero, radicato nella metafisica cattolica.
Ci sono hobbit ed elfi “buoni” che combattono gli orchi “cattivi”. C’è poco spazio per le sfumature. Mentre la maggior parte di noi probabilmente legge i personaggi “buoni” in termini apolitici, non ci vuole molto sforzo per piegare questa definizione a scopi nazionalisti. Nel suo libro, la Meloni fa proprio questo. Un momento prima ci dice che il suo personaggio preferito è il pacifico Samwise Gamgee, “solo un hobbit”.
Poche pagine dopo paragona implicitamente l’Italia al regno perduto di Númenor e cita la chiamata alle armi del personaggio di Faramir ne Le due torri. In definitiva, la scrittrice sembra considerare l’opera di Tolkien come una favola didattica antiglobalizzazione, un’epopea iperconservatrice che propugna una guerra totale contro il mondo moderno in nome dei valori tradizionali.
L’interesse della Meloni per la fantasia, i simboli e le grandi narrazioni la distingue dai leader precedenti. Tutti i governi in Italia, di destra e di sinistra, usano la cultura per aiutare i loro messaggi politici. Tuttavia, l’attuale amministrazione sembra atipicamente ossessionata dal controllo dell’immaginario pubblico
Una delle prime cose che Meloni ha fatto quando è salita al potere è stata quella di nominare Giampaolo Rossi, un giornalista noto per aver difeso Vladimir Putin, direttore generale dell’emittente pubblica Rai. Il mandato dell’organizzazione è stato ora riscritto per includere l’obbligo di promuovere “la ricchezza del parto e della genitorialità”. Poi ha nominato Alessandro Giuli, critico conservatore e schietto euroscettico, presidente del più importante museo d’arte contemporanea di Roma, il Maxxi.
La scorsa settimana il governo ha nominato Pietrangelo Buttafuoco, intellettuale pubblico ed ex membro del comitato centrale dell’organizzazione giovanile post-fascista Fronte della Gioventù, come prossimo presidente della Biennale di Venezia. Alla vigilia della decisione, Buttafuoco ha dichiarato: “In questa stagione si abbatteranno gli steccati. Verrà data una casa a chi finora non l’ha avuta”.
Si è tentati di non considerare le guerre culturali come tattiche superficiali di campagna elettorale: argomenti polarizzanti che i politici usano per galvanizzare le passioni in vista delle elezioni, e nulla più. Le azioni della Meloni ci ricordano che c’è anche un lato serio. Durante l’estate, con una mossa che ricorda quella di Viktor Orbán, il governo italiano ha compiuto il drammatico passo di attribuirsi direttamente il potere di nominare i dirigenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, una delle più importanti scuole di cinema italiane.
Il deputato Igor Iezzi ha giustificato la decisione con la necessità di “modernizzare” l’istituzione, aggiungendo che la sinistra deve sforzarsi di “togliere gli artigli dalla cultura”. È interessante notare che il governo non sembra avere alcuna remora nei confronti del numero apparentemente crescente di editori di estrema destra che stanno ristampando libri di autori fascisti come Giovanni Gentile e Julius Evola per una nuova generazione di lettori (molti di questi editori, tra l’altro, stanno usando Il Signore degli Anelli per attirare nuovo pubblico).
Non è ancora chiaro quale sia la direzione di tutto questo. Il progetto culturale della Meloni è ancora in fase embrionale e non c’è ancora traccia di una politica statale coesa. Tuttavia, i primi segnali sono preoccupanti. Nell’ultimo anno, molti hanno creduto all’idea che la Meloni sia una “moderata”. Si sono innamorati dei suoi sorrisi, del suo linguaggio corporeo da pecorina, del suo linguaggio appena moderato. Sotto la superficie, tuttavia, c’è un programma culturale profondamente preoccupante.
Jamie Mackay per “The Guardian”

