Novembre 21st, 2023 Riccardo Fucile
DARA’ IL COLPO DI GRAZIA ALL’ECONOMIA ARGENTINA
Ha vinto la motosega. Ed apparentemente non c’è stata partita.
Javier Gerardo Milei, il “Trump de las Pampas”, il pittoresco e scarmigliato castigamatti della “casta”, ha battuto Sergio Massa, ministro dell’Economia ed ultima, melliflua versione di quella sorta di “eternità argentina” che si chiama peronismo, per un sonoro 56 a 44, molto al di là dei pronostici che – in un’ennesima debacle per la sempre meno esatta scienza del sondaggismo – avevano profetizzato una battaglia all’ultimo voto. Domenica sera, quando Sergio Massa s’è rivolto al paese riconoscendo la propria sconfitta, non erano trascorse che due ore dalla chiusura dei seggi. Ed era bastata una mezzoretta per capire in quale inequivocabile ed irreversibile direzione stessero andando le cose. Milei stava vincendo ovunque. Solo nella capitale, Buenos Aires, Massa stava in qualche modo resistendo – sia pur con un risicatissimo vantaggio – a fronte d’una inequivocabile ondata di ripudio. In tutta la, chiamiamola così, “Argentina profonda”, avanzava, visibilissima, una totale debacle. Particolarmente dura quella subita a Córdoba, in tempi non lontani bastione peronista, dove Milei ha infine vinto con il 75 per cento dei voti.
Ha vinto alla grande, Milei. Ha vinto – e forse non poteva esser altrimenti – la rabbia del ‘que se vayan todos”, in quella che, mutatis mutandis, sembra una mitigata replica del dramma che, nel dicembre del 2001, aveva visto la fuga in elicottero di Fernando de la Rua, presidente radicale eletto due anni prima, dai tetti di una Casa Rosada circondata da folle inferocite. Ha vinto – ed ha vinto democraticamente, come lo stesso Massa ha cavallerescamente sottolineato esaltando, nella sconfitta, “la solidità e la trasparenza della democrazia argentina a quarant’anni dalla sua rinascita dopo la notte dell’ultima dittatura militare” – il “rompitutto” giunto dal nulla. O, meglio, lo stravagante “giustiziere” a colpi d’insulti e sceneggiate risalito, come una sorta di mostro di Loch Ness, dalle abissali e tragicomiche profondità dei peggiori talk show televisivi. Ed ha vinto anche – paradossalmente, ma non più di tanto – lo scolaretto spaurito e pasticcione, spaesato, nervoso e palesemente impreparato che, appena una settimana fa, l’oggi perdente Sergio Massa aveva portato a spasso, come un cagnolino al guinzaglio, nell’ultimo dibattito televisivo prima del voto.
Gli analisti politici più accorti l’avevano pronosticato. La patetica esibizione televisiva del “leone” Milei, il suo farsi pecora di fronte a Massa, avrebbe potuto diventare – come di fatto è diventato nel ribollente clima di un’Argentina devastata da un’economia allo sbando e da un’inflazione che sfiora il 150 per cento – un punto a suo favore. O, se si preferisce, un’ulteriore testimonianza dell’arroganza di quella “casta” che è oggi l’emblema d’ogni male passato, presente e futuro. Sergio Massa non aveva soltanto vinto quel dibattito, l’aveva stravinto, umiliando l’avversario. Ed umiliandolo lo aveva beatificato, martirizzandolo. O, fuori da ogni religiosa metafora, l’aveva aiutato rafforzando la sua immagine di salvifico “outsider”, offrendo all’elettorato una ragione di più per punire, votando il suo rivale, la strafottenza di chi oggi comanda.
Ancor più probabile, tuttavia, è che quel dibattito non abbia, in realtà, cambiato nulla in un’Argentina che già aveva, sostanzialmente e da tempo, emesso il suo verdetto. Massa poteva, a quel punto, vincere, stravincere o perdere rovinosamente. Ma per l’argentino “de la calle” era e restava quello che era: il ministro dell’Economia d’un governo che, per ovvie e validissime ragioni, veniva ritenuto responsabile del quotidiano disastro vissuto di fronte alle casse dei supermercati, al momento del pieno di benzina nelle stazioni di servizio, o all’ora di pagare l’affitto a fine mese. O, peggio, all’ora di non pagarlo nella prospettiva d’un imminente sfratto per insolvenza.
