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SONDAGGIO GHISLERI: SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE E’ D’ACCORDO SOLO IL 39% DEGLI ITALIANI, MENO DELLA MAGGIORANZA DI ELETTORI DI CENTRODESTRA

Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile

A MOLTI PREOCCUPA CHE IL CAPO DELLO STATO PERDA IL SUO RUOLO DA “ARBITRO”…BOCCIATURA PER IL GOVERNO SULLA MANOVRA: OK SOLO PER TRE ELETTORI SU DIECI CON I LEGHISTI MOLTO PIU’ FREDDI DEGLI ALLEATI—IL 70% DEGLI ITALIANI NON CREDE CHE QUESTA LEGGE DI BILANCIO POSSA RISOLVERE I PROBLEMI ECONOMICI

Si annuncia come un vero cambiamento epocale la riforma costituzionale approvata dal Consiglio dei ministri durante la seduta di venerdì scorso. Questa riforma, definita dalla premier «la madre di tutte le riforme», non appare tra le priorità degli italiani che appaiono tiepidi sui possibili risvolti.
Ciò che piace di più è sicuramente lo scioglimento delle Camere in caso di mancanza di fiducia del Parlamento al premier eletto, evitando così governi di passaggio e di “curiose” alleanze come quelle a cui abbiamo assistito in passato.
Il 43,4% esprime un giudizio favorevole alla possibilità che il capo dello Stato assegni un nuovo incarico solo allo stesso premier eletto alle urne o a un parlamentare della maggioranza che ne attui il programma votato dagli elettori, per ostacolare possibili ribaltoni.
Anche lo stop alla nomina di nuovi senatori a vita da parte del presidente della Repubblica trova un 40,7% di sostenitori.
Ciò che invece spacca nettamente l’opinione pubblica è l’elezione diretta del premier (39,2% a favore e 38,6% contrari). Sicuramente il modello “Sindaco d’Italia” piace perché offre la possibilità al cittadino di scegliere direttamente il suo leader, offrendo anche maggiori garanzie alla formula di governo. Di contro questa nuova norma potrebbe limitare i poteri dell’arbitro super partes, il presidente della Repubblica, cambiando gli equilibri della nostra Costituzione.
In questo rincorrersi di richiami sui possibili nuovi assetti degli equilibri istituzionali, il pensiero della gente rimane tuttavia costantemente incentrato sulle difficoltà che incontra nella sua quotidianità. La necessità di rimarcare continuamente i propri confini identitari da parte dei partiti di governo li pone al cospetto degli elettori non tanto sulla riforma costituzionale, ma piuttosto in un confronto serrato sulla manovra fiscale, che trova il sostegno di tre italiani su dieci (27,7%), così come è stata presentata e per quello che è stato reso pubblico. Tra i maggiori sostenitori si registrano gli elettori di Giorgia Meloni (79,2%) e di Forza Italia (61,6%). Più severi i leghisti di Matteo Salvini che si distinguono dagli alleati con un più freddo 46,4% di condivisione e un 29,2% di disapprovazione.
Tra le opposizioni in un comune canto di bocciatura emergono gli elettori di Carlo Calenda che, per un 25,9%, trovano alcuni spiragli positivi nelle proposte del governo. Anche le nuove indicazioni e correzioni emerse nel testo della Manovra, rispetto alle prime bozze pubblicate, vanno nella direzione desiderata per un italiano su quattro (25,2%).
Analogamente la soddisfazione per gli interventi al testo della proposta originale coinvolge positivamente il 65,8% degli elettori di Fratelli d’Italia e il 55,9% di quelli di Forza Italia e, anche in questo caso, il popolo della Lega si dichiara soddisfatto con uno stringato 49,5%, mentre per il 30,3% la delusione rimane ancora un punto fermo.
Forse in campagna elettorale si è andati over promise, cioè oltre le reali possibilità di azione, perché alla fine le risorse con cui la maggioranza si è trovata a fare i conti si sono dimostrate scarse e ancora più risicato è risultato il tempo rimasto a disposizione per poter agire. L’opinione pubblica si sente così protagonista di una realtà parallela, perché, se da una parte assiste al racconto delle mosse del governo per presentare la Manovra e le diverse indicazioni sulle nuove possibili regole a cui attenersi, dall’altra sente viva la necessità di decifrare la strada per risolvere quelle sue esigenze che si possono definire “spicciole” e che riguardano la vita di tutti i giorni.
Tuttavia, sono proprio le richieste più semplici che muovono le scelte dei cittadini, perché per molti rappresentano proprio la sopravvivenza. Circa l’83,1% delle famiglie che hanno presentato dichiarazione Isee nel 2022 (10.762.242) sono al di sotto della soglia dei 25 mila euro annui (fonte Inps) e quindi è facile comprendere che sono molti i cittadini che richiedono un sostegno. La presa di coscienza nell’ambito dell’esperienza materiale non è sempre possibile testarla con i sondaggi, ma la percezione, le paure, la disponibilità dell’intuizione sulla base di quanto comunicato e presentato nei contenuti e dei suoi possibili risvolti, assolutamente sì. In effetti il nodo è proprio riuscire a trovare dei punti di incontro tra questi due fronti nella distinzione tra un mondo fisico e uno fenomenico. Così se è previsto che nel 2024 l’Iva sul latte in polvere e liquido per i bambini, sui pannolini e sugli assorbenti aumenterà al 10%, che quella dei seggiolini per auto arriverà al 22%, che si avrà un aumento delle accise sulle sigarette… La legge di Bilancio del governo sembra tracciare un percorso molto lontano, se non contrario, rispetto a quanto promesso un anno fa e se vogliamo in tutti gli anni di opposizione di Giorgia Meloni.
Anche in tema di pensioni la tanto vituperata legge Fornero non sarà risolta e forse proprio per questo si registra uno scontento tra le fila dell’elettorato leghista. Insomma, i tempi sono proprio cambiati e il momento delle facili promesse ha ceduto il passo alla presa di coscienza di una realtà assai più complicata. L’inflazione e l’aumento dei prezzi sono sempre in cima alle classifiche delle priorità della gente, insieme ai temi inerenti alla sanità pubblica in tutte le sue declinazioni (come accesso, tempi, liste di attesa, costi), al lavoro, al salario e alle pensioni.§
Il richiamo non è solo per la maggioranza, anche le opposizioni sono sollecitate a saper offrire alternative valide e strutturate. Del resto, quasi il 70% dei cittadini è convinto che non ci sarà alcun impatto o influenza importante di questa Manovra sulle condizioni di economiche della propria famiglia. Insomma, si avverte che il mood che si respira è in larga parte ancora pessimista.
(da La Stampa)