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IL PREMIERATO PASTICCIATO, MELONI HA L’ARMA DI DISTRAZIONE DI MASSA

Novembre 4th, 2023 Riccardo Fucile

L’OBIETTIVO DELLA PREMIER E’ QUELLA DI USARE LE RIFORME COME DIVERSIVO

L’arma di distrazione di massa delle riforme è stata costruita. È già pronta per essere attivata al momento giusto e fare il giusto rumore, un diversivo per coprire tutti gli altri temi. Soprattutto quelli più indigesti al governo. Il testo, approvato ieri a Palazzo Chigi, non presenta sorprese: è il «premierato all’italiana», come ama definirlo la ministra Elisabetta Alberti Casellati, che sembra un premierato pasticciato, più all’amatriciana.
Nel disegno di legge sono presenti i feticci ideologici della leader di Fratelli d’Italia: la norma «anti-ribaltone» che di fatto lega le mani al capo dello Stato, ridotto a un ruolo notarile, e unisce i destini del parlamento a una sola persona, il premier. Può cambiare solo un presidente del Consiglio in una legislatura, a patto che sia un parlamentare alla coalizione vincente. «Non ci sarà più la possibilità di fare maggioranze arcobaleno, è la fine dei governi tecnici», ha detto chiaro e tondo Meloni. Nei fatti il destino delle legislature è legato alle sorti di una sola persona, il premier. Viene eliminata poi la possibilità del Colle di nominare nuovi senatori a vita, ruolo che spetterà di diritto sono ai presidenti della Repubblica emeriti. Resta da definire il ruolo dei gruppi parlamentari, che vengono uniti da un patto inscindibile alla coalizione elettorale.
RIFORME PER DISTRARRE
I contenuti, però, hanno un valore relativo. Meloni ha ora a disposizione lo strumento ideale per distogliere l’attenzione dai problemi reali. La modifica della Costituzione prevede un iter lungo. Nella migliore delle ipotesi, in caso di cammino a tappe forzate, sarà di un anno. La sensazione è che si procederà più a rilento. A Palazzo Chigi serve che le riforme siano in fase di approvazione, non devono essere completate. A quel punto diventerebbero un’arma scarica. È il modello Colle Oppio assurto a metodo di governo, con la regia dell’onnipresente sottosegretaria, Giovanbattista Fazzolari: la comunicazione che copre i vuoti politici, la propaganda che prevarica l’inazione. Nel manuale della leader di Fdi, erede della tradizione della fiamma, è scolpita la strategia della distrazione dell’opinione pubblica. Le riforme istituzionali – «la madre di tutte le riforme» per usare il lessico della presidente del Consiglio – sono ideali per questa funzione. Da usare al momento giusto, a intermittenza.
Che i tempi non saranno brevi, lo conferma la mancanza anche di un’idea di legge elettorale, un “collegato” fondamentale alla riforma. Casellati ha spiegato di «essere al lavoro» per realizzarla. «Ci sarà un’ampia consultazione» è la frase clou, in pratica l’annuncio indiretto che ripartirà tutta la rumba del confronto, dei tavoli. L’accordo non è affatto semplice, bisognerà decidere sul ballottaggio, sulla soglia di sbarramento per l’ingresso in parlamento e l’eventuale ritorno delle preferenze. Argomenti che dividono da anni le forze politiche.
SPAURACCHIO REFERENDUM
Il testo della riforma è già di per sé talmente rigido da precludere possibilità di confronto. Manca addirittura la norma sul tetto di mandati, che secondo i costituzionalisti sarebbe una condizione minima per evitare derive personalistiche. Il limite esiste in tutti Paesi in cui c’è una corsa così concentrata sulla persona. I casi sono vari: in Francia (anche se in questo caso si tratta di un semi-presidenzialismo), in Portogallo, in Croazia, ma anche in Romania e in Repubblica Ceca. Insomma, laddove è l’elettore a indicare un presidente, non si va oltre i due mandati. Una mancanza che non è passata inosservata. «Nel testo di riforma costituzionale, presentato dal governo, non compare il limite dei due mandati per il presidente del consiglio eletto direttamente», ha osservato il presidente dell’Anci, Antonio Decaro. «Mi pare – ha sottolineato il sindaco di Bari – che a questo punto si renda inevitabile togliere questo limite all’unica figura istituzionale che invece continua ad averlo, cioè i sindaci».
Per il governo lo spauracchio sullo sfondo resta il referendum, che al momento è un’opzione inevitabile. L’unica parziale apertura al dialogo è arrivata da Italia viva. Addirittura Azione ha bocciato la proposta: «Inseguono le bandiere a lungo agitate», ha sintetizzato la senatrice Mariastella Gelmini. La scena è un remake riveduto e corretto di quanto accaduto con Matteo Renzi: un leader all’apice della popolarità che apre il capitolo-riforme. La parabola dell’ex presidente del Consiglio è nota. Tanto che nei giorni scorsi, in Transatlantico, il capogruppo di Fdi alla Camera, Tommaso Foti, ha messo le mani avanti: «Questa è diversa dalla riforma di Renzi, fu lui a dire che si sarebbe dimesso in caso di sconfitta al referendum». Non è un automatismo
E gli alleati di governo? La prima reazione non è stata di entusiasmo a tutto campo. Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha rimesso sul tavolo il tema dell’autonomia. «Rafforzare il governo a livello centrale e applicare l’autonomia significa dare più senso al voto dei cittadini», ha detto. Solo nel corpaccione dei parlamentari di Fdi c’è stata la batteria di dichiarazioni elogiative. Tra gli altri si è fatto sentire qualcuno qua e là. Con calma.
(da editorialedomani.it)