La domanda ora è: quale dei due Javier Milei, entrerà, tra un mese, nella Casa Rosada? Quello della motosega o quello, annichilito e timido, che ha fatto da impotente sparring partner a Sergio Massa nell’ultimo dibattito televisivo? Il vero problema è che, nell’uno o nell’altro caso, difficile è immaginare, nell’immediato (e anche non tanto immediato) futuro dell’Argentina qualcosa che appaia, per il Paese e per il nuovo presidente, più allettante d’un disastro.
Dovesse Milei attuare – cosa improbabile considerato che il suo partito, La Libertad Avanza, è in netta minoranza nel Congresso – tutte le drastiche (e in alcuni casi decisamente demenziali) cose da lui promesse agitando la “motosierra”, provocherebbe una sorta di economica apocalisse, come ricordato giorni fa da un documento sottoscritto da un centinaio di eminenti economisti. E, cosa ancor più importante, come testimoniato dall’allarme con il quale il mercato – vero caposaldo del culto liberista che Milei professa con toni da ayatollah – ha fin qui reagito di fronte alla sua avanzata (piaccia o no Sergio Massa è, a dispetto del deplorevole stato dell’economia argentina, considerato un fattore d’equilibrio dalla finanza internazionale).
E non molto meglio andrebbero le cose, dovesse il “vero” Milei risultare, alla prova della “vera” politica, lo scolaretto impreparato e timido che una settimana fa ha fatto, sugli altari del dibattito in tv, la figura dell’agnellino sacrificale. Dopo la prima tornata elettorale dello scorso ottobre, sul carro che ha portato Milei alla vittoria sono saliti – con ruoli che si presumono determinanti – personaggi che l’uomo della motosega aveva in passato classificato come tra i peggiori rappresentanti della “casta”. Vale a dire: l’ex presidente Mauricio Macri (da Milei a suo tempo definito “un delinquente massimo corresponsabile del disastro economico”), l’ex ministro della Sicurezza e candidata alla presidenza Patricia Bullrich (che Milei ha a suo tempo definito, rammentando il di lei passato di montonera, “un’assassina che metteva bombe negli asili infantili”) e, con loro, tutto l’apparato di Juntos por el Cambio (per l’appunto, il partito di Macri e della destra tradizionale).
Un carico pesante. Tanto pesante che non pochi – tra i sunnominati analisti politici più accorti – sono coloro convinti che, alla fine, il “delinquente” e l’ “assassina” finiranno per fare col Milei presidente, quello che, durante dibattito in tv, Sergio Massa ha fatto col Milei candidato. Ovvero: che lo porteranno al guinzaglio – lui l’indomabile e capelluto leone, lui il furente ma impreparato “rompitutto” – lungo i crinali di “normali” politiche economiche destinate, come già accadde nei quattro anni della presidenza Macri, a tradire ogni attesa, specie quelle, sproporzionate e messianiche, sollevate dal Milei in versione motosierra. Il tutto in attesa d’una ennesima rivincita peronista tra quattro anni.
Ieri notte, nel suo discorso della vittoria, Javier Gerardo Milei s’è fermato, per così dire, nella terra di nessuno che separa le due rappresentazioni di sé stesso. Lo ha fatto pomposamente riproponendo la natura “storica” della sua vittoria – “oggi comincia la ricostruzione dell’Argentina…”, “…oggi finisce l’età della decadenza e comincia una nuova era…” – ed invocando, come ogni demagogo e populista di destra che si rispetti, un mitico passato di gloria. Quello d’una Argentina che fu “potenza mondiale” e che tale, sotto il suo comando, tornerà ad essere. Ma lo ha fatto anche – inevitabilmente ricordando lo scolaretto umiliato da Massa – leggendo con toni inusualmente contenuti l’intero discorso, solo alla fine concedendosi al suo tradizionale e esaltato “Viva la Libertà, carajo!”.