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GAZA E L’INFANZIA RUBATA

Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile

SONO GIA’ MORTI 3.600 BIMBI PALESTINESI: CHI RESTA CRESCE TRA IL DOLORE E IL CULTO DEL MARTIRIO

Dal 2008 al 6 ottobre 2023, secondo quanto riferito, 1.434 bambini palestinesi sono stati uccisi, con altri 32.175 feriti, principalmente per mano delle forze di occupazione israeliane. Di questi, 1.025 bambini sono stati uccisi nella sola Gaza
Oggi, a quasi un mese dall’inizio della guerra, la quinta in quindici anni, ne sono già morti circa tremilaseicento.
I numeri sulle conseguenze sui bambini palestinesi negli ultimi 15 anni sono riassunti dall’ultimo rapporto della Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, Francesca Albanese.
Tra il 2019 e il 2022, 1.679 bambini palestinesi e 15 bambini israeliani hanno subito lesioni fisiche permanenti – si legge nella relazione -. Si stima che ogni anno una media di 500-700 bambini palestinesi siano detenuti dalle forze di occupazione israeliane, con una stima di 13.000 per lo più detenuti arbitrariamente, interrogati, processati in tribunali militari e imprigionati dal 2000.
«L’inferno di oggi non può oscurare la violenza degli ultimi decenni -scrive Albanese -. Per affrontare la crisi, è imperativo comprendere cosa l’ha provocata. Ciò non significa giustificare o minimizzare gli atroci crimini contro i civili israeliani del 7 ottobre; piuttosto ci costringe ad affrontare quell’orrore nel contesto di ciò che lo ha preceduto».
Per capire il contesto, ci aiutano i numeri.
Delle due milioni di persone che abitavano la Striscia prima della guerra, circa la metà è composta da minori, e avere tredici, quattordici, quindici anni, a Gaza, oggi, significa che tutto ciò che si conosce è il regime di Hamas, il blocco israeliano, e un ciclo di guerre, macerie e ricostruzioni. A Gaza, chi oggi è un adolescente, non ha mai sperimentato nient’altro. Tutto quello che conoscono è questa piccola striscia di terra in un ciclo infinito di violenza e morte. Cattività mista a sentimento di vendetta, gli ingredienti che rendono fertile il terreno della radicalizzazione.
È questa una delle chiavi con cui leggere oggi il conflitto in corso. Immaginando, sperando, che la guerra finisca domani, da dove partire per spezzare il circolo vizioso della ferocia. Da dove partire per interrompere l’automatismo che ha reso la violenza l’unica risposta alla violenza? E prima ancora: cosa non è stato fatto nelle guerre precedenti, quando è cessato il fuoco e il conflitto sembrava finito ma evidentemente non lo era?
Nel 2016, a meno di due anni dalla fine della guerra che nell’estate del 2014 aveva devastato la Striscia di Gaza, l’Ocha, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Azioni Umanitarie, aveva organizzato una conferenza sul rischio di radicalizzazione giovanile.
Il combinato dell’insicurezza, la cattività e i bisogni umanitari non soddisfatti, dicevano i funzionari Onu, stavano creando le condizioni per l’estremizzazione delle giovani generazioni.
I delegati partivano da un dato: nel 2016, dato che la libertà di movimento era praticamente inesistente, il 90% dei 260.000 studenti delle scuole gestite nella Striscia dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, non aveva mai lasciato la Striscia di Gaza in tutta la loro vita
«Quando guardo alla regione, avverto il rischio di radicalizzazione dei giovani disperati», aveva detto Pierre Krähenbühl, Commissario Generale dell’Unrwa, «penso a Gaza, alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, dove il governo militare e l’occupazione definiscono ogni aspetto della vita pubblica e privata, dalle restrizioni di movimento alle demolizioni punitive di case e all’espansione illegale degli insediamenti. Non c’è modo di quantificare il costo umano cumulativo dell’occupazione». Alle preoccupazioni si sposavano gli appelli alla comunità internazionale, l’Unrwa versava già in una profonda crisi economica, le risposte dei donatori e dei governi erano già fortemente lacunose e tradotto nella vita quotidiana dei cittadini e dei bambini significava meno accesso a beni di prima necessità, meno scuole, in una parola meno speranza nel futuro in un’area in cui il tasso di disoccupazione giovanile arrivava già al 60%. Gli appelli alle donazioni sono rimasti pressoché inascoltati, e i sottofinanziamenti hanno piegato sempre di più la popolazione, perché l’Unrwa, a Gaza in particolare, non è solo un’agenzia umanitaria, ma è un’arteria della vita dei palestinesi che, da quegli aiuti, dipendono quasi interamente.