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RIFORME, IL GOLPETTO DI GIORGIA MELONI

Novembre 4th, 2023 Riccardo Fucile

IN PARTE E’ UN PUTSCH IN STILE ORBAN, DISPOTICO E AUTOCRATICO, IN PARTE E’ PRETENZIOSO E SGANGHERATO

Dunque, la Sorella d’Italia ha partorito la «Madre di tutte le riforme», come lei stessa ha battezzato la sua creatura appena nata. Nel Paese di Casa Meloni — tra parenti serpenti, fidanzati fuorionda e barbe finte al telefono — fa irruzione il “premierato all’italiana”, forma di governo unica al mondo, mai azzardata da nessun’altra democrazia occidentale. Quindi perfetta per una Repubblica preterintenzionale come la nostra (copyright Ilvo Diamanti), in eterna transizione verso un ignoto vattelapesca.
Secondo la premier, il disegno di legge costituzionale che riscrive quattro articoli della Carta del ’48 è naturalmente «una svolta storica», come del resto tutte quelle prodotte fin qui da una destra ex missina che — assurta al potere dopo decenni di alterità e di marginalità politica — consuma ora molta più Storia di quanta ne produce, immersa com’è nell’ideologia dell’anno zero e nel mito ri-fondativo della Nazione.
E ovviamente anche questo passaggio epocale ci traghetterà «nella Terza Repubblica», aggiunge, saltando a piedi pari la Seconda, di cui dev’esserci sfuggito sia l’inizio che la fine.
E nell’Anno Uno della nuova era meloniana non ci sarà più spazio per ribaltoni, giochi di palazzo, governi tecnici, e finalmente sarà ristabilito «il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare». Detta così, parrebbe un sogno. Peccato invece che sia un incubo.
Come tutte quelle che l’hanno preceduta — da Bozzi nell’83 a Craxi nell’89, da Cossiga nel ’93 a D’Alema nel ’98, da Berlusconi nel 2006 a Renzi nel 2016 — anche la Grande Riforma lanciata da Giorgia Meloni è un Piccolo Mostro giuridico.
Un “perfetto Frankenstein”, l’avrebbe definita Giovanni Sartori, padre dei comparativisti italiani che inventò questa formula una quindicina d’anni fa, per bollare l’elezione diretta del presidente del Consiglio allora vagheggiata dal Cavaliere. Un modello mai sperimentato da nessuna liberal-democrazia del pianeta (ad eccezione di Israele, che fece retromarcia di lì a poco).
Basterebbe questo per far emergere l’insensatezza e l’irragionevolezza del premierato: un meccanismo del tutto anomalo che, trapiantato nel corpaccione già malaticcio della nostra Repubblica parlamentare, lo snatura, lo contamina e infine lo compromette irrimediabilmente.
Fior di presidenti emeriti della Consulta, da Giovanni Maria Flick a Giancarlo Coraggio, segnalano i pericoli di questo esperimento da laboratorio, concepito dai Dottor Stranamore delle tre destre, che fa saltare il delicato equilibrio tra i poteri dello Stato, la leale collaborazione tra le istituzioni e il check and balance che regge il Sistema-Paese.
Un presidente del Consiglio votato dal popolo — previa indicazione del suo nome sulla scheda elettorale — quindi investito da una legittimazione diretta che lo pone al di sopra di tutte le altre istituzioni, ma lo priva comunque della facoltà di assumere o licenziare i suoi ministri.
Un Presidente della Repubblica ancora eletto dalle Assemblee Legislative — quindi legittimato da una “fonte” subordinata rispetto a quella cui attinge il presidente del Consiglio — che vede ridotte le sue prerogative, perché di fatto non può più sciogliere le Camere e deve limitarsi a “conferire l’incarico” al premier vincitore.
Un Parlamento già esanime di suo — costretto a ratificare 43 decreti-legge e 21 fiducie in 378 giorni — che nella sostanza è già svilito a votificio e ora lo è anche nella forma. In mezzo a questo strambo “triangolo delle Bermude” dove i poteri cozzano e sbiadiscono, si inabissano poi altre garanzie costituzionali e funzionali, con un risultato opposto a quello che i patrioti dicono di voler perseguire.