Si vedrà. Di certo c’è che la vittoria di Milei è, sul piano internazionale, un indiscutibile trionfo della peggior destra. Quella dei Bolsonaro in Brasile e dei Kast in Cile. Quella di Trump. Quella di Vox in Spagna. Quella che in Brasile, come in Cile, come in Spagna, come in Italia, emette, ad ogni gesto e ad ogni parola, un inequivocabile tanfo di rivincita. La “Libertad” alla quale – con tanto di “carajo!” – va inneggiando Milei non è infatti soltanto quella, liberista e da tempo squalificata, della “impresa privata”. È anche – soprattutto per molti versi – quella di chi nega che in Argentina vi sia mai stata una dittatura militare. Solo due giorni fa, la vicepresidente prescelta da Milei, Victtoria Villaruel, ha reclamato lo smantellamento del Museo della Memoria allestita all’Esma in quello che fu il maggior centro di tortura della dittatura. E solo qualche giorno prima aveva difeso la sghignazzante battuta con la quale uno dei militari del tempo aveva orgogliosamente ricordato, ammiccando, come nel portabagagli della Ford Falcón (l’auto preferita dagli sgherri della Junta) entrassero, sia pur un po’ ‘apretadas”, ammucchiate, ben sette persone. Sette di quegli esseri umani che la dittatura arrestava, torturava e poi faceva sparire gettandone, dagli aerei dei “voli della morte”, i corpi nelle acque del Rio de la Plata.
Vale la pena ripeterlo. Come andrà a finire non si sa. Ma di certo non finirà bene.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 21st, 2023 Riccardo Fucile
NON SONO LE DONNE A DOVERSI DIFENDERE, SONO GLI UOMINI A NON DOVERLE UCCIDERE
Scoppia la polemica in Liguria sulla celebrazione del 25 novembre, e non solo: il presidente della Regione, Giovanni Toti, ha organizzato, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne un’iniziativa nella principale piazza del capoluogo che sta scatenando la protesta sui social, l’ha chiamata “EnergicaMENTE” e ha invitato “tutte le donne e la cittadinanza ad assistere e a provare le discipline di autodifesa sotto il porticato di piazza De Ferrari dalle 14 alle 17”.
“Invece di finanziare e rafforzare le strutture adeguate, Toti lancia un messaggio gravissimo e lo fa in piazza: “Imparate a difendervi da sole” – denuncia Eva, per conto dell’assemblea Non una di meno di Genova – invece di finanziare i soggetti che mettono a terra e realizzano i principi della convenzione di Istanbul, carica ancora una volta la questione sulle donne. E lo fa in piazza, come fosse uno dei suoi primati: lo scivolo in mezzo alla città, la focaccia più lunga del mondo. E intanto dal governo i centri antiviolenza non hanno ancora ricevuto i finanziamenti per poter funzionare. E intanto, l’unico presidio psicologico di Genova per vittime di violenza, in un unico pronto soccorso, al Galliera, sta in piedi grazie a due precari il cui contratto scade ogni sei mesi: eppure la sanità è competenza regionale”.
E le associazioni di donne, e non solo, della città stanno organizzando una manifestazione di protesta: “Non il 25 novembre, perché siamo già pronte a partire, come ogni anno, abbiamo fissato il pullman e partecipiamo alla manifestazione di Roma, tutte insieme – prosegue Eva – ma mercoledì sera protesteremo per le vie di Genova, con una “passeggiata furiosa”: contro il clima che respiriamo, ch ci dice che dobbiamo essere “brave” donne, fare figli e se vogliamo ci insegnano anche a difenderci”.
«Non sono le donne a doversi difendere. Sono gli uomini a non doverle uccidere. Il corso di autodifesa organizzato da Regione Liguria in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, il 25 novembre, è l’ennesima dimostrazione che la Regione di Toti non ha capito nulla del problema», attaccano anche le attiviste e gli attivisti di Generazione P, di fronte all’iniziativa della Regione Liguria. «Questa è ipocrisia – dicono Eleonora Bartolini e Fabrizio Aloi, attivisti di Generazione P – serve sicurezza nel rispetto, non nella paura. Così si delega alle donne il compito della propria sicurezza e quasi si attribuisce loro anche la responsabilità del fenomeno». «La Regione riconosce l’esistenza di un problema ma passa la palla alle donne su come affrontarlo», aggiunge Nadia Puntureri. «Tutto questo è assurdo: anziché corsi per difendersi bisognerebbe promuovere percorsi di educazione sessuale e all’affettività, psicologica ed emotiva».Secondo il collettivo Generazione P va resa obbligatoria l’educazione all’affettività nelle scuole. «L’indipendenza delle donne passa anche dalla loro indipendenza economica», interviene Ornela Casassa. «Serve prevenzione, educazione, rispetto, consapevolezza. Non siamo nel Far West dove la gente deve difendersi da sola. Se siamo a questo punto è anche e soprattutto per colpa di questa visione retrograda e superficiale frutto del patriarcato. Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale».