I dati e le statistiche sull’infanzia dei bambini palestinesi a Gaza e in Cisgiordania sono una preoccupante fotografia del presente e dovrebbero essere un allarmante richiamo per il futuro. L’ultimo report di Save the Children, di pochi giorni fa, tiene insieme i dati pre-guerra e quelli attuali. I Territori Palestinesi Occupati – scrivono i ricercatori – rientrano nella lista dei 10 Paesi peggiori in cui vivere per i bambini. Basti questo paragone: nel 2021 l’Afghanistan e i Territori Palestinesi Occupati hanno registrato il più alto numero di bambini uccisi o mutilati a causa di un conflitto. «La situazione economica, sociale e politica di oltre cinquant’anni di occupazione da parte di Israele, sommate ai conflitti in corso, hanno continuato ad avere gravi implicazioni per i minori», si legge nel rapporto: complessivamente in tutti i Territori palestinesi occupati, due milioni e mezzo di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria, un milione e duecentomila sono bambini. Nella Striscia di Gaza la situazione, anche prima della guerra, era allarmante, soprattutto dal punto di vista sanitario. I bambini che avevano bisogno di cure mediche dovevano richiedere un permesso speciale per lasciare la Striscia e, nei primi sei mesi del 2023, 400 bambini nella sola Gaza, non hanno potuto ricevere le cure di cui avevano bisogno in Cisgiordania.
Due bambini al giorno impossibilitati a curarsi per malattie gravi, croniche. Nessuna visita specialistica, nessun intervento chirurgico, nessun accesso ai farmaci urgenti o salvavita.
Non va meglio in Cisgiordania, dove più di un milione di bambini non ha libertà di movimento. Una mobilità ostacolata dai check-point israeliani, dalle restrizioni, dalle minacce regolari da parte dei coloni, dal timore di violenze ai posti di blocco. Dal terrore degli arresti. Secondo gli ultimi dati di Save the Children, nelle carceri israeliane sarebbero trattenuti dai 500 ai 1000 minori, quasi la metà ferita al momento dell’arresto. Non va meglio all’istruzione. Mezzo milione di bambini e bambine palestinesi non ha accesso a un’istruzione di qualità. Le scuole rischiano di essere demolite, le attrezzature confiscate, spesso le forze armate israeliane fanno irruzione nei pressi o all’interno degli istituti scolastici usando lacrimogeni. Più di 80 scuole in Cisgiordania devono affrontare la presenza quotidiana delle forze israeliane, e più di 58 scuole sono attualmente sottoposte a un ordine di demolizione o di interruzione delle attività. Tradotto nella vita quotidiana dei bambini palestinesi significa un aumento costante dell’abbandono scolastico.
Per motivi diversi – l’assedio, le guerre, il regime di Hamas, a Gaza, la violenza dei coloni e le limitazioni alla mobilità in Cisgiordania – una generazione di giovani palestinesi sta crescendo, perdendo fiducia nel valore della politica, del compromesso e della diplomazia e degli aiuti internazionali
Una generazione che cresce in un’intermittenza di guerre.
I conflitti irrisolti non solo non si sono dissipati con lo scorrere del tempo, ma si sono aggravati in assenza di soluzioni giuste.
Probabilmente anche questa guerra, come le precedenti, dimostrerà che non esiste una soluzione militare al problema di Gaza, perché il problema di Gaza non è solo eradicare Hamas, il suo braccio armato, e l’organizzazione del potere, della burocrazia e del welfare che ha espresso nella Striscia per sedici anni. Trovare una soluzione per Gaza e per la sicurezza dello Stato di Israele significa trovare la formula per spezzare il circolo vizioso della violenza. Ogni scontro negli ultimi quindici anni, ogni nuovo ciclo di attacchi, ha spinto un numero crescente di giovani verso le frange radicali e gruppi estremisti.
E, d’altro canto, una vita di privazioni e stenti, trascorsa tra il vivere la guerra e cercare di dimenticarla, tra il piangere i morti e il culto del martirio che ne deriva, ha storicamente portato a fomentare nuovi cicli di radicalizzazioni.
Salvare i bambini palestinesi dall’esposizione al rischio di estremismi è la sfida della comunità internazionale ma anche la sfida interna allo stato di Israele che sta pensando oggi a combattere un nemico nel presente, senza chiedersi cosa sarà di Gaza domani, quale sarà il futuro della Striscia, come evitare che si sia un’altra generazione che associ la vita quotidiana alla guerra, alla morte e alla vendetta.
(da agenzie)

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AL SERVIZIO DELLE LOBBY: IL MELONIANO FEDERICO VECCHIONI, A CAPO DI UNA HOLDING LEADER NEL SETTORE DELL’AGRO-ALIMENTARE, HA DECISO DI INVESTIRE NELLA SOCIETÀ EDITRICE ITALIANA DI MAURIZIO BELPIETRO CHE PUBBLICA “LA VERITÀ” E “PANORAMA”

Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile

LA “SEI”, CHE NAVIGAVA IN BRUTTE ACQUE, STAVA PER ESSERE “SALVATA” DA ANTONIO ANGELUCCI, EDITORE DEL “GIORNALE” E “LIBERO”, CHE COLTIVA IL SOGNO DI DIVENTARE EDITORE UNICO DEL CENTRODESTRA