C’è un cortocircuito sulla stabilità dei governi: Meloni e i suoi bravi inseguono l’araba fenice, visto che in 75 anni ne abbiamo avuti 68, di cui ben 12 solo negli ultimi 20 anni?
Ebbene, la grottesca “clausola anti-ribaltone” — che in caso di caduta di un premier prevede per una sola volta o il reincarico al medesimo o l’incarico a un altro eletto nello stesso partito — genera un micidiale paradosso, perché consegna solo a quest’ultimo (e non invece al primo) l’arma-fine-di-mondo del ricorso alle elezioni anticipate.
Così, nel gioco a due tra il premier e il suo “secondo”, i governi invece di stabilizzarsi si destabilizzano. C’è un cortocircuito sulla legge elettorale: Meloni e i suoi bravi ambiscono alle coalizioni blindate e alla fine delle transumanze tra i gruppi parlamentari?
Se è così, la proposta annunciata dall’esecutivo — che in miope continuità coi vari Porcellum, Italicum e Rosatellum prevede il solito super-premio di maggioranza del 55 per cento senza soglia minima di consensi per ottenerlo — non centra l’obiettivo, anzi muore in culla perché la Consulta l’ha già bocciata con ben due sentenze del 2014 e del 2017. Così il quadro è davvero completo. E benvenuti nella macelleria costituzionale della Sorella e dei Fratelli d’Italia.
Questo, a ben vedere, è solo in parte un putsch in stile Orbán, dispotico e autocratico. Semmai è un “golpetto all’amatriciana”, pretenzioso e sgangherato. Qui, più che alla Donna-sola-al-comando, siamo alla Patria-persa-nel-Caos. Ma la nostra Presidente è tutto fuorché una sprovveduta.
E allora c’è da interrogare la Ragion Politica per provare a capire perché Casa Meloni sforni adesso, in fretta e furia, un simile intruglio di velleitarismo e di avventurismo. E ce lo propini in pompa magna, insieme a una manovra claudicante, a un’Autonomia Differenziata inesistente, a un Piano Mattei evanescente. Come se la quantità della “merce” venduta all’opinione pubblica supplisse alla sua scarsa qualità.
Realisticamente, questa Grande Riforma non vedrà mai la luce, avendo bisogno di una duplice lettura parlamentare a distanza di tre mesi l’una dall’altra e poi di un rischiosissimo referendum confermativo (come insegnano i due “nazareni” Silvio e Matteo, colpiti e affondati dal no del popolo sovrano). Ma tenere quel disegno di legge lì, sul tavolo di Palazzo Chigi, può tornare utile alla premier per due usi.
Il primo uso è l’arma di distrazione per gli elettori: se non riuscirà a risolvere i tanti guai del Paese, dall’emergenza economica ai migranti, lei potrà sempre dire agli italiani che la colpa non è sua ma di un sistema ingovernabile, e per questo urge una riforma che le dia i pieni poteri.
Il secondo uso è l’arma di pressione sul Quirinale: se nel corso della legislatura il Colle diventa pietra d’inciampo per l’azione di governo, lei potrà sempre puntare la pistola del “premierato all’italiana” sulla tempia di Sergio Mattarella.
In tutti e due i casi, anche questa “svolta storica” meloniana perpetua la malattia mortale della politica di questi decenni, che abusa della Costituzione e delle istituzioni. Mai modernizzate per accrescere le virtù della democrazia e per migliorare la vita dei cittadini.
Spesso manomesse per obiettivi di parte e di partito, con fini strumentali e congiunturali. Sempre infettate con la sindrome del “debolismo” (cioè l’idea malsana che l’inefficienza dei governi non dipenda mai dalla loro insipienza politica ma solo dalla farraginosità delle regole) e poi curate con la falsa terapia del “direttismo” (cioè l’illusione che per risolvere il problema basti l’autarchia elettiva innescata dall’investitura del leader).
È il vero inganno della lunga stagione populista, che continua a sopravvivere a se stessa. Peccato che, nel frattempo, dalle urne stia scomparendo il popolo.
(da La Repubblica)

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LA RIFORMA COSTITUZIONALE TARGATA MELONI E’ DI BASSO PROFILO, MA COMPORTA UN GROSSO RISCHIO