E sul caso interviene anche il Pd della Liguria: “Pensare che le discipline di autodifesa siano la soluzione per sfuggire o salvarsi da un uomo violento, significa caricare ancora una volta solo sulle spalle della donna la tutela della sua vita, che non passa da un gioco di forza, ma dal riconoscimento di diritti e dall’eliminazione di stereotipi e pregiudizi di genere – dice Davide Natale, segretario regionale del Pd – La Regione Liguria anziché prevedere un corso di autodifesa per aiutare le donne a proteggersi, presenti invece un progetto di educazione all’affettività con personale qualificato che coinvolga non solo le scuole, ma anche i luoghi di aggregazione. Con questa proposta la Regione svilisce il problema della violenza contro le donne, che è diventato un dramma e una piaga della nostra società”.
A innescare le polemiche, già nella serata di domenica, è stato il megaschermo in cui il presidente Toti ha trasformato la facciata principale della sede della Regione Liguria e su cui ha proiettato il volto di Giulia Cecchettin, con alcuni versi della poetessa Alda Merini: “Sembrava un saluto a una cara amica scomparsa. “Ciao Giulia” hanno scritto – denuncia l’assemblea Non una di meno Genova – il suo nome era Giulia Cecchettin, non era una loro amica, è stata ammazzata dal suo ex findanzato. L’ennesima vittima di violenza. Non c’è nulla da romanticizzare, con quei versi decontestualizzati”.
(da La Repubblica)
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Novembre 21st, 2023 Riccardo Fucile
PUO’ DIVENTARE DETERMINANTE PER IMPEDIRE CHE BIDEN O TRUMP ARRIVINO ALLA CASA BIANCA
Gli ultimi sondaggi che danno il presidente Joe Biden sceso sotto
la soglia del 40% dei consensi a causa della sua età e le crescenti riserve su Donald Trump anche tra i repubblicani, potrebbero stimolare l’ingresso sulla scena presidenziale di altri candidati sia nelle primarie dei partiti tradizionali che al loro esterno in quell’area che si è soliti chiamare dei “terzi candidati”. Qui vorrei esaminare cosa accadrebbe se vi fossero nel 2024 candidati terzi in grado di raccogliere un significativo pacchetto di voti popolari e/o di voti elettorali tale da distorcere il gioco bipartitico tra democratici e repubblicani e influire sul voto finale come è già accaduto in passato.
Al momento vi sono solo alcune intenzioni e voci di possibili “terze” candidature. Robert Kennedy Jr., figlio di Bob e nipote del presidente, ha dichiarato di volere correre da indipendente su una piattaforma anti-élite e anti-covid, ma dalla sua ha solo il cognome. Il senatore della Virginia occidentale, Joe Manchin, che non si ripresenterà l’anno prossimo al Senato, è oggi il più conservatore tra i democratici del Congresso in posizione strategica per garantire la maggioranza nella Camera alta al partito del presidente. Se decidesse di correre da presidente, magari in coppia con l’ex candidato repubblicano Mitt Romney, avrebbe qualche chance di attirare i voti centristi, che potrebbero essere determinanti per fare la differenza tra i due candidati maggiori.
Non sappiamo oggi se e quale “terzo incomodo” sarà in grado di presentarsi: se avesse una tendenza prossima ai democratici, gioverebbe al repubblicano; se guadagnasse voti a destra gioverebbe al democratico. È la logica del terzo candidato secondo il meccanismo elettorale presidenziale adottato nella Costituzione federale. Ogni Stato vale un certo numero di voti elettorali correlati alla popolazione (oggi dai 54 della California ai 3 di alcuni piccoli Stati del Midwest). Tutti gli Stati Uniti valgono 538 voti elettorali (pari a 435 membri della Camera, 100 senatori e 3 rappresentanti del distretto di Washington DC). Per essere eletto, un candidato deve raggiungere 270 voti elettorali: in ogni Stato il candidato che ottiene almeno un voto popolare in più conquista tutti i voti elettorali dello Stato. Se nessun candidato ottiene la maggioranza di 270 voti elettorali (e questo può accadere con un terzo candidato maggioritario in alcuni Stati), spetta alla Camera dei Rappresentanti a eleggere il Presidente. La difficile carta di trasferire l’elezione dal voto popolare al voto della Camera potrebbe essere usata dai repubblicani che oggi hanno la maggioranza tra i Rappresentanti.