C’è un nuovo volto nell’editoria della destra italiana che in modo felpato, come da stile della casa, è entrato nella partita giusto in tempo per evitare il monopolio targato Antonio Angelucci, editore di Libero e da poco anche del Giornale dei Berlusconi.
Il volto nuovo è quello di Federico Vecchioni, che magari al grande pubblico dice poco, ma che invece nei salotti degli imprenditori dell’agroalimentare e della finanza è molto noto, perché guida una holding da 1,1 miliardi di euro.
Vecchioni ha deciso d’investire nella Società editrice italiana (Sei) di Maurizio Belpietro che pubblica tra le altre testate La Verità e Panorama: salvando la Sei da acque agitate e soprattutto dal mare aperto, dove era pronto a intervenire in “soccorso” proprio Angelucci, che coltiva il sogno di diventare editore unico del centrodestra.
Una sorta di Re Sole del populismo spinto che piace molto a Matteo Salvini (Angelucci è anche un deputato della Lega), molto meno a Giorgia Meloni, che non ama essere “costretta” ad avere a che fare solo con un editore. E che non a caso dicono che abbia gradito molto la scelta di Vecchioni, sperando adesso in una linea editoriale del gruppo di Belpietro più vicina ai temi cari a FdI.
Il sogno di Angelucci comunque al momento si è infranto: non a caso si parla molto in casa Lega di una telefonata, fatta da Angelucci dalle parti di Vecchioni, a dir poco dai toni accesi, con frasi del tipo: «ma che fai, ti metti a fare l’editore adesso?».
Vecchioni è da tre anni amministratore della Bf spa, un colosso che ha al suo interno altre grandi aziende e gruppi come Bonifiche ferraresi e i Consorzi agrari (molti dei quali legati a Coldiretti, associazione molto vicina oggi a Lollobrigida): un gruppo quotato in Borsa che sotto la sua guida è passato da 269 milioni di valore della produzione nel 2021 a 1,1 miliardi di euro con un incremento del 300 per cento.
Il manager, con capitali suoi e non con Bf spa, insieme a degli altri imprenditori a lui vicini ha creato la Newspaper spa e ha ricapitalizzato la Sei di Belpietro immettendo 2,5 milioni di euro per coprire anche le perdite del 2022. Divenendo il secondo azionista dopo lo stesso Belpietro.
A Repubblica spiega perché ha deciso di entrare nel mondo dell’editoria: «Sono amico da tempo di Belpietro, ne apprezzo la capacità professionale, l’indipendenza di giudizio e la dirittura morale — dice — il giornale da lui fondato e diretto da sempre si occupa di questioni agroalimentari (il gruppo edita anche Sale&Pepe e Starbene, ndr) con una linea politica e di contenuti che condivido».
Ma c’è anche un’altra motivazione: «Mi è parso ovvio sostenere l’indipendenza editoriale del suo gruppo e la sua opera imprenditoriale e giornalistica con un investimento personale e di alcuni amici. Credo che la pluralità dell’informazione sia un bene per il Paese e migliori la sua vita democratica».
(da agenzie)

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RATE IN RITARDO E PROGETTI CANCELLATI: IL PNRR E’ GIA’ UN FALLIMENTO

Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile

CON I TAGLI E LE REVISIONI OPERATE DA FITTO E’ DIVENTATA UN’OPERAZIONE DI MANUTENZIONE

Progetti per la sicurezza stradale in ritardo, interventi contro il dissesto idrogeologico rinviati, riqualificazioni delle città e delle periferie in sospeso. E questi sono solo alcuni esempi, che fissano una certezza: se il Pnrr era stato pensato per l’Italia come una piccola grande rivoluzione, sociale, economica e ambientale, allora si può già decretare il sostanziale fallimento. Se andrà in porto, si vedrà fino al 2026. Ma sarà un’operazione di manutenzione tecnica dell’ordinario o poco più, i cambiamenti radicali sono una bandiera ammainata. La terza rata è arrivata, a ottobre, in forte ritardo. Per la quarta bisognerà attendere qualche altro mese, quasi sicuramente l’inizio 2024 per incassarla. Dall’inner circle del ministro del Pnrr, Raffaele Fitto, si fa professione di ottimismo: «La trattativa con l’Unione europea procede proficuamente, il confronto è positivo». Nessuno si sbilancia sulla tempistica. Una piccola speranza è affidata alla spinta sul Repower Eu per qualche investimento green.
Gli ultimi dati, riportati dall’associazione Openpolis, annotano che all’appello mancavano ancora 11 scadenze previste per il primo semestre del 2023. Bruxelles deve valutare voce per voce lo stato di attuazione prima di far partire il bonifico della quarta rata. Muoversi nel groviglio di definanziamenti, rimodulazioni e conferme è un’operazione complicata. La stima, fatta da Openpolis, è di un taglio complessivo di 42mila progetti, piccoli o grandi, inizialmente inseriti tra quelli finanziati dal Piano.
PIANO DI TAGLI
L’impatto territoriale si muove su due livelli. Le conseguenze maggiori riguardano le metropoli, sottolinea ancora Openpolis. Roma avrebbe perso almeno 229,5 milioni di euro, Milano 168,7 milioni e Genova 146,6 milioni. Sono stime, per qualcuno addirittura al ribasso. Di sicuro solo per la quinta rata la cabina di regia di Palazzo Chigi ha ridotto gli obiettivi da 69 a 51. Sono numeri in apparenza aridi e astratti, ma significano meno interventi contro il dissesto idrogeologico, tema tornato di attualità dopo il maltempo che ha flagellato la Toscana, riduzione dei lavori per la riqualificazione urbana, con cantieri per lo sviluppo di centri sportivi e poli culturali, e calo investimenti per il rilancio delle periferie.
Il mantra del governo non cambia: saranno indicati canali di finanziamenti alternativi, attingendo da altri capitoli di spesa. Nella manovra non c’è traccia di questa operazione. Ancora oggi non viene specificato da dove verranno reperite le risorse. Al centro-nord, infatti, non si possono usare i fondi di coesione, che devono andare per l’80 per cento al Mezzogiorno, già pesantemente colpito dai definanziamenti nel Pnrr. La coperta è corta.
POCA SICUREZZA
C’è un altro capitolo che denota i ritardi su più livelli: l’attuazione del Piano nazionale complementare (Pnc), che mette a disposizione altri 30 miliardi di euro collegati al Pnrr. L’ultimo report della Ragioneria dello stato evidenzia un rallentamento. «Rispetto alla situazione registrata nei trimestri precedenti, un maggiore ritardo nel rispetto delle scadenze. Il 39 per cento degli obiettivi del secondo trimestre 2023, infatti, risulta non conseguito», si legge nel documento. Tra questi spiccano i lavori per la sicurezza stradale, in particolare l’adeguamento di ponte e viadotti, che hanno una dotazione di 640 milioni di euro. Il ministero delle Infrastrutture di Matteo Salvini non ha centrato l’obiettivo, almeno fino al termine del primo semestre 2023, così come non ha attivato la strategia per lo sviluppo delle aree interne
Il ministro Fitto deve barcamenarsi su vari fronti, facendo i conti con le scadenze che vanno oltre i limiti fissati e con le pressanti richieste di Bruxelles. Fino a qualche mese fa, però, Palazzo Chigi poteva addebitare le responsabilità «agli altri», a quelli che c’erano prima, come nella consolidata tradizione meloniana. La revisione è stata pensata e attuata da questo governo, tagliando qua e là obiettivi e quindi centinaia di progetti.
Tra i capitoli in sospeso ci sono i lavori sulla distribuzione dell’acqua per migliorare lo stato delle condutture, l’efficientamento energetico dei musei e più in generale dei centri culturali, così come i contratti per la costruzione di istituti scolastici. E ancora: sulla sanità c’è stata una contrazione dell’offerta. Le case di comunità (centri polivalenti per garantire servizi di prima assistenza) finanziate con il Pnrr sono scese da 1.350 a 936, gli ospedali di comunità sono calati da 400 a poco più di 300. I ritardi hanno una ragione politica. «Il governo ha perso molto tempo per il cambiamento della governance, spostando le competenze dal ministero dell’Economia a Palazzo Chigi. Questo ha richiesto molti mesi, di fatto sono partiti in estate, tra giugno e luglio», spiega a Domani il senatore del Pd, Alessandro Alfieri, che ha la delega per seguire l’attuazione del Recovery plan. «I rallentamenti – aggiunge – hanno riguardato anche le riforme, come quella della giustizia e soprattutto sulla concorrenza. Basti pensare alla vicenda dei balneari».
POCA TRASPARENZA
Nemmeno la trasparenza è un fiore all’occhiello del Pnrr. Sembra un argomento minore, ma non lo è. Le amministrazioni locali sono state escluse dalle decisioni assunte a Palazzo Chigi, e infatti hanno subito taglio plurimiliardari, da Fitto che ha accentrato tutte le operazioni in asse con la premier Meloni. «C’è un rilascio dei dati sul sito Italia domani, la situazione è appena lievemente migliorata. Ma non c’è stata alcuna intenzione di ascoltare la società civile sul capitolo delle riforme», dice Federico Anghelè, direttore di The good lobby che si batte per una maggiore efficienza dei meccanismi decisionali. «La convocazione nella cabina di regia spetterebbe di diritto, ma il ministro Fitto non ha dato seguito alle richieste», aggiunge Anghelè, in riferimento a una norma inserita nel terzo decreto sulla governance del Pnrr.
E dire che il Piano, dietro la sua sigla algida e quasi criptica, era immaginato come un piccolo Eden tricolore. Prometteva asili nido, una maggiore inclusione sociale, una sanità vicina ai cittadini, la riduzione del divario territoriale e del gap di genere, più alloggi per gli studenti universitari. Forse era troppo, certo. Adesso si rasenta il troppo poco.
(da editorialedomani.it)

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PREMIERATO, PER EVITARE IL REFERENDUM CACCIA A 21 DEPUTATI E 14 SENATORI DELL’OPPOSIZIONE

Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile

SERVE IL SI’ DELLA MAGGIORANZA DEI DUE TERZI DELLE CAMERE: 267 VOTI ALLA CAMERA, 136 AL SENATO

Il premierato stabilito dalla riforma costituzionale approvata dal Consiglio dei ministri non diventerà legge in tempi brevi. L’iter di approvazione delle riforme della Costituzione prevedono un iter più lungo e con una maggioranza più ampia delle leggi ordinarie. Soprattutto, per scongiurare l’incognita del referendum confermativo, serve il sì della maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna delle due Camere. Per la maggioranza di centrodestra questo significa (ammesso che Italia Viva voti la riforma) andare a conquistare almeno 21 deputati e 14 senatori nelle fila delle opposizioni. Compito non facile, ma neanche impossibile.
L’iter rafforzato
Dopo l’approvazione del testo da parte del Consiglio dei ministri, ogni legge costituzionale deve passare per due letture da parte di entrambi i rami del Parlamento, a distanza di almeno tre mesi tra una lettura e l’altra, e a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Ma questo può non bastare. Se le Camere nella seconda votazione non registrano il sì con la maggioranza dei due terzi dei loro componenti, il testo (entro tre mesi dalla pubblicazione), può essere sottoposto a referendum confermativo (ma senza quorum del 50% dei votanti) se ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
I numeri
I due terzi dei componenti necessari per evitare il referendum confermativo, significano raggiungere quota 267 voti alla Camera e 136 voti al Senato. Al momento il centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia più alleati minori) ha 238 seggi a Montecitorio e 116 a Palazzo Madama, ai quali però vanno sottratti i voti dei due presidenti delle Camere (Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa) che per prassi non partecipano alle votazioni. Aggiungendo anche Italia Viva (che non ha chiuso le porte alla riforma) si sale a quota 246 alla Camera e a quota 122 al Senato. Questo significa dover conquistare 21 deputati e 14 senatori tra l’opposizione. Si potrebbe provare a convincere i parlamentari delle minoranze linguistiche e dei partiti/movimenti autonomisti (5 alla Camera e 6 al Senato) ma non si raggiungerebbe comunque quota due terzi. Compito molto difficile, dato il no netto di Pd, M5S, Alleanze Verdi Sinistra, e Azione. Ma non impossibile.
(da ilsole24ore.com)

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MANOVRA MIOPE E MEDIOCRE

Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile

COSI’ MELONI DA’ PROVA DI ESSERE LA QUINTESSENZA DEL TRASFORMISMO

Manovra finanziaria poco immaginativa e mediocre. Ecco come descrivere la prima grande prova del governo Meloni, governo guidato, ricordiamolo, da una leader eletta dal popolo. Certo, questa è l’ennesima delusione per chi aveva creduto che la prima donna presidente del Consiglio avrebbe dato non una scossa ma un vero scossone alla politica delle lobby, tutte interconnesse con la partitocrazia italiana.
Per chi l’aveva paragonata alla signora Thatcher, prima donna a capo del governo britannico, la delusione deve essere ancora più forte. Giorgia Meloni non è la signora di ferro. Al contrario ha dimostrato di essere la quintessenza del trasformismo italiano, una malattia che ci portiamo dietro dai tempi di Giolitti, e che rende i grandi cambiamenti pressoché impossibili. E così la manovra finanziaria di Giorgia, lungi da dare un segno chiaro e forte dei cambiamenti promessi in campagna elettorale, non è altro che l’ennesima finanziaria miope, priva di qualsiasi visione di lungo periodo.
Manca una strategia di crescita per un paese che stagna da decenni. Non c’è menzione della ristrutturazione manifatturiera in chiave verde e digitale; niente proposte per combattere il turismo eccessivo o per salvaguardare quello sano, essenziale per la bilancia dei pagamenti; nulla si dice sullo sviluppo scientifico e sulla ricerca, settori ormai quasi inesistenti in Italia; non una riga è stata spesa per salvaguardare il capitale umano, per incoraggiare i giovani a non emigrare; infine si è abilmente evitato di menzionare il cronico problema della povertà, 5 milioni di famiglie in povertà assoluta, pari a circa 15 milioni tra adulti e bambini, un serbatoio umano in perdita netta
Con queste premesse la manovra finisce per essere l’ennesimo rimpasto di tasse e spese per tirare avanti un altro anno, poi si vedrà.
Cardine è ancora una volta salvaguardare gli interessi delle élite vicine agli snodi del potere. Si decide così di non tassare gli extraprofitti delle banche. Di cosa si tratta? E’ semplice, negli ultimi anni le banche hanno ottenuto prestiti a tassi vicini allo zero dalla Banca centrale europea e adesso danno questi soldi in prestito come mutui o prestiti a tassi tra il 5 e il 6 per cento. Questa ricchezza, letteralmente piovuta dal cielo sotto le raffiche della tempesta inflazione, è generata dagli extraprofitti, profitti eccezionali, fuori dal comune. Ebbene, tassarli significherebbe andare contro gli interessi di individui e gruppi proprietari delle banche. E così si è deciso di farli confluire in un fondo creato da ciascuna banca da dove possono facilmente, ma sempre con accortezza, essere incamerati nel capitale della banca tax free.
Discorso analogo si fa per l’industria energetica, la società del gas che ha stipulato contratti annuali per periodi medio-lunghi a prezzi di gran lunga inferiori agli attuali non vede tassati gli extraprofitti prodotti dall’impennata dei costi energetici.
Certo quei soldi avrebbero fatto comodo, ma sostituirli è semplice: si crea una nebulosa di nuove tasse, tanto piccole da essere quasi insignificanti per il singolo individuo ma considerevoli se aggregate per lo stato. Quella delle microtasse è una trovata nuova, prima non ci aveva mai pensato nessuno: questa l’innovazione del governo. Tra le microtasse ce ne sono alcune che penalizzano le donne, come l’aumento dell’imposta sui pannolini, assorbenti, coppette per l’allattamento. Beni necessari, direi essenziali per donne e madri.
La protezione delle élite, dei soliti noti insomma, produce anche spese assurde e investimenti sbagliati. Il governo stanzia 11,6 miliardi di euro nell’arco di pochi anni per costruire il ponte sullo stretto di Messina quando non ha un centesimo per coprire 16 miliardi di euro di extra deficit. Meglio sarebbe stato rimandare la costruzione del ponte a quando le casse dello stato fossero state più in carne e spendere meno di un miliardo di euro per una flotta di traghetti veloci, di ultima generazione, che facciano la spola tra le due coste.
Stendiamo poi un pietoso velo sulle pensioni e sui meccanismi machiavellici per evitare che si vada in pensione anticipata: così facendo non si lascia il posto per i giovani.
In sintesi, la manovra colpisce ancora una volta il ceto medio, quello che le tasse, ahimè, le paga sempre e per tutti. Però ci si chiede: Giorgia lo sa che bastonare chi l’ha portata a Palazzo Chigi è un bell’errore? Lei non ha i miliardi di Berlusconi da elargire come caramelle, Giorgia la prossima vittoria elettorale se le deve guadagnare e se continua così non ce la farà.
(da ilfattoquotidiano.it)