Novembre 4th, 2023 Riccardo Fucile

UNA SVOLTA AUTORITARIA NELLA NOSTRA DEMOCRAZIA

È come se, nottetempo, ti cambiassero il sistema operativo del pc su cui lavori dieci ore al giorno, o anche solo l’immagine di sfondo alla quale ti sei affezionato.
È questa, banalmente, l’impressione che fa la riforma costituzionale approvata dal Consiglio dei ministri: quattro interventi di basso profilo che però, o proprio per questo, rischiano di innescare una ulteriore svolta autoritaria nella nostra democrazia. Istituzione fragile, questa, che non si basa tanto sul voto popolare, che viene e va, bensì sulla separazione o più precisamente l’equilibrio dei poteri costituzionali: proprio ciò che dalla riforma esce forse non vistosamente ma sostanzialmente alterato.
È dai tempi della Prima repubblica che si parla di un rafforzamento dell’esecutivo, ma sbagliando. Come mostro in un libro recente, è almeno dalla prima guerra mondiale che i poteri dell’esecutivo crescono esponenzialmente. Hanno continuato a crescere anche dal 1948 in poi, a testo costituzionale invariato, e con loro i poteri delle Regioni, oggetto di un’altra riforma potenzialmente autoritaria, l’autonomia differenziata del leghista Calderoli. Si pensi solo alla maggiore posta del bilancio regionale, la Sanità pubblica: oligarchi popolarissimi come i “governatori” Zaia e De Luca la stanno già svendendo ai privati, cosa faranno con poteri aumentati?
Va anche detto che il rafforzamento dei poteri di governo tramite elezione popolare è percepito in modo distorto dall’opinione pubblica. Mattarella e Draghi, i governanti più popolari degli ultimi anni, sono stati votati dal Parlamento, non dal popolo. Eppure, i sondaggi registrano una crescita costante della richiesta di elezione diretta dei governanti: competenza, esperienza, merito non contano nulla. Così, benché il nostro paese sia stato salvato molte volte da tecnici – Ciampi, Dini, Monti e Draghi, per non parlare di Conte – Meloni ha vantato come un successo suo e dell’intera riforma l’aver tolto a Mattarella il potere di nominare premier un tecnico.
Del resto, così ragionano populisti, sovranisti e fondamentalisti, come i vari Trump, Erdogan, Orbán e Netanyahu, tutti scelti più o meno direttamente dagli elettori. Non a caso il programma di governo di Meloni contemplava il presidenzialismo, questo rottame in crisi in tutto il mondo. Poi qualcuno dei suoi consiglieri, forse la sorella, il cognato o lo stesso Giambruno, deve averle suggerito di ripiegare sul premierato, sperimentato solo in Israele, dal 2002 al 2012, e poi abbandonato pure lì. Che poi è il Sindaco d’Italia, inventato guardandosi allo specchio dall’ex sindaco di Firenze, Matteo Renzi, e respinto con referendum nel 2016, solo sette anni fa.
Eppure, c’è il rischio concreto che questa riforma costituzionale targata Fratelli d’Italia, insieme con l’autonomia differenziata in quota Lega – a Forza Italia cosa daranno, le ultime spoglie della Rai? – dalla prossima legislatura diventi la nostra Costituzione. E non solo: Meloni, ancora stordita da settimane di fuori onda e di false interviste russe, ha proclamato che questo è solo l’inizio: la riforma costituzionale è la madre di tutte le riforme, con essa comincia la Terza Repubblica. Io francamente spero di no: già hanno dovuto rimangiarsi la legge elettorale con premio di maggioranza in Costituzione, e spero che debbano rimangiarsi, oltre a tutto il resto, una cosa che proprio non mi va giù, la nomina presidenziale dei senatori a vita. Pensate solo a Liliana Segre: quando mai sarebbe entrata in Parlamento, se Mattarella non l’avesse nominata?
Mauro Barberis
Docente di Diritto, Università di Trieste
(da il Fatto Quotidiano)