Un po’ di storia dei terzi candidati può essere utile.
Nel 1968 il terzo candidato già democratico del Sud (Dixiecrat) Henry Wallace (American Independent) conquistando l’8,6% dei voti popolari e 46 voti elettorali negli Stati del Sud decretò la vittoria del repubblicano Richard Nixon che sopravanzò di poco il democratico Hubert H.Humphrey, vice-presidente di Lyndon Johnson. Nel 1992 Ross Perot (indipendente) ottenne il massimo dei voti popolari (18,9%) di un “terzo” candidato ma nessun voto elettorale con l’effetto di fare eleggere Bill Clinton (democratico) con la più bassa percentuale di voti popolari mai conseguita nel Novecento contro il presidente uscente, il repubblicano George H.W. Bush, e lo stesso accadde nel 1996 con un altro repubblicano. Nel 2000 i modesti voti popolari del verde Ralph Nader fecero vincere George W. Bush che aveva preso mezzo milioni di voti in meno di Al Gore (democratico) grazie a un contestato risultato della Florida dove i pochi voti di Nader avevano impedito la vittoria del democratico. Nel 2016 Donald Trump che aveva raccolto 3 milioni di voti popolari in meno di Hillary Clinton (62,9 milioni contro 65,8) vinse grazie ai voti popolari che si erano riversati su un terzo candidato tendente a sinistra.
Diverse voci qualificate si sono ripetutamente levate per abbandonare il sistema federale misto di elezione e a favore del calcolo basato solo sulla maggioranza del voto popolare. Ma l’equilibrio tra il peso della popolazione e il peso degli Stati è centrale nella Costituzione federale ed oggi rappresenta il bastione dei conservatori. Infatti, è la composizione del Senato dove la parità di rappresentanza (2 senatori) tra i piccoli Stati interni e i grandi Stati metropolitani delle coste che garantisce la forza dei tradizionalisti “rurali” bianchi rispetto ai metropolitani “urbani” multietnici. La sfida tra Biden e Trump con l’etichetta dei due partiti tradizionali, dunque, può essere distorta da eventuali candidati terzi di cui potrà essere fatto un uso strumentale da parte dei candidati maggiori, in particolare da Trump. Certamente nessun “terzo” candidato può aspirare a vincere la presidenza ma può divenire determinante per impedire che l’uno o l’altro dei due candidati maggiori arrivi alla Casa Bianca.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 21st, 2023 Riccardo Fucile
MELONI ALLA LARGA DAL PPE PER EVITARE GLI ATTACCHI DELLA LEGA… ALLA KERMESSE SOLO I REDUCI DA SCONFITTE ELETTORALI IN EUROPA
Pochi e alleati, già stabili e rodati. Nessuna espansione verso altre famiglie politiche, a cominciare dal Ppe. L’edizione 2023 di Atreju, in programma a metà dicembre a Roma, si annuncia a dir poco contenuta. Della scelta di Elly Schlein di declinare l’invito di Giorgia Meloni si sa. Ma alla kermesse di Fratelli d’Italia non parteciperanno nemmeno altre personalità di livello internazionale che pure, spiegano fonti del partito, “hanno un ottimo rapporto” con la premier. Nel weekend alcuni rumors indicavano la possibilità che Ursula von der Leyen e Roberta Metsola potessero essere le ospiti d’onore di Atreju. Non sarà così, apprende Huffpost da diverse fonti europee. La presidente della Commissione europea e la presidente dell’Eurocamera, esponenti di punta del Partito popolare europeo, non ci saranno per scelta politica di Meloni. Questo non vuol dire che FdI non sia pronta a sostenere la tedesca per un bis alla presidenza della Commissione europea dopo le elezioni di giugno. Al contrario: il sostegno c’è, il rapporto pure, ma per ora è meglio non farsi vedere troppo insieme. Motivo: il fuoco amico della Lega nella campagna elettorale già ben avviata anche nella stessa maggioranza di governo
È questo il ragionamento che ha portato la premier e i suoi a evitare di invitare von der Leyen e Metsola ad Atreju. L’idea è anche stata presa in considerazione, ma si è deciso di evitare perché sarebbe stato un boccone ghiotto per Matteo Salvini, che non aspetta altro che prove della ‘deriva’ moderata di Fratelli d’Italia per attaccare.