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EREDITA’ BERLUSCONI, SORCINELLI RIFIUTA LO SFRATTO DALLA VILLA DI BERNAREGGIO: “FACCIO CAUSA AI FIGLI”

Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile

E RILANCIA: “MI SPETTANO ANCHE TRE MILIONI”

Dopo Barbara Guerra, anche l’altra frequentatrice delle «cene eleganti» di Arcore annuncia di non voler lasciare la casa che le fu data in comodato d’uso dal Cavaliere
«Il presidente voleva lasciarci serene per il resto della nostra vita. Ho molti audio dai quali emerge la grande umanità del Presidente e la sua volontà di donarci le abitazioni». Alessandra Sorcinelli decide di raccontare al Corriere della Sera i motivi che la vedono contrapporsi ai figli di Silvio Berlusconi. Questi ultimi – o meglio, le società che fanno capo a loro – hanno esortato le donne che un tempo frequentavano le «cene eleganti» di Arcore a lasciare le abitazioni date in comodato d’uso dal Cavaliere.
Prima di Sorcinelli, anche Barbara Guerra aveva annunciato che si opporrà allo sfratto: «Berlusconi la casa me l’ha donata, e ci vivo ancora. Me l’ha regalata, perché dovrei lasciarla?». Le due hanno ricevuto in comodato d’uso gratuito due ville a Bernareggio, una ciascuna, da un valore stimato di 800 mila euro. Entrambe assolte nel processo Ruby ter, hanno ricevuto un mese fa una lettera dall’immobiliare Dueville. «Quando mi è arrivata la raccomandata con cui mi si chiedeva di individuare una data per la restituzione dell’immobile sostenendo che il 31 dicembre prossimo scadrà il comodato d’uso, ho subito chiesto al mio avvocato Luigi Liguori di avviare una causa nei confronti della famiglia Berlusconi», annuncia Sorcinelli.
Il legame con il Cav
Il suo legame con il quattro volte presidente del Consiglio nasce nel 2005, quando aveva appena 21 anni. Dieci anni più tardi, nel 2015, il Cavaliere le concede il comodato «che non ha scadenza». E aggiunge: «Si tratta di un atto che rientra nell’accordo risarcitorio che il presidente ha fatto firmare sia a me sia a Barbara Guerra e che prevede anche una somma di denaro per i danni che abbiamo subito». Cifra quantificata «in 3 milioni di euro», e che si aggiunge alle due ville speculari di 600 metri quadrati, divisi su tre piani, più giardino. Case di un certo valore che, però, Sorcinelli prova a ridimensionare: si trovano «in una zona isolata in campagna, a 30 chilometri da Milano – e che valgono – quanto un appartamento di medie dimensioni a Milano, e nemmeno in centro».
Il giornalista chiede alla donna se ha paura a vivere da sola in campagna: «Un po’ sì, anche per la notorietà che purtroppo abbiamo avuto a causa del processo Ruby. Le nostre foto sono ovunque e chiunque può riconoscerci». Comunque, non ha intenzione di rinunciare all’immobile e il suo avvocato le consiglia di restare nella casa.
Poi, Sorcinelli dice che se l’aspettava questa iniziativa da parte delle società ereditate dai figli di Berlusconi: «Premesso che non avuto mai rapporti con i figli del Presidente, mi chiedevo se avrebbero rispettato il volere del padre, se avrebbero affrontato le cose analizzandole in maniera specifica, come la condizione nella quale si trovano oggi persone che per 12 anni sono state coperte di fango sui giornali».
L’intervistata ricorda anche come, all’epoca, viene siglato l’accordo per il risarcimento per il processo Ruby: «Il presidente voleva trovare una strada più che amichevole per realizzare questa cosa. Voleva lasciarci serene per il resto della nostra vita prendendo l’impegno di sistemare tutto, una volta per tutte dopo il processo. Siccome voleva evitare ulteriori strumentalizzazioni, cioè che prima della sentenza qualunque cosa fosse interpretata come una corruzione, si decise per il comodato e non la proprietà della casa che sarebbe arrivata dopo». Colloqui registrati tanto da Sorcinelli quanto da Guerra.
L’amicizia iniziata nel 2005
Come mai? «Perché volevamo tutelarci per il futuro. Il presidente ripeteva che voleva darmi la possibilità di affrontare la vita in maniera serena lasciandomi, dopo questa parentesi del processo lunga e molto pesante, un bel ricordo di quella che è stata un’amicizia durata negli anni. Ha fatto diverse proposte, poi si è arrivati all’accordo. Ho molti audio dai quali emerge la grande umanità del presidente e la sua volontà di donarci le abitazioni». Amicizia, niente di più, tra l’allora ragazza e il fondatore di Forza Italia: «Ha sempre manifestato massimo rispetto miei confronti. Una volta mi chiese se volessi diventare la sua fidanzata, io risposi che volevo solo restare sua amica. Mi vanto di avere avuto dal 2005 la sua amicizia. Anche Barbara era molto legata a lui. È per questo che aveva deciso di darci case vicino ad Arcore, diceva che così avremmo potuto incontrarci più facilmente. Quando a un certo punto io manifestai l’intenzione di andare all’estero nel pieno del processo, mi chiese di restargli vicino».
Al termine dell’intervista, Sorcinelli torna a parlare di Marina, Pier Silvio e degli altri figli del Cavaliere: «Se sono stati davvero loro ad aver preso la decisione di revocare il comodato d’uso, penso che non stiano rispettando il volere di una persona che non c’è più. Quando una persona scompare, con l’eredità lascia anche cose rimaste insolute che gli eredi devono sistemare. Fossi io figlia, mi chiederei cosa volesse fare mio padre. Mi aspetto che i figli vogliano chiudere questa vicenda senza lasciare persone frustrate e arrabbiate, costrette a fare causa per tutelare i propri diritti».
La causa, appunto, che Sorcinelli è intenzionata a muovere contro le società immobiliari legate alla famiglia Berlusconi. La donna, infine, risponde che oltre ad alcuni bonifici ricevuti anni addietro dal «presidente», non le è arrivato altro, «perché lavoravo». Tutt’oggi, afferma, lavora «nel mondo dello spettacolo, non in tv», ma preferisce non fornire ulteriori dettagli.
(da agenzie)