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IL MINISTRO CASELLATI ALLE PRESE CON UNA RIFORMA CHE NON HA SCRITTO

Novembre 4th, 2023 Riccardo Fucile

ARRIVA IN RITARDO E ACCASCIA TUTTI, TRA LA SPILLA CON IL RAMARRO E IL CELLULARE SOTTO IL BANCO

Anche in Consiglio dei ministri quando Maria Elisabetta Alberti Casellati scompare, succede immancabilmente che nessuno se ne accorge. Così pure ieri, a Palazzo Chigi, nel corso della conferenza stampa nella quale il governo presentava la riforma costituzionale, insomma nel giorno di gloria (in teoria) della Casellati, ecco che la cosa si è ripetuta: malgrado il ministro “delle riforme” non ci fosse, la conferenza stampa “sulle riforme” è iniziata lo stesso. Sicché passano diversi minuti, Giorgia Meloni sta parlando, e finalmente eccola. Ecco Maria Elisabetta Alberti Casellati! Blusa verde a ramage assortiti, tipo tappezzeria di divano con rametti e fogliame. Il ministro, con quella blusa e con tutti quei nomi, avrebbe certamente diritto ad almeno tre sedie. Ma purtroppo a destra di Salvini ce n’è soltanto una. E Casellati, che è modesta, si accontenta. Benché in realtà la raggiunga a fatica, quella sedia, considerato il peso della spillona d’oro da circa un quintale a forma di ramarro e ulteriormente gravata (nel peso) da due giganteschi smeraldi e topazi che, ben panciuti, sembrano dei jumbo jet da trasvolata oceanica. Ma di Bulgari.
Dopo mezz’ora, dopo che hanno parlato Salvini e Tajani, Meloni si gira verso destra e dice: “La parola al ministro Casellati”. La quale però, da circa mezz’ora, assorta, teneva il cellulare sotto il banco mandando probabilmente Whatsapp a raffica come quando alla Camera, un anno fa, strappava di mano le schede per l’elezione del presidente della Repubblica a Roberto Fico, e intanto con la mano sinistra compulsava il cellulare per sapere dal suo portavoce (poi cacciato come i precedenti sette malcapitati portavoce): “A quanto stiamo? Quanti voti ho preso”.
Sicché oggi come allora Casellati viene colta di sorpresa. “La parola al ministro Casellati”. Sussulto. Tocca a me? Il ministro afferra i fogli che le sono stati preparati dagli uffici, e comincia a leggere. Casellati legge. E legge. E legge. E poi legge. Passano i minuti. Lei legge. I cronisti sbadigliano. E lei legge. Salvini guarda in aria come cercasse una zanzara. Tajani controlla se ha la scarpa slacciata. Meloni getta un’occhiata discreta al suo orologio da polso. Mantovano si aggiusta la cravatta. Tutto un linguaggio dei corpi, dei segni, degli occhi. Ma il ministro Casellati, detta Betty, non se ne accorge: lei legge. Legge per dieci minuti scarsi, ma sembrano dieci ore. Ogni tanto solleva la testa, guarda la presidente del Consiglio, si aggiusta il ciuffo e… riprende a leggere. D’altra parte la riforma non l’ha scritta lei. Anzi, pare che quando gliela abbiano data si sia messa a brontolare: “Questa riforma è incomprensibile”. Dicono tuttavia che a quel punto un collaboratore assai preparato le abbia fatto notare che teneva il foglio alla rovescia. Al che lei, dopo averlo disposto per il verso giusto, siccome è una persona onesta, ha detto lealmente: “Adesso va un po’ meglio”. E infatti, in conferenza stampa, si capisce che la riforma ora le piace. “Basta con i governi tecnici”, dice. Poi alza lo sguardo verso Meloni, come per chiederle: dico bene, no? “Preserviamo le prerogative del presidente della Repubblica”, aggiunge. E di nuovo alza lo sguardo verso Meloni: giusto, no? Appena termina la lettura dei fogli Casellati si ferma, con un po’ d’incertezza, e subito la parola passa al sottosegretario Leo. Sospiri di sollievo. I giornalisti cominciano a fare le domande. Ce n’è per tutti, tranne che per Casellati. Sicché dopo circa un’ora, Meloni, nel giorno della presentazione della riforma, si ricorda che in effetti lì c’è anche un “ministro delle riforme”. E dunque, mossa forse da umana compassione, la premier dice: “Adesso risponde Casellati”. Ma siccome ella, cioè Casellati, stava di nuovo guardando il cellulare sotto il banco, quando si accorge di avere la parola e prende il microfono ecco che il suo telefonino comincia a dare delle interferenze tali che quasi coprono la sua voce. Ma lei, indomita, afferra il microfono come Orlando il suo corno a Roncisvalle, e proclama: “Sto lavorando per mettere a terra anche la riforma elettorale”. La spillona a forma di ramarro, intanto, per il peso eccessivo, le si è piegata tra il fogliame della blusa. Un ramarro d’oro svenuto. Ed è forse l’unica cosa che in effetti Casellati ha messo a terra.
(da ilfoglio.it)

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OLTRE 200.000 FIRME ALLA PETIZIONE DI FEDEZ PER SALUTE MENTALE E BONUS PSICOLOGO: “FACCIAMOCI SENTIRE”