Ultimamente, per dire, la Lega ha preso di mira l’eurodeputato di Forza Italia Fulvio Martusciello per le sue dichiarazioni sul fatto che “nella prossima legislatura Forza Italia sarà comunque in maggioranza, sia nel caso di una maggioranza più spostata a destra sia nel caso di una maggioranza con le forze socialiste”. I leghisti non aspettavano altro. “Dopo anni di disastrose maggioranze tra popolari e socialisti che hanno fatto solo danni in Europa, stupisce che qualcuno già oggi, a circa sette mesi di distanza dalle elezioni europee, possa annunciare l’intenzione di far parte della maggioranza in Ue a prescindere da chi governerà, se centrodestra o centrosinistra – è la nota della delegazione al Parlamento europeo – Davvero qualcuno pensa non ci siano differenze, tra uno schieramento e l’altro? Al contrario di altre forze politiche che sembrano suggerire fin da subito inciuci o accordi contronatura, la Lega ha le idee ben chiare e sa da che parte stare, coerente con i propri valori, con le proprie idee e con le proprie battaglie. Noi lavoriamo per un centrodestra unito in Europa, alternativo all’attuale maggioranza capitanata dai socialisti che amano tasse, austerità ed estremismi green. Noi mai con la sinistra”.
Al quartier generale del partito della premier di Giorgia Meloni è scattato già l’allarme. Il rischio è di finire sotto il tiro di Salvini e dei suoi, pronti a scatenare l’inferno contro gli inciuci con la sinistra nel post-europee. È infatti probabile che, dopo il voto, la premier si ritrovi a sostenere il bis di von der Leyen alla presidenza della Commissione europea insieme al Ppe e insieme ai Socialisti&Democratici, che, malgrado tutti i malumori accumulati per il posizionamento troppo filo-israeliano della leader tedesca nell’ultima crisi mediorientale in corso, non hanno altre figure spendibili per un ruolo del genere. Dunque, è possibile che dopo le europee il gruppo dei Conservatori e riformisti si ritrovi a contrattare posizioni e nomine con l’attuale maggioranza formata da Ppe e socialisti. La Lega dovrà decidere se seguire le trombe elettorali del suo gruppo Identità e democrazia, formato da forze politiche che stanno all’opposizione e non al governo nei loro rispettivi paesi, come Marine Le Pen. Oppure se accomodarsi su una posizione più affine ad un partito di governo com’è il Carroccio in Italia oggi. Per ora il bivio produce solo una propensione agli attacchi degli alleati, da Forza Italia alla stessa premier
Da qui la scelta di lasciar perdere gli inviti alle personalità del Ppe per Atreju 2023. “Von der Leyen ha un ottimo rapporto istituzionale con Meloni, Metsola ha anche un ottimo rapporto personale con la premier – ci dicono fonti parlamentari europee – Entrambe sono del Ppe. Ma noi ora non abbiamo interesse a dare segnali che potrebbero essere letti come un avvicinamento nostro al Ppe oppure come uno schiacciamento al centro, che lascerebbe spazio a destra, alla Lega. Quindi continuiamo a lavorare bene con loro, ad auspicare un asse con il Ppe dopo il voto, ma senza dare segnali strumentalizzabili”.
Stringi stringi, il cerchio degli invitati si riduce alla ridotta degli alleati storici, che peraltro al momento non brillano di vittorie elettorali. Ad Atreju è confermata la presenza di Santiago Abascal, il leader dei nazionalisti spagnoli di Vox, reduci da un flop elettorale a luglio che ha impedito ai popolari spagnoli di ottenere una maggioranza per governare. Qualche giorno fa Meloni ha ricevuto Abascal a Roma, non una parola invece sul neonato governo socialista di Pedro Sanchez, in barba ai protocolli diplomatici tra gli Stati. Ad Atreju ci sarà un esponente dei sovranisti polacchi del Pis, ma sarà una figura minore, non il premier uscente Mateusz Morawiecki, battuto alle elezioni del 15 ottobre scorso dalla coalizione guidata dal moderato di centrodestra Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo ed esponente del Ppe. In forse la presenza di Rishi Sunak, il premier britannico con cui Meloni ha stretto quella che viene esibita come un’intesa politica nuova ma stretta. Incastri di agenda mettono a rischio la presenza a Roma dell’inquilino di Downing Street, si apprende. Nessun esponente di Fidesz invitato: se Meloni non può flirtare con von der Leyen, d’altro canto non può nemmeno farsi vedere con Viktor Orban, per non rovinare le pur utili connessioni con il centrodestra moderato a livello europeo.