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TUTTI I PROGRAMMI CHE RISCHIANO DI SALTARE IN RAI DAL PRIMO GENNAIO (INCLUSO PINO INSEGNO)

Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile

FLOP DELLA RAI SOVRANISTA: COSTI ESOSI E BASSO SHARE

Se i programmi Rai della nuova era del governo meloniano sopravvivranno al panettone La Stampa oggi assicura che su lenticchie e cotechino c’è qualche perplessità. Da gennaio le cose, a Viale Mazzini, potrebbero cambiare.
Nel mirino – spiega il quotidiano torinese – finiscono il programma di Bianca Guaccero, quello di Max Giusti, e poi Nunzia De Girolamo su Raitre, il Mercante in fiera di Pino Insegno nel pre-serale di Raidue.
Lo share e i costi
Chi si salva dei nuovi arrivati, a livello di share, è solo Citofonare a Raidue (nel weekend) con Paola Perego e Simone Ventura che costerebbe 88 mila euro a puntata (20 puntare per un totale di 1 milione 760 mila euro) e nel trimestre analizzato strappa un +0,27% di share. Non va meglio nella terza rete, con Che Sarà che non eguaglia Le parole di Gramellini (-2,93% di share). Tutta colpa dei palinsesti. Non c’è una visione e nemmeno un coordinamento. Così si fissano 71 puntate del Mercante in fiera (del costo totale che si aggira sui due milioni) e si mettono i programmi in rivalità interna. «I Marano o Teodoli, dirigenti che conoscevano pure le virgole del palinsesto, non ci sono più – spiegano al quotidiano Torinese dalla Rai – e nemmeno gente di prodotto come Saccà, Minoli, Leone e il palinsesto, quindi, fa acqua da tutte le parti». Anche perché non sembra aver senso spendere tanti soldi quando Una scatola al giorno con Conticini viaggia sullo stesso share del Mercante in fiera. meglio investire su fiction internazionali al costo di 10 mila a puntata.
(da agenzie)

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MAREGGIATE IN LIGURIA, IL DURO SFOGO DEI VIGILI DEL FUOCO CONTRO I CURIOSI FRA LE ONDE: “BASTA RISCHIARE LA VITA PER DEGLI STUPIDI”

Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile

“SEMBRERA’ FORSE STRANO A QUALCUNO, MA ABBIAMO L’AMBIZIONE A FINE TURNO DI TORNARE A CASA DAI NOSTRI CARI”… IMBECILLI CHE SI AVVENTURANO TRA GLI SCOGLI E POI PER SALVARVI SONO I VIGILI DEL FUOCO A RISCHIARE LA VITA

Uno sfogo inusuale. Che per durezza rende perfettamente l’idea dell’esasperazione di chi ogni giorno è pronto a rischiare la propria vita per quella degli altri: «Il nostro lavoro consiste anche nel rischiare per salvare altri da condizioni di pericolo, indipendentemente dai motivi che hanno portato le persone a rischiare. Ma, vedete, sembrerà forse strano a qualcuno, ma abbiamo l’ambizione, a fine turno, di tornare a casa dai nostri cari. E rischiare di non tornarci per la stupidità di una evidente moltitudine, non ci rende sereni».
Il post è pubblicato sulla pagina Facebook del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Genova. Comparso dopo una giornata di quella che i previsori dell’Arpal avevano definito una “mareggiata storica”, e che non ha impedito ad alcuni (pochi, per fortuna) genovesi e liguri di avventurarsi in riva al mare o comunque vicino ad onde pazzesche, che hanno invaso piazze, trascinato in mare dehors e abbattuto locali.
Quelle stesse immagini, tra cui la piazzetta di Portofino invasa dall’acqua con gli avventori dei locali ancora ai tavolini, sono allegate allo sfogo dei Vigili.
Che scrivono: “Tre immagini trovate nel web. La quarta foto rappresenta il soccorso dei Vigili del Fuoco a una persona avventuratasi sugli scogli di Punta Vagno. Persona in gravi condizioni all’ospedale e gli stessi soccorritori colpiti più volte da onde rischiando loro stessi”.
Le altre due immagini ritraggono invece persone avventuratesi nella passeggiata di Nervi, con ogni probabilità proprio per scattare fotografie o farsi un selfie “estremo” nel mezzo di un evento eccezionale.
Centinaia i commenti di apprezzamento e di solidarietà degli utenti al post.
(da agenzie)

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