Novembre 4th, 2023 Riccardo Fucile

L’IMPRENDITORE CHIEDE CHE VENGANO VARATI I DECRETI ATTUATIVI PER IL BONUS PSICOLOGO CHE NON E’ STATO ANORA EROGATO

«In Italia 2 milioni di adolescenti tra i 10 e i 20 anni soffrono di disturbi mentali. Un numero enorme pari al 20% della Gen Z, cioè di tutti i nati tra il 1997 e il 2012». Inizia così il messaggio che accompagna la petizione della fondazione Fedez per chiedere allo Stato italiano di aumentare i fondi destinati alla salute mentale, oltre al varo del decreto attuativo per il bonus psicologo che non è ancora stato erogato ai richiedenti del 2023.
Infatti, «l’Italia, destinando alla salute mentale poco più di 60 euro per cittadino, si colloca fra gli ultimi posti in Europa», si legge ancora nella petizione lanciata l’1 novembre e già arrivata ad oltre 200 mila firme che l’imprenditore ha annunciato sulle proprie storie Instagram, dopo averla anticipata a fine ottobre: «Facciamo sì che la salute mentale diventi una priorità del dibattito di questo Paese, visto che se ne parla pochissimo. Facciamoci sentire!».
«Nel 2022 è stato previsto il ‘bonus psicologo’, un contributo economico per sostenere le spese relative alle sessioni di psicoterapia. Il totale stanziato era di 25 milioni di euro», continua il testo della fondazione dell’influencer da tempo attento alle questioni di salute mentale e del bonus psicologo.
I decreti attuativi
«Secondo il rapporto annuale 2023 dell’Inps, su circa 395 mila domande presentate per accedere al ‘bonus psicologo’, il 99% rispondeva ai requisiti di ammissibilità. Solo il 10,5% però è stato finanziato: circa 41.600 domande. Nel 2023 l’attuale Governo ha stanziato 5 milioni di euro per l’anno in corso e 8 milioni di euro per ogni anno dal 2024 in poi», ricorda ancora la fondazione Fedez e torna a segnalare: «Inoltre ciò che manca in questo momento è il decreto attuativo di questa misura che, se non varato nei prossimi due mesi, rischia di vanificare l’operazione facendo confluire i fondi previsti nel bilancio generale dello Stato. Con questa petizione noi chiediamo dunque al governo che vengano varati i decreti attuativi rispetto al bonus psicologo e che, in generale, ci sia un impegno a stanziare maggiori fondi per la salute mentale. È ora che il benessere psicologico di tutti, e dei nostri ragazzi in particolare, diventi una priorità per questo Paese», conclude il testo della petizione, dal nome La salute mentale riguarda tutti.
(da agenzie)

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GIULIANO AMATO CONTRO IL PREMIERATO: “INDEBOLISCE LE CAMERE E IL QUIRINALE”

Novembre 4th, 2023 Riccardo Fucile

“MELONI SCEGLIERA’ UNA SOLUZIONE MENO RISCHIOSA”

Il presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato critica il premierato. «Questa riforma costituzionale cambia radicalmente il nostro sistema di governo fondato sul Parlamento. Tecnicamente è un vero sconvolgimento che ha l’effetto di indebolire le Camere e di prosciugare il Capo dello Stato nella sua figura di garanzia», dice in un’intervista a la Repubblica.
Secondo Amato il Quirinale è il più minacciato dalla riforma: «Se due cariche si siedono una davanti all’altra, l’una con mandato popolare l’altro senza, sarà la prima a essere preminente sulla seconda».
Ma nel colloquio con Simonetta Fiori Amato si dice ottimista: «Penso che persone politicamente addestrate come Meloni scelgano alla fine soluzioni che le espongano a minori rischi. E quando capiscono che la ragione identitaria potrebbe condurli a un referendum preferiscono imboccare una strada più ragionevole».
«Ma è possibile che in Parlamento non si riesca a convenire su un premierato alla tedesca?», si chiede l’ex premier. «In questo modo si potrebbe rafforzare la posizione del presidente del Consiglio senza modificare l’architettura di fondo del nostro sistema parlamentare».
Poi arriva il pronostico: «Il testo come è stato approvato non avrà la maggioranza parlamentare dei due terzi. Quindi non potrà evitare il referendum confermativo. La vittoria del No diventerebbe una sconfitta politica che pare davvero imprudente subire. Diversamente, un disegno di legge approvato all’unanimità o quasi non esporrebbe a quel rischio che ha colpito in passato Berlusconi e Renzi».
Parlando dell’Autonomia, invece, «se passasse anche quella riforma, avremmo un’Italia squilibrata da più punti di vista. Allo squilibrio istituzionale si aggiungerebbe un più accentuato squilibrio regionale, tra regioni iperfinanziate e regioni sottofinanziate».
(da agenzie)