Ad Atreju niente stelle e tutto in famiglia, come in un fortino in difesa piuttosto che in attacco.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 21st, 2023 Riccardo Fucile
IL 21,4% DEI PLESSI SI TROVA IN AREE A RISCHIO IDROGEOLOGICO
L’anno scolastico è iniziato da circa 2 mesi e, nonostante la pausa
estiva abbia consentito di svolgere i lavori di messa in sicurezza, è tornata puntuale la questione crolli. Sono 24 quelli registrati dall’associazione Cittadinanzattiva e anticipati da LaPresse. I dati completi verranno pubblicati il prossimo 22 novembre, Giornata nazionale della sicurezza nelle scuole del 22 novembre. L’anno scorso, su 9 mesi di scuola, erano stati contati 61 cedimenti di parte delle strutture scolastiche. Cittadinanzattiva mette in luce anche un altro dato allarmante: «Più di un milione e mezzo di studenti frequenta edifici in aree di pericolosità idraulica». Ovvero, il 21,4% degli istituti si trova in aeree a rischio idrogeologico e idraulico. «Le cifre sono un’elaborazione Soluxioni srl su open data del ministero», viene spiegato nel lancio di agenzia. Tra i plessi considerati a rischio, il 3,1% – 1.420 strutture – si trova in aree a pericolosità o probabilità elevata, il 6,2% – 2.854 strutture – in zone a pericolosità o probabilità media e il 9,6% – 4.372 strutture – in situazione di pericolosità o probabilità bassa. «In totale si parla di 1.944 scuole in Emilia Romagna, 1.745 in Toscana, 1.163 in Lombardia, 1.136 in Veneto», ha riferito Cittadinanzattiva.
(da agenzie)
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Novembre 21st, 2023 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO CON I GENITORI, L’ADOLESCENZA DA ROCKSTAR, IL CIUFFO E IL TRUCCO CON EFFETTO “CONTOURING” COME KIM KARDASHIAN
Non ci si annoia mai con l’ex “istruttore del sesso tantrico” Javier Milei, eletto presidente dell’Argentina. Milei – che è anche un importante economista e conduttore di chat-show radiofonici – ha parlato della sua preferenza per il sesso a tre, del perché ritiene che i poveri dovrebbero essere liberi di vendere le loro parti del corpo e di come gli piaccia comunicare per telepatia con il suo cane morto per avere consigli politici.
Il libertario di estrema destra è anche un ammiratore di Donald Trump, e si vede: il focoso personaggio è salito rapidamente alla ribalta giurando di “cacciare i politici a calci nel sedere” e inveendo contro la “casta” elitaria che, a suo dire, governa l’Argentina.
Lo showman populista e star della TV, i cui comizi frenetici e gli sproloqui sui social media evocano anche The Donald, respinge il riscaldamento globale come una “menzogna socialista” e dice che abolirebbe gran parte del governo del Paese, fino alla sua assediata banca centrale.
Milei ha ottenuto una vittoria shock in gran parte grazie al sostegno dei giovani elettori, talmente disincantati dai politici più “convenzionali” da rivolgersi a un uomo la cui recente biografia è stata intitolata El Loco (Il pazzo).
Sconosciuto in politica fino a soli tre anni fa, Milei, 52 anni, è stato eletto al Parlamento argentino nel dicembre 2021 come deputato del partito “La Libertad Avanza”. Preferisce definirsi un anarco-capitalista, il che significa che vorrebbe eliminare il più possibile l’intervento del governo nella vita delle persone e lasciare tutto al libero mercato.
“Se dovessi scegliere tra lo Stato e la mafia, sceglierei la mafia”, ha detto una volta. Perché la mafia ha dei codici, la mafia si adatta, la mafia non mente. E soprattutto la mafia compete”.
Il suo cosiddetto “piano della motosega” per tagliare lo Stato comprende la soppressione del sistema sanitario ed educativo pubblico argentino e la chiusura di dieci dei 18 dipartimenti governativi.
(da dailymail)
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