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PATRIZIA SCURTI: CHI E’ LA SEGRETARIA DI GIORGIA MELONI CHE HA PASSATO LA TELEFONATA FAKE

Novembre 4th, 2023 Riccardo Fucile

LAVORA CON LEI DA 18 ANNI

Patrizia Scurti è la segretaria particolare di Giorgia Meloni. Negli anni si è guadagnata l’appellativo di «la mia padrona» (glielo ha dato la premier) e de «la sua Kissinger» (Il Foglio).
Scurti, racconta oggi Repubblica, ha «autorizzato» la telefonata fake di Vovan & Lexus. I consiglieri diplomatici di Palazzo Chigi si sarebbero «fidati del suo via libera», anche se in realtà, come si è spiegato nei giorni scorsi, all’Ufficio competeva sia il primo controllo che quello successivo richiesto dalla premier.
All’epoca delle dimissioni di Mario Sechi da portavoce si parlò di contrasti proprio con Scurti. Il suo stipendio ammonta a quasi 180 mila euro l’anno (lordi). E il Fatto Quotidiano oggi scrive che Meloni avrebbe ottenuto le dimissioni di Francesco Talò anche per evitare che il caso si allargasse al suo staff.
Il marito caposcorta
Scurti lavora per Meloni da 18 anni. Segnalata da Gianfranco Fini dopo che Donato La Morte l’aveva “scoperta”. Secondo un retroscena di Repubblica Fini convocò Meloni per dirle che l’aveva proposta come vicepresidente della Camera ma la pregò di «accollarsi» Scurti. Attualmente lei gestisce l’agenda, filtra gli incontri e vi partecipa, da Biden a Xi Jinping. Il suo ufficio si affaccia su Piazza Colonna. E segue anche la dieta della premier.
La sua risposta preferita è «già fatto» perché in molti la descrivono come un mostro di efficienza. Suo marito fa il caposcorta della presidente del Consiglio. Sul profilo Whatsapp ha l’immagine di lei abbracciata a Meloni. Solo Alfredo Mantovano può parlare a tu per tu con la premier senza la sua mediazione. Chi fa paragoni la mette a confronto con Vincenza Enea, storica segretaria particolare di Giulio Andreotti, o Marinella Brambilla per Silvio Berlusconi.
L’acqua per Giorgia
Il Corriere della Sera racconta che Scurti ha anche un’altra capacità particolare. È in grado di comprendere quando Meloni ha bisogno di acqua: «Patrizia sa prima di Giorgia che Giorgia starà per tossire e si premurerà di farle trovare davanti un bicchiere d’acqua».
Nella pagina del sito ufficiale del governo dedicata alla trasparenza viene definita “capo della segreteria particolare” della presidente del Consiglio dei ministri. A differenza di altri componenti dello staff, per lei non c’è un collegamento ipertestuale. Di lei non si conoscono data né luogo di nascita. Non si conoscono dettagli sul titolo di studio. La nipote Camilla Trombetti, che è nata nel 1989, da consulente dell’Ufficio studi di Fratelli d’Italia è passata alla segreteria particolare del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari. Ma ha anche vinto un concorso da assistente parlamentare.
L’esperienza sul campo
Secondo Il Fatto a Scurti si contesta da più parti la mancanza di esperienza sul campo. Non ha dirette responsabilità nella vicenda della telefonata fake. Ma un segretario particolare di un capo di governo non dovrebbe inoltrare una mail all’ufficio diplomatico con questa facilità, spiegano le fonti interpellate.
Il ministro degli Esteri Tajani ha parlato di «sciatteria e superficialità» proprio per tutelare l’onorabilità degli altri diplomatici italiani. E da quegli ambienti ora si biasima anche la scelta di addossare tutta la responsabilità a Talò. Mentre da qualche tempo si critica anche la decisione di non condividere con nessuno l’agenda della premier. Questo è stato il motivo dell’addio di Sechi, secondo il quotidiano.
La prima volta
Scurti è anche l’unica che partecipa (insieme a consiglieri diplomatici ed eventuali traduttori) a tutti gli incontri e i bilaterali istituzionali con gli omologhi europei e del mondo. Anche con quello con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky il 21 febbraio scorso. «È la mia padrona», ha detto di lei Meloni. A Palazzo Chigi sono ancora più chiari: «Decide qualunque cosa: dalle nomine allo staff fino agli appuntamenti della premier», spiega al quotidiano un funzionario della Presidenza del Consiglio. Nel suo libro Io sono Giorgia, Meloni ha scritto che Scurti «non sbaglia mai». Ma c’è sempre una prima volta. O no?
(da agenzie)